George Carlin |
Una delle prime cose che un bambino impara a scuola – se non l’ha prima imparato in famiglia – è che le parole non sono tutte uguali: esistono parole e parolacce, parole buone e parole cattive. Le prime vanno bene, le seconde no. Un bambino può e deve chiedere alla maestra di andare in bagno; non può e non deve chiederle di andare al cesso. Se lo fa, la maestra lo richiama. Se insiste, la maestra comincia a preoccuparsi: c’è nel bambino qualcosa che non va.
Cosa c’è che non va in un bambino che dice cesso invece di bagno? A pensarci, la parola cesso e la parola bagno indicano esattamente la stessa cosa. Coprono, cioè, lo stesso campo semantico, sono due significanti che hanno lo stesso significato. Cesso non è dunque una parola imprecisa. Perché allora non va bene? Perché ha un brutto suono, dirà qualcuno. Le parolacce sono tali perché suonano male? Ma se così fosse, dovrebbero essere parolacce anche messo, nesso, lesso. Sono tutte parole che hanno un suono quasi identico a cesso: eppure non sono considerate parolacce. Culo è una parolaccia, ma mulo va benissimo. Cazzo è una parolaccia, ma pazzo e razzo no. Perché, allora, il bagno non si può chiamare cesso, il sedere non si può chiamare culo, il pene non si può chiamare cazzo? Perché siamo in una società stratificata. Una società, cioè, in cui non c’è uguaglianza. Esistono le classi sociali, ovvero ci sono persone che hanno più soldi e persone che hanno meno soldi, persone che hanno più potere e persone che hanno meno potere, persone che hanno più status e persone che hanno meno status. Ci sono, insomma, i ricchi e i poveri. E i ricchi sono quelli che decidono, per così dire, le regole del gioco. Sono quelli che controllano le istituzioni, a cominciare dalla scuola, e grazie a questo controllo hanno il potere di decidere quali, tra le idee in circolazione, sono giuste e quali sbagliate, quali accettabili e quali inaccettabili. La stessa cosa fanno con le parole. I ricchi decidono quali parole sono parole e quali parole sono parolacce. Non è difficile capire perché, allora, bagno va bene e cesso no. Bagno è la parola che usano i ricchi, cesso la parola che usano i poveri. E le parole che usano i poveri non sono parole, ma parolacce.
I ricchi sembrano ossessionati dal sesso. Ci pensano talmente spesso, che avvertono il bisogno di rimuovere tutto ciò che vi fa riferimento. Non riescono ad avvertire il sesso come qualcosa di naturale. Ne sono attratti irresistibilmente e, proprio per questo, lo temono. E’ per questo che gli innumerevoli termini che i proletari usano per riferirsi al sesso ed ai suoi strumenti sono, per i ricchi, parole oscene. Se proprio bisogna parlare di quello che uomini e donne hanno tra le gambe, bisognerà usare parole dal sapore scientifico: pene e vagina. Cazzo e fica non vanno bene, così come il rapporto sessuale è fare l’amore, non scopare. Soprattutto, il sesso è come il nome di Dio nella Bibbia: non bisogna nominarlo invano. I poveri hanno questo spiacevole vezzo, di infilare di continuo nel discorso termini sessuali. Anche questo non sta bene. Lo fanno anche i ricchi, a dire il vero, ma loro sanno che c’è differenza tra sfera pubblica e sfera privata, tra ciò che si può dire in pubblico e ciò che è bene dire in privato. Probabilmente la vita politica sarebbe più facile e comprensibile se, poniamo, un presidente della Repubblica alle prese con una difficile crisi di governo, sbottasse: “Mi sono rotto i coglioni”. Ma non starebbe bene. Occorre che faccia dei giri di parole per dire più o meno la stessa cosa.
Una parola ha un solo compito: quella di essere precisa. Di indicare esattamente qualcosa. Ogni parola che indica esattamente qualcosa è una parola, ogni parola ambigua – che sembra indicare una cosa, ma in realtà ne indica un’altra – è una parolaccia. Le parole cattive, le parolacce, sono le parole ipocrite, quelle che vengono usate per ingannare. Esiste un’etica della parola che si può riassumere in questo semplice imperativo: usa le parole per dire la verità o per cercarla insieme agli altri, mai per ingannare e per far apparire le cose diverse da come sono. Sono parolacce, parole oscene, tutte quelle che coprono la realtà invece di svelarla. A ben vedere, siamo immersi nelle cattive parole, ma non sono quelle che crediamo. Sono le parole della politica, sono le parole dell’economia, sono le parole della pubblicità. Anche parole straordinariamente belle subiscono un processo di corruzione e finiscono per non significare più nulla di preciso. Cosa vuol dire, oggi, libertà? Un tempo era la parola che usavano gli oppressi ed indicava l’ideale perseguito nella loro lotta contro gli oppressori. Oggi è una parola di cui si sono appropriati gli oppressori, ed indica appunto la possibilità di opprimere senza troppi impacci.
Permettetemi, allora, un elogio dei quelle altre parole: quelle che sembrano cattive, ma cattive non sono. Le parole dei poveri, che non hanno diritto di cittadinanza a scuola ma che non mancano di comparire nella letteratura, perché per fortuna i poeti e gli scrittori veri sono ben diversi dai professori di italiano; le parole degli oppressi, dei disprezzati, dei diversi; le parole incerte di coloro che sono in cammino per liberarsi dall’oppressione e cercano la verità nell’epoca dell’inganno eretto a sistema.