Tutto è merce, tutto si può comprare e vendere, anzi tutto si deve comprare e vendere. Anche gli esseri umani.
Tutto, in quanto merce, è superficie, apparenza, vetrina. Vivere vuol dire stare nella vetrina ed attrarre i clienti: sedurre, portare con sé. Nessuno è escluso dal gioco universale della seduzione. Ad un corpo non è concesso di diventare vecchio. Occorre che si mantenga sempre giovane, perché non cessi di sedurre. Anche a costo di diventare ridicolo. Donne di quarant’anni si gonfiano le labbra a dismisura, uomini di settant’anni ottengono dalla chirurgia un volto finto in cambio delle loro rughe autentiche. Questo si chiama, oggi, bellezza: il tentativo disperato, triste, patetico di sedurre, di costringere a volgere lo sguardo, di imporre la propria presenza. Una degenerazione della bellezza e del suo senso. Se la bellezza autentica porta sempre con sé una scheggia di sofferenza con la quale ci ferisce e ci commuove, dandoci il presentimento di un altrove, la bellezza sguaiata delle merci, che spesso confina con il mostruoso, tiene avvinti al qui ed ora, è la negazione di ogni trascendimento, avanza una arrogante pretesa di appagamento totale.C’è una ingiunzione che viene dalle cose stesse, per così dire; una indicazione esistenziale fondamentale che respiriamo con l’aria sociale nella quale siamo immersi fin dalla nascita. Nel mondo capitalistico, questa ingiunzione dici: venditi! mettiti sul mercato! cerca compratori! E, al tempo stesso: acquista! circondati di beni! possiedi! desidera! Bisogna desiderare, desiderare molto; e al tempo stesso non desiderare affatto. Il desiderio nel mondo capitalistico consiste nell’avvertire la mancanza di una merce. Mancanza che spinge all’acquisto (senza che il desiderio possa colmarsi, altrimenti non si acquisterebbe più). Tutto cospira per evitare invece l’altro desiderio, il desiderio autentico, che consiste nell’avvertire la mancanza, e l’urgenza, di un mondo altro. La società capitalistica si autodefinisce società del benessere: non c’è altrove possibile, non c’è nulla da desiderare al di fuori dei beni di consumo, non c’è che da rilassarsi e godersi la vita nel mondo finalmente liberato. Poiché il desiderio è la molla della storia, il capitalismo può proclamare trionfalmente che la storia è finita. Non c’è più un posto verso il quale andare, non ci sono più rivoluzioni da fare. La millenaria storia dell’uomo, il suo tortuoso cammino, le sue infinite guerre, paci, rivoluzioni, restaurazioni hanno messo capo, infine, a questo: la civiltà dell’ipermercato, del telequiz, del reality show.
Eppure c’è il male. Il sistema non riesce ad occultarlo del tutto; lo rinchiude, lo confina, lo porta fuori dalla scena, ma non può eliminarlo. E c’è, oltre il male – oltre la malattia, la vecchiaia, la morte – il malessere. C’è chi beve, c’è chi si droga, c’è chi è depresso, c’è chi si suicida. E non sono pochi. I depressi, gli alcolizzati, i suicidi nella società capitalistica sono di più che nelle società povere. Questo accade, mi sembra, per due ragioni. La prima è l’eclissarsi della dimensione della interiorità. Nel capitalismo si vive alla superficie, si è la propria pelle, si interpreta fedelmente la parte prevista dal ruolo sociale. Finché qualcosa non va storto; finché non si precipita, ad esempio, in una falla del sistema, e si resta senza lavoro; o fino a quando non si getta uno sguardo sul male. Allora ci si trova al cospetto di sé stessi, ed è una esperienza nuova, alla quale non si è abituati. Distratti fin dalla nascita, volti costantemente verso qualcosa di esterno, quando il sistema si inceppa ci si ritrova assolutamente nudi, esposti alla sofferenza, incapaci di dominarla e di dominarsi. Si cerca allora disperatamente qualche rimedio spirituale, ma il più delle volte ci si imbatte nuovamente in qualche merce, in qualche rassicurante – e inautentico – sistema di certezze pronte per l’acquisto. La seconda ragione è il venir meno di autentici vincoli umani. Nelle società pre-capitaliste esiste una vasta rete comunitaria che circonda l’individuo e lo sostiene. Nel capitalismo questa comunità si frantuma, si sfalda, si polverizza; è una società di individui-atomi che si aggregano momentaneamente secondo le leggi dell’interesse e dell’utile. Le stesse relazioni di aiuto – si pensi a quella tra lo psicoterapeuta ed il suo paziente – sono mercificate. La gente paga per avere qualcuno che l’ascolti. La cura degli anziani, che un tempo era un sacro dovere dei figli, è ora affidata alle badanti. Gli stessi bambini passano sempre più tempo con persone che sono pagate per occuparsi di loro.
Si direbbe una società epicurea e cinica. Non è né l’una né l’altra cosa. Epicuro distingueva piaceri naturali e necessari, piaceri naturali ma non necessari e piaceri né naturali né necessari, e raccomandava di soddisfare i primi, di limitare i secondi e di evitare in ogni caso gli ultimi. Basterebbe seguire l’insegnamento di Epicuro, più che quello di Marx, per mandare in crisi il capitalismo, un sistema che è fondato sulla esplosione dei piaceri non naturali né necessari. Quanto ai cinici, perseguivano l’ideale di una vita austera, indifferente ai piaceri ed al potere, rigorosamente povera. Non è epicurea né cinica, così come non è cristiana, francescana, buddhista e così via. E’ una società che ha perso il contatto con i grandi maestri dell’umanità, con il patrimonio immenso di spiritualità e morale autentica che è racchiuso – in mezzo a tante sciocchezze, idiozie, crudeltà – nelle grandi tradizioni religiose. Non che non sia in grado di venerare Cristo, Francesco d’Assisi o il Buddha. Al contrario: lo fa benissimo. Venerare è una cosa che si accorda perfettamente con il capitalismo. Quello che non si accorda col capitalismo è cambiare la propria vita per seguire il loro esempio. Camminare con il Cristo, con Francesco d’Assisi, con il Buddha. Un cammino il cui primo passo consiste nell’essenzializzarsi, nel liberarsi da ogni zavorra, nel cercare la povertà, nell’esigere l’autenticità.
Nella società delle merci e dei consumi diventa particolarmente difficile la scelta, la decisione che è al fondo di qualsiasi educazione, e che si può così formulare: dobbiamo educare a stare in questa società oppure ad esprimere nel modo più pieno sé stessi? In una società meno alienata della nostra, le due cose possono coincidere, almeno in parte. Nella nostra no. L’educazione dipende inevitabilmente da una scelta politica. Si tratta di decidersi per il capitalismo o contro il capitalismo, di essere conservatori o rivoluzionari. Porsi il problema vuol dire aver già acquisito una consapevolezza critica. In genere ciò non accade. Senza nemmeno accorgersene, si educa come vuole, anzi esige il sistema. E’ così che ai bambini, che naturalmente giocano con tutto ciò che capita loro sotto mano, si regalano ben presto dei giocattoli, ossia delle merci, dei beni prodotti dall’industria. Nel giro di qualche anno il bambino è già un consumatore perfetto. Passa ore davanti alla televisione, esposto a centinaia di spot pubblicitari che gli dicono cosa deve desiderare, quali beni deve chiedere ai genitori di acquistargli. Poi va a scuola, dove impara che se fa quello che dice e vuole la maestra otterrà un buon voto, ossia una prima assegnazione di status. Prima ha imparato ad acquistare, ora impara a vendersi: a sei anni sa già tutto ciò che gli occorre per vivere nel sistema.
Una volta che il problema sia posto, che fare? Basta acquisire consapevolezza dell’alienazione, per liberarsene? Non sarà la liberazione stessa una delle infinite illusioni del capitalismo? E’ possibile fare una educazione realmente rivoluzionaria? E’ possibile, ma non è facile. Il problema educativo si risolve in quello politico di creare spazi liberati dal dominio e relazioni non mercificate. Non si tratta di educare i bambini e poi i giovani ad una visione politica rivoluzionaria (o che si pretende tale): ciò sarebbe violenza, imposizione di un’ideologia. Si tratta, invece, di creare per i bambini, per i giovani, per gli adulti stessi situazioni nelle quali possano sentirsi accettati, comunicare, sperimentare, creare al di fuori di ogni logica economica. Situazioni di autenticità, nelle quali si sia a contatto con un valore. La scuola propone ogni giorno agli studenti cose che hanno valore, ma senza che vi sia alcun vero contatto. Ciò accade per diverse ragioni: la mancanza di libertà di scelta, l’approccio nozionistico, la logica del successo. I sonetti di Petrarca vengono imparati a memoria, se il docente lo richiede; ed analizzati, sezionati, approfonditi criticamente al fine di ottenere un buon voto (ossia successo). Petrarca è un mezzo, non un fine; ed un mezzo è tutto il resto. E’ impossibile cogliere un valore avvicinandosi ad esso con una logica strumentale, poiché il valore è esattamente ciò che si contrappone all’utile. Poiché il sistema capitalistico è centrato sulla distrazione e sulla miopia, un gesto rivoluzionario è fare attenzione, approfondire lo sguardo, cercare di vedere lontano. O dentro di sé.
Uno tale spazio educativo era il gruppo “Una via” animato da Pier Cesare Bori, compianto filosofo e storico delle religioni che ha fatto incontrare la tradizione quacchera del silent meeting, la pratica del silenzio di gruppo, con la meditazione vipassana del buddhismo theravada. Durante gli incontri del gruppo si leggevano e commentavano testi appartenenti a tutte le tradizioni religiose e filosofiche (tra gli ultimi testi ed autori letti prima della scomparsa di Bori, nel novembre dello scorso anno: la Genesi, Agostino d’Ippona, il Dhammapada, Zhuangzi, Thich Nhat Hanh); seguivano il silenzio o la meditazione. Nel documento-base del gruppo si legge: ” Lo scopo di ‘Una via’ è di aiutarsi a percorrere (in piena libertà, e senza alcuna prospettiva di vantaggio) una via comune che, perseguendo la bellezza – la “virtù e conoscenza” – conduca alla Realtà Unica, comunque la si chiami, nell’attenzione costante a coloro cui, per vari motivi, la dignità è negata”. In queste poche parole ci sono gli elementi-chiave di uno spazio libero dalla mercificazione: la libertà, la mancanza di ogni prospettiva utilitaristica, la bellezza e l’impegno. E’ interessante quest’ultimo elemento. Può sembrare che la meditazione ed il silenzio abbiano poco a che fare con l’impegno. Non è così. Essi agiscono come una igiene spirituale che, rimuovendo la polvere depositava dall’alienazione capitalistica, lascia emergere la compassione autentica di cui ognuno è capace. Ed è questa compassione – che è passione per l’altro – ad esigere un impegno che è costruzione, qui ed ora, di una alternativa al sistema delle merci.