29 aprile, lunedì

Questa mattina ho accompagnato i miei studenti ad una specie di partita del cuore: gli studenti di un istituto tecnico contro gli ospiti di una casa di accoglienza per extracomunitari. Prima della partita la preside tenta di prendere la parola. I suoi studenti la sommergono di fischi. Penso: dev’essere una pessima preside, per essere odiata così dai suoi studenti anche dopo aver organizzato una cosa del genere. Ma mi sbaglio. Nella mia carriera di docente (mi si passi l’ossimoro) ho visto gli studenti degli istituti tecnici e professionali fischiare e dileggiare chiunque. Ci sono passato anch’io, una volta che mi lasciai malauguratamente coinvolgere in un incontro con i poeti locali (mi si passi questo secondo ossimoro). Perché lo fanno? La risposta è, forse, nelle cose che dicevano qualche giorno fa le mie studentesse di prima. Che, cioè, chi studia è un “Pierino”. Usano il termine esattamente nel senso del “Pierino del dottore” di don Milani. Pierini sono i professori, più Pierini sono quelli che scrivono libri e che fanno conferenze per parlare agli altri. E i Pierini vanno fischiati (perché nemici di classe? può essere).

Seduto tra gli spalti ho finito di leggere Storia di un corpo di Pennac. Correndo il rischio di mettermi a piangere davanti ai miei studenti. La storia del declino inesorabile, e inesorabilmente doloroso, di un corpo colpisce alcune delle mie paure più radicate. Non la paura della morte, ma la paura del consumarsi del corpo e del dolore. Se ci rifletto meglio, mi accorgo che non è proprio del dolore che ho paura. Sono in grado di sopportare il dolore, se è una cosa che viene dal mio corpo – come i terribili mal di schiena che a volte (ma fortunatamente non succede da due anni) mi costringono all’immobilità. Vi vedo quasi un richiamo alla consapevolezza, per dirla buddhisticamente. No, a terrorizzarmi è il dolore che viene dal di fuori; o anche solo il fastidio: basta che ci sia qualcuno che fa qualcosa con il mio corpo. Mi spaventano le pur banali analisi del sangue – e mi basta nominarle o sentirle nominare per flettere automaticamente il gomito (come sto facendo ora), quasi a difendermi dall’intrusione di un ago immaginario. Ciò di cui ho terrore è essere in balìa di altri. Che qualcuno faccia del mio corpo qualcosa, mentre non sono cosciente. Terrore di dover essere operato, più di ogni altra cosa. Essere operato: essere oggetto per l’altro. Corpo, null’altro che corpo.
Tornando dallo stadio ho visto due poliziotti che indicavano educatamente, facendo anche un disegno su un pezzo di cartone, la strada ad un ragazzo africano. Devo ricordamene quando mi succederà di discutere di poliziotti.

Ramakrishna e il medico

Ramakrishna

Nell’ottobre del 1885 Ramakrishna è a letto, tormentato (per quanto può esserlo un santo, s’intende) dalla malattia – un cancro alla gola – che l’anno seguente lo condurrà alla morte. Circondato dalle premure dei discepoli, è affidato alle cure del dottor Mahendralal Sarkar, un luminare dell’omeopatia fondatore della Indian Association for the Cultivation of Science. Il medico non riesce a nascondere un certo fastidio per l’adorazione che i suoi discepoli hanno per Ramakrishna. Rivolto a uno di loro, afferma: “Fate qualsiasi cosa, ma vi prego di non adorarLo come Dio. Facendo così, voi state semplicemente rovinando questo sant’uomo!”. Ed al discepolo che risponde che no, per lui è impossibile non adorare chi gli ha permesso di sfuggire allo scetticismo, replica:

Io sostengo che tutti gli uomini sono uguali. Una volta ci portarono da curare il figlio di un droghiere. Le sue budella evacuavano. Tutti si tapparono il naso con la parte terminale dei loro vestiti, ma io non lo feci. Sedetti con il bambino per mezz’ora. Non metto la pezza al naso neanche quando lo spazzino mi passa vicino con le ceste sulla testa. No, questo per me è impossibile. Lo spazzino non è affatto meno umano di quanto non lo sia io; perché dovrei guardarlo dall’alto in basso? Per quanto riguarda questo sant’uomo, pensate che io possa salutare e baciare la polvere dei suoi piedi? Guardate. (Il dottore saluta e bacia la polvere dei piedi del Maestro). (1)
Parlando così, il dottore (al quale non mancava una certa rude franchezza) probabilmente ripensava ad un apologo che aveva ascoltato dallo stesso santo per condannare l’egoismo e la vanità: una spazzina che lavorava al tempio di Dakshineswar si era montata la testa per qualche gioiello che possedeva, ed era giunta perfino a  dire alla gente che intralciava il suo lavoro: “Ehi gente! Toglietevi di mezzo!” (2). La cosa fa ridere il santo, poco sensibile alle riforme sociali; molto meno il medico. Sono, si direbbe, due anime dell’India contemporanea che si scontrano: quella tradizionale, che cerca la liberazione e l’Assoluto, e quella, condizionata dall’Occidente, che si preoccupa dell’immanenza e del progresso.
Abbiamo lasciato il medico intento a baciare i piedi del santo. Il discepolo non fa in tempo a rallegrarsene, che il medico continua:
Sembra che pensiate che salutare i piedi di una persona sia qualcosa di meraviglioso! Non capite che io posso fare la stessa cosa a tutti. (A una persona sedutagli civino) Ora, signore, permettetemi di salutare i vostri piedi. (A un altro) Ed ora a voi, signore. (A un terzo) E a voi, signore. (Il dottore saluta i piedi di molti). (3)
A ben vedere, non si tratta in realtà della contrapposizione tra fede laica nella scienza e nel progresso e fede come unione con l’Assoluto. Il dottor Sarkar è probabilmente più vicino a Ramakrishna dei suoi discepoli. L’insegnamento fondamentale di Ramakrishna è che Dio è in tutto, Dio è tutto. “Io vedo che tutto ciò che è, è Dio. Quindi a che serve ragionare su di Lui? Di fatto io vedo che tutto ciò che è, è Dio” (4). Se le cose stanno così, allora non è privo di senso soltanto ragionare su Dio; è privo di senso anche venerare un santo come un Dio – come se non fosse Dio chiunque. E’ santo, è Dio anche lo spazzino che passa con la cesta sulla testa; è santa, è Dio anche la spazzina vanitosa di cui Ramakrishna ride. Gandhi, che chiamava harijan (figli di Dio) i paria, lo ha compreso.
(1) Maestro Mahasaya, Il Vangelo di Sri Ramakrishna, tr. it., Edizioni Vidyananda, Assisi 1993, p. 227.
(2) Ivi, p. 222.
(3) Ivi, p. 228.
(4) Ivi, p. 193.

24 gennaio, giovedì

Ha mangiato ma non le basta, gira inquieta alla ricerca di cibo, mi fissa con un’aria mesta quando mangio, in attesa di un boccone pietoso. Pare che sia l’esser stati randagi, l’aver girovagato per anni, e ora trovi da mangiare ora no, e quando trovi non fermarti ma mangia anche per quando non ce n’è, e cerca sempre, cerca perché può essere che per molto tempo non si trovi nulla – pare che l’esser stati randagi non sia revocabile. Si resta randagi per sempre, con una fame che non si estingue, che brucia e brucia e brucia.
E’ così che vivono molti. Randagi, un tempo; ora hanno una casa e un affetto, ma restano affamati, alla ricerca di un boccone, di qualcosa che quieti la voragine di dentro, ed ogni boccone è insufficiente, ogni sorriso diventa presto pianto, ogni gioia si converte in dolore, e scorre nelle vene come acido.

6 gennaio: epifania

Stavo salendo su una strada di montagna. Non le Alpi, nemmeno l’Appennino. Una di quelle strade del nostro Gargano, che salgono attorcigliandosi intorno al monte. Man mano che procedevo il panorama si allargava: e respiravo. Ad un certo punto – per una di quelle incoerenze senza le quali i sogni non sarebbero sogni – mi sono trovato ad attraversare un lembo di mare, l’impidissimo tra le rocce. Ho tolto le scarpe per procedere nell’acqua. Ma le scarpe mi si sono immediatamente riempite di granchi. Ne toglievo uno, e subito ne spuntava un altro. Ho capito presto che avrei combattuto all’infinito la mia battaglia contro i granchi: e che non sarei andato oltre.
Mi sono svegliato. La stanza era buia. Sentivo respirare. Ho pensato che fosse mia sorella. Quando ero ragazzino io e i miei fratelli dormivamo in cucina: io e mio fratello in un letto  a castello, mia sorella in un letto singolo, oltre il tavolo della cucina. Sono qui, mi sono detto; qui a casa dei miei, con i miei fratelli. L’incoscienza del risveglio, in quell’attimo in cui ancora non è stato caricato il programma dell’io. Un attimo, appunto. Poi sono diventato quel che sono: un uomo che ha appena compiuto quarantun’anni.
Questo sbalzo temporale mi ha lasciato una sensazione difficile da definire, confusa, impastata di molte cose, tra le quali la nota rilevante era una certa amarezza.
Io non credo nel pensiero, e non credo nei nomi. Quando pensiamo siamo alla superficie di noi stessi, nello sforzo – inutile? – di renderci intellegibili agli altri. Quel che siamo è al di là dei nomi e del pensiero. Siamo come uno gettato in mare, che fa grandi sforzi per restare a galla, ma presto viene sommerso dai flutti e va a fondo. Cerchiamo di tenerci a galla afferrandoci ai nomi ed ai concetti, ma quello che siamo è un fiume senza forma, nel quale costantemente siamo sommersi.
C’era questo, dunque: io non io, quarantenne di quindici anni, nel mio letto di morte. Io non sono quello, ma non sono nemmeno questo. E: io sono questo, e quello. तत्त्वमसि. Io qui, nella forbice del non essere, del non qui. Tra la nascita e la morte. La non nascita e la non morte.

L’altro nell’io

IL PROBLEMA di Shinran: come è possibile, attraverso la pratica dell’io, sradicare l’illusione dell’io? Come può un io salvarsi dall’io?

La soluzione di Shinran è nell’abbandono ad Amida. E’ Amida che compie l’opera, è la forza dall’esterno che irrompe ed opera la conversione. La pratica lascia il posto alla fede.

Ma è, questa, una soluzione? Se l’io è io, e null’altro che io, sono possibili atti che non siano egoistici? Non sarà anche il voto ad Amida un atto egoistico? Può l’io affidarsi all’altro, restando io?

Il passo ulteriore è quello di considerare l’irrompere dell’altro assolutamente indipendente da qualsiasi atto dell’io, sia esso di carattere gnostico o devozionale. Dio, o Buddha Amida, o la Realtà irrompe oltre i limiti dell’io, lo apre, lo spacca: e lo salva. La salvezza è indipendente da qualsiasi atto; la grazia non ha a che fare con i meriti. All’uomo non resta nulla da fare. Anche porsi in attesa è un atto paradossale: può realmente un io porsi in attesa dell’irruzione che lo sgomina? Una tale attesa non può essere che insincera, se ogni atto dell’io è necessariamente egoistico.

Ma c’è un’altra possibilità, ed è quella di considerare diversamente l’io. Forse l’io non persegue solo scopi egoistici; forse c’è anche, nell’io, qualcosa d’altro, una luce nascosta nel buio, una urgenza che chiede altro; un elemento spirituale che spinge l’io oltre l’io. C’è, forse, una morte che abbraccia la vita dell’io, o una vita che abbraccia la morte che è l’io. E’ questo altro dall’io che è nell’io che si manifesta nella malinconia improvvisa, nel senso di spaesamento, nella disperazione, nel senso di disgrazia da cui nessuno, credo, è immune; e, forse, ha a che fare con il dolore che sempre accompagna la bellezza.

Due forme

DUE forme di dolore, due forme di gioia.

Il piccolo dolore e la piccola gioia appartengono all’io: sono la frustrazione per le aspirazioni insoddisfatte o la gioia per le aspirazioni realizzate. In entrambi i casi l’io è chiuso in sé, ferito e rancoroso o soddisfatto e pieno di vigore.

Il grande dolore e la grande gioia spingono l’io verso il suo oltre. Nel grande dolore non è questa o quella aspirazione che viene frustrata, ma è la vita stessa, nella sua totalità, che si mostra impossibile. L’io vacilla, tutte le certezze che ci trattengono nel regno dei nomi e delle forme si fanno evanescenti: manca letteralmente la terra sotto ai piedi. Si brancola nel buio, persi nell’indistinto. Il mondo si fa sogno ed incubo, le cose intangibili, l’altro distante ed ostile. Non c’è via, non c’è salvezza. Tutto trema ed è pronto a disfarsi.

E’ quando questo disfacimento giunge a compimento che il grande dolore si apre alla grande gioia. Nella quale, pure, resta una traccia del dolore da cui proviene, del nulla da cui scaturisce e che l’informa di sé. E’ una gioia ebbra, materiata di lacrime e di abbandono, che ha la durezza del distacco e della decisione: un attimo prima di spegnersi nella pace.