Diamo una possibilità di scelta ai bambini

Qualche sera fa osservano, in pizzeria, un gruppo di cinque bambini che occupavano il margine di una tavolata. Ognuno di loro aveva lo smartphone, sul quale stava giocando, ma non isolato dagli altri; si mostravano lo smartphone l’un l’altro, commentando. A un certo punto la bambina più grande del gruppo ha invitato gli altri a mettersi in posa. Ha scattato una foto, poi non soddisfatta del risultato ne ha fatta un’altra, e un’altra ancora. Quando il risultato l’ha convinta, ha mostrato la foto agli altri. Quindi l’ha mandata in rete – su WhatsApp, immagino – e ha atteso i commenti. I bambini sembravano divertirsi molto.

Ho ripensato a questa scena partecipando, a Cesena, a un bel convegno che il Centro di Documentazione Educativa ha dedicato alla figura di Gianfranco Zavalloni, il compianto autore della Pedagogia della lumaca. Educatore, ma anche artista (trovo meravigliosi, per poesia, raffinatezza e semplicità, i suoi disegni), Zavalloni era una di quelle rare persone che mettono in tutto quello che fanno l’impronta di una gioia di vivere in grado di resistere ad ogni offesa della vita. Si parlava, al convegno, delle trasformazioni del gioco e dell’infanzia. Che ne è, oggi, dei giochi che hanno accompagnato l’infanzia per secoli? Chi gioca ancora alla campana, o alla lippa? Lo schermo dello smartphone ha preso il posto della strada, come ambiente ludico.

Per chi è cresciuto giocando in strada o, con più fortuna, in campagna, sbucciandosi periodicamente le ginocchia, sporcandosi, facendo un baccano terribile che suscitava le ire degli anziani del quartiere, spaccando vetrine e retrovisori delle automobili parcheggiate, questa mutazione è difficile da accettare. Semplicemente, non sembra normale. Non sembra normale che i bambini si muovano così poco (e non mancano bambini cui i genitori, per rendere meno faticosi i purtroppo inevitabili spostamenti fisici, comprano l’hoverboard), che passino tanto tempo davanti a uno schermo, che non vivano la città, e ancor meno la natura. Gianfranco Staccioli, tra i maggiori esperti italiani di pedagogia ludica, si è chiesto – e ha chiesto – quanta libertà effettiva vi sia in questo modo di giocare. I bambini giocano, o sono giocati? Certo, all’industria fa comodo che i bambini giochino così. Fa girare l’economia, aumenta il PIL. Ma è un bene per i bambini?
Zavalloni è autore, tra l’altro, dei Diritti naturali dei bambini e delle bambine, che comprendono il diritto di sporcarsi, di usare le mani, di giocare in strada, di arrampicarsi sugli alberi. Un diritto che i bambini in gran parte hanno perso. Ma è quello che vogliono i bambini, o si tratta di quello che noi pensiamo che dovrebbe essere e fare un bambino, legato alla nostra esperienza di adulti che sono stati bambini in tempi ormai lontani? Detto altrimenti: rispettare oggi un bambino non vuol dire, anche, prendere atto del suo rapporto con i dispositivi digitali?

L’errore che facciamo è quello di considerare uno smartphone come un semplice strumento, mentre
esso è diventato da tempo, ormai, qualcosa di diverso: un senso. Il nostro sesto senso. Occhi, orecchie, naso, olfatto, tatto e smartphone. Non sembri una battuta: non lo è. Lo smartphone diventerà sempre più parte integrante del nostro corpo – sta succedendo già con gli smartwatch – perché ci dà accesso ad una seconda realtà, cui apparteniamo non meno che a quella cui gli altri sensi ci danno accesso. Per moltissime persone, ormai, la vita si svolge a questi due livelli. Andiamo in un ristorante, mangiamo, poi lo recensiamo su Tripadvisor. O meglio: scegliamo un ristorante leggendo le recensioni su Tripadvisor, ci andiamo, mangiamo, ci facciamo qualche foto da mettere su Facebook ed Instagram o da mandare agli amici su WhatsApp, poi facciamo la recensione su Tripadvisor. Lo smartphone ci dà accesso a questo secondo livello della nostra esperienza, che nelle nostre vite di adulti si è presentato ad un certo punto, ma che per i bambini c’è da sempre. Per loro vivere vuol dire stare tra queste due realtà, che nella loro esperienza sono pienamente integrate. Faccio questa analisi senza esprimere alcun giudizio. Credo che la sospensione del giudizio sia un esercizio sempre utile, e doveroso quando c’è il rischio di moralismo. E tuttavia non posso non riflettere su quel dubbio insinuato da Staccioli. I nostri bambini giocano, o sono giocati? La loro esclusione dalle strade e dalle piazze è un fatto che dobbiamo accettare come inevitabile, o qualcosa da rimettere al centro della nostra riflessione pubblica?

Può essere che un bambino trovi, nella realtà digitale cui accede attraverso lo smartphone, le stesse possibilità di una esperienza ricca, divertente, avventurosa che un bambino degli anni Ottanta trovava giocando nelle strade, nei cantieri dei palazzi in costruzione, negli orti. Ma noi adulti abbiamo il dovere di offrire loro una alternativa. Di dar loro la possibilità, anche, di arrampicarsi sugli alberi, di correre in bicicletta, di sbucciarsi le ginocchia correndo nei prati. Di metter loro davanti un giocattolo fatto di legno o di latta o di materiali riciclati, come alternativa alle app; o meglio: di insegnare loro come si costruisce un giocattolo. Può essere che preferiscano comunque lo smartphone, ma può essere anche che (ri)scoprano la ricchezza, la bellezza e il divertimento del mondo cui si accede con i cari vecchi cinque sensi.

C’è un diritto dei bambini dal cui riconoscimento dipende la possibilità di tutti gli altri diritti, compresi i dieci di Zavalloni, ed è il diritto di essere liberi dalla paura. In una società attraversata da vecchie e nuove paure, è inevitabile che la paura collettiva finisca per scaricarsi sui bambini. Ai quali può capitare di tutto, se si affacciano al di fuori degli ambienti protetti della famiglia della scuola. Lo stesso tragitto dalla prima alla seconda, e poi dalla seconda alla prima, deve avvenire sotto la stretta sorveglianza dell’adulto. Siamo estremamente premurosi con i bambini. Ma premura viene da premere: e premere può significare essere vicino, ma anche schiacciare.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 19 novembre 2017.

Il bambino è apertura al mondo

Cane da caccia. Disegno di Carlo Michelstedter.

Il bambino incarna una diversità radicale. Gran parte di ciò che comunemente si chiama educazione consiste nell’esorcizzare, limitare, controllare, arginare, incanalare e finalmente spegnere questa diversità. Affinché l’opera riesca occorre che sia tacitamente condivisa la percezione del bambino come non-persona o come persona parziale: occorre, infatti, molta violenza, che sarebbe ingiustificabile ed inaccettabile se al bambino fossero pienamente riconosciuti la dignità ed i diritti di una persona.

Ad inquietare del bambino è, in primo luogo, la sua libertà. Egli si colloca all’origine, sta nella dimensione magmatica dalla quale la società è nata con una serie di progressive solidificazioni, fino a diventare il sistema di regole, di compromessi, di ipocrisie che è. Non dà per scontato, il bambino, nulla di ciò che è scontato, ed in questo modo ci mostra quotidianamente che il mondo in cui viviamo, il mondo che abbiamo costruito o cui abbiamo dato il nostro tacito consenso, evitando di ribellarci, non è che uno dei mondi possibili: e non il migliore.
Non sa che farsene, il bambino, di cose per le quali gli adulti darebbero la vita, ed è pazzamente innamorato di cose che per gli adulti valgono meno di nulla. Per un bambino – per un bambino che non sia stato corrotto dagli adulti – non esiste lo status, quella cosa per la quale gli adulti sono disposti a fare ogni cosa. Perché non è per il denaro che un adulto cerca il denaro, né desidera il potere per il potere. Cerca queste cose per essere riconosciuto dagli altri, affinché la sua misera persona risplenda quanto più è possibile.
Diceva Hegel che nessuno è un eroe per il proprio cameriere. Deve sentirsi un po’ imbecille, al cospetto del proprio bambino, l’uomo che consuma la sua vita nell’impresa di far carriera, sacrificando tutto il suo tempo e le sue energie, accettando compromessi ed inghiottendo rospi. Deve sentirsi imbecille, di fronte a quella vita beata, al di qua di ogni preoccupazione sociale, di quell’ansioso e insensato inseguire sé stesso. Ma è un imbarazzo che dura un attimo, presto soccorso dalla commiserazione per quell’esserino che non sa come va il mondo, e cui bisogna insegnare tutto.

Cominciando dal dovere. Anzi, dai doveri: perché c’è il dovere morale e c’è il dovere sociale. Il primo consiste nei criteri del bene e del giusto, del fare e del non fare, che i genitori consegnano con qualche trepidazione ai loro figli, sperando spesso che non li prendano troppo sul serio. L’altro, il dovere sociale, consiste nell’impegno, posto precocemente sulle spalle del bambino, di contribuire alla ricerca familiare dello status. Dovere che si concretizza, per ora, nel dovere scolastico, che è il primo gradino del dovere sociale. Gli piaccia o no, serva o no alla sua crescita, abbia a che fare o meno con l’apprendimento, il bambino deve studiare e prendere buoni voti. Il successo scolastico è la prima forma di conquista dello status. Un bambino che non va bene a scuola è, per una brava famiglia borghese, motivo di vergogna: uno che pianta in asso la sua famiglia, dopo tutto ciò che essa ha fatto per lui. Il bambino che ha successo è invece un trofeo da esibire in società. Non è un caso che abbiano introdotto i voti fin dalla prima elementare. Già il bimbo di sei anni ha da essere fiero della sua pagella piena di dieci e guardare con qualche disprezzo chi ha voti meno buoni. E’ così che gli adulti portano la guerra nel mondo dei bambini. E’ così che comincia la corruzione, l’uscita dal paradiso infantile e l’ingresso nell’inferno degli adulti.
Il piccolo Carlo Michelstaedter raccoglie per strada un cane randagio, lo porta in casa e gli fa il bagno. E’, per lui, un modo per mettere in pratica i valori di amore e bontà che gli ha insegnato la sua famiglia. Ma qualcosa va storto: scoprendo la cosa, i genitori si arrabbiano a cacciano via il cane. Probabilmente si ricorderà di questa scena quando anni dopo scriverà, in quel capolavoro che è la sua tesi di laurea (La persuasione e la rettorica), una critica durissima dell'”educazione civile”, quel sistema di premi e castighi con il quale si fa del bambino un membro adattato ed irresponsabile (adattato in quanto irresponsabile) della società.
Il bambino è apertura al mondo. Considerarlo un organismo dedito esclusivamente alla ricerca del piacere – un piccolo mostro di egoismo – è uno dei modi per esorcizzare la sua differenza. Questo piccolo narcisista è in realtà un essere capace di guardare le cose e gli esseri con interesse assoluto: sta, etimologicamente, tra e nelle cose. Non ha ancora conquistato lo sguardo dall’alto, distaccato ed analitico, di chi domina, usa, riduce a sé. E’ un soggetto che non è emerso ancora dalla natura, non si è distaccato da essa per studiarla scientificamente e sottometterla attraverso il lavoro. Attraverso l’educazione questo essere che sta tra le cose e gli esseri imparerà l’arte del dominio, si avvertirà signore e padrone, diventerà l’homo faber che trasforma il mondo e ne fa il suo strumento. Dominatore e al tempo stesso dominato, signore della natura ma schiavo del suo sistema sociale ed economico, manipolato in ogni istante della sua vita, costretto alla produzione ed al consumo compulsivo, riuscirà a salvarsi, forse, solo se si ricorderà di essere stato bambino.

Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.

Se i bambini diventano nemici

Calcio per strada
(www.maidirecalcio.com)
Chi si trovi a passare oggi davanti allo stadio “Pino Zaccheria” di Foggia non può immaginare quello che era quel posto negli anni ottanta. Il vasto piazzale antistante lo stadio – ora chiuso da cancelli – era interamente colonizzato ed attentamente lottizzato da bambini ed adolescenti. In decine di campi di calcio tirati fuori dall’asfalto a forza di immaginazione, con le porte delimitate da semplici pietre, centinaia di ragazzini si esercitavano nella nobile arte del calcio. Ma la festa non si limitava a quell’area, che pure ne era il centro. Ogni marciapiede, ogni slargo, ogni pezzo d’asfalto libero era buono per giocare a pallone. Se lo spazio era poco, si poteva giocare a pallamuro, una variante rumorosissima della pelota. Se era un luogo tranquillo, senza molte automobili, si poteva azzardare una partita a mazza e bustico, variante popolare dell’antico gioco della lippa: con una mazza di legno si colpiva un fuso, che partiva a grande velocità – finendo spesso per centrare qualche passante.
Non era una vita facile, sia chiaro. Allo stadio il tuo pezzo di campo dovevi conquistartelo. Non era infrequente che dai quartieri popolari scendessero tribù ostili, che ti intimavano di lasciar loro il campo al più presto, minacciando in caso contrario le violenze più efferate (e spesso, per risparmiare il fiato, cominciavano senz’altro con queste ultime). C’erano poi quelli che ti bucavano il pallone, o che si rifiutavano di restituirtelo se finiva nelle loro mani. Per un certo periodo abbiamo giocato a pallone su un pezzo di marciapiede che era davanti alla Sala del Regno dei Testimoni di Geova. A volte il pallone finiva nella sala durante una delle loro riunioni, ed occorreva farsi coraggio per andare a recuperarlo in quel consesso religioso – che in genere lo restituiva senza farsi troppo distrarre dalla cosa. Peggio andava quando il pallone finiva sul terrazzino che sovrastava la sala. In quel caso bisognava arrampicarsi, ed il coraggio necessario era il doppio, perché il padrone del terrazzino era uno 007.
A volte il pallone finiva contro lo specchietto di un’automobile, e per quanto si facesse in fretta a correre via e nascondersi, tornando a casa si trovava inevitabilmente la propria madre furiosa per aver già ricevuto la visita del proprietario dell’automobile che pretendeva il risarcimento del danno. Una volta – si era allo stadio – riuscimmo a far saltare gli occhiali ad un passante senza nemmeno sfiorargli la testa.
Ho accennato agli 007. Per noi ragazzi di strada degli anni ottanta gli 007 erano quei pensionati la cui unica attività riconoscibile consisteva nel darci la caccia. Persone con un sistema nervoso estremamente sensibile, preso a martellate dai nostri palloni e dalle nostre grida. Li chiamavamo 007 perché avevano la capacità ammirabile di comparire quando meno te l’aspettavi. Nel bel mezzo della partita, quando gli animi cominciavano a scaldarsi, compariva lo 007, e la partita era finita. O meglio: ricominciava da qualche altra parte.
Negli anni ottanta c’era una guerra tra i ragazzini ed i pensionati, tra il diritto al gioco ed il diritto al riposo. Considerando come sono andate le cose, è difficile negare che abbiano vinto loro: i pensionati. Del resto, l’età media si è innalzata, ci sono più vecchi che bambini. Una vittoria anagrafica. (Hanno vinto i vecchi: può essere una buona sintesi di qualche decennio di politica italiana.)
Le strade si sono svuotate, sono diventate sempre più silenziose, eppure mai abbastanza silenziose, perché la retorica della quiete pubblica è insaziabile. Una città non è mai abbastanza silenziosa, per chi esige silenzio. Lo sarà, forse, quando diventerà un immenso cimitero, ed i morti saranno gli unici a far compagnia ai vecchi.
I bambini passano la loro vita chiusi in casa. Una vita da gatti, più che da cani. Quei pochi che ancora tentano una qualche appropriazione degli spazio pubblici diventano nemici da perseguitare formalmente. L’azione degli 007 non basta più: ora occorre che si muovano le autorità. Ed è così che alcuni paesi del Barese vietano formalmente ai bambini di giocare: le contravvenzioni, per chi sia trovato a giocare per strada, giungono fino a cinquecento euro. A sorprendere non è tanto l’ordinanza, quanto ciò che l’ordinanza presuppone: che cioè esistano ancora dei bambini che giocano per strada.
Tre circostanze hanno portato via i bambini dalle strade. La prima è la paura dei genitori. Oggi si fanno meno figli – spesso uno soltanto – e si presta loro una attenzione assoluta, che per lo più ha risvolti negativi. Si vive nel costante terrore che possa succedere loro qualcosa, che quell’unico bene possa essere minacciato da qualche malintenzionato. Si sentono tante cose brutte, del resto. E veniamo alla seconda circostanza: l’ossessione securitaria. Negli ultimi decenni ci siamo lasciati sempre più convincere che le nostre città sono piene di pericoli, che ad ogni angolo si nasconda un’insidia. I dati oggettivi dicono il contrario, ma i dati oggettivi contano poco, se la televisione martella con notizie di cronaca nera. E dunque ci si chiude in casa e si vota per chi promette di cacciar via tutti coloro che rappresentano minacce reali o potenziali (evitando di posare l’attenzione sulle minacce reali, naturalmente; su coloro che fanno prosperare i propri interessi finanziari a spese della collettività). Quel che è peggio, si chiudono in casa (o in ambienti protetti) i bambini. In questo modo – e veniamo alla terza circostanza – si interpreta anche una esigenza del sistema. Nella società dei consumi bisogna essere consumatori: è un imperativo al quale non si può derogare. Chi non consuma non esiste. Ora, dei bambini che giocano al pallone per strada non solo dei consumatori. Il loro consumo si limita al pallone: poca cosa. Non pagano per usare la strada o il marciapiede; sono al di fuori della logica del commercio. Se li chiudiamo in casa e li piazziamo davanti ad un televisore o ad un computer, li trasformiamo in consumatori: consumatori di programmi televisivi (telespettatori), consumatori di prodotti pubblicizzati dalla televisione, consumatori di videogiochi, e così via. Se proprio vogliono uscire, possiamo mandarli in palestra, o in piscina, o alla scuola di calcetto (ma non avviene così spesso, a giudicare dalla preoccupante obesità dei bambini); oppure a scuola di violino, o di danza. Pagando, naturalmente. E’ così che anche i bambini fanno girare l’economia.
Non sorprende l’ordinanza, ho detto; ma indigna. Indigna che si sia così ciechi da non capire che il fatto che esistano ancora dei bambini che giocano per strada è un patrimonio comune da tutelare, e non un problema da combattere aggiungendo i bambini – i bambini liberi, non ancora aggiogati al consumo – alla lista infinita dei nemici del sistema dei consumi e del benessere.

Editoriale per Stato Quotidiano.