Etty Hillesum: estratti dal Diario

Etty Hillesum

Il Diario che Etty Hillesum ha tenuto dal 1941 al 1943, prima di finire i suoi giorni ad Auschwitz, non è soltanto uno straordinario documento storico sul periodo più buio della storia contemporanea, ma appartiene a pieno titolo alla storia della mistica. E come tutti i testi di mistica autentica, esso provoca qualche disagio al credente, che ne è al tempo stesso attratto e respinto. Attratto, perché si tratta del diario di una ragazza che affronta con animo sereno, perfino felice, la tragedia dell’Olocausto grazie alla forza che le dà Dio: e quale testimonianza migliore del potere della fede? Respinto, perché quella di Hillesum non è fede nel senso comune del termine, né il Dio di cui parla è quello che si prega nelle chiese. Etty Hillesum spiega con grande chiarezza che il suo Dio non è altro che “la parte più profonda” di sé stessa. Non un altro-da-sé, ma la parte più nobile di sé. Come per ogni mistico, non si tratta di rendere culto ad un Ente o a una Persona, ma di essere, di realizzare Dio. C’è un fondo dell’anima in cui l’io-non-più-io diventa Dio.
In termini buddhistici, si dirà che c’è in ognuno la natura-Buddha (tathāgata-garbha), la possibilità di diventare un Buddha, ossia un essere libero dalla sofferenza e capace di amore e compassione. E’ questa consapevolezza che consente ad Hillesum di amare anche i nazisti: “disseppellire Dio” nel nemico vuol dire aiutarlo a ritrovare in sé questa natura luminosa, che nessuna brutalità potrà soffocare fino al punto da renderla irraggiungibile.
I passi che seguono sono tratti dall’edizione integrale del Diario (Adelphi, Milano 1996).

Ed ecco che improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero liberatore simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto d’erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero. Questo non significa essere indulgenti nei confronti di determinate tendenze, si deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire, ma quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. É una malattia dell’anima.

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Penso che lo farò comunque: «mi guarderò dentro» per una mezz’oretta ogni mattina, prima di cominciare a lavorare: ascolterò la mia voce interiore. Sich versenken, «sprofondare in se stessi». Si può anche chiamare meditazione; ma questa parola mi dà ancora i brividi. E del resto, perché no? Una quieta mezz’ora dentro me stessa. Non è sufficiente muovere braccia, gambe e tutti gli altri muscoli nel bagno, ogni mattina. Un essere umano è corpo e spirito. E una mezz’ora di esercizi combinata con una mezz’ora di «meditazione» può creare una base di serenità e concentrazione per tutto il giorno. Non è però una cosa semplice, quella stille Stunde, «ora quieta»; bisogna impararla. Prima è necessario spazzare via dall’interno tutte le insignificanti preoccupazioni, i detriti. In fin dei conti, persino in una testolina così piccola c’è sempre una montagna di distrazioni irrilevanti. É vero che ci sono anche sentimenti e pensieri edificanti, ma il ciarpame è sempre presente. Sia questo, dunque, lo scopo della meditazione: trasformare il tuo spazio interiore in un’ampia pianura vuota, senza tutta quell’erbaccia che impedisce la vista. Così che qualcosa di «Dio» possa entrare in te, come c’è qualcosa di «Dio» nella Nona di Beethoven.
E anche qualcosa dell’«Amore», ma non quella sorta di amore di lusso in cui ti crogioli di buon grado per una mezz’ora, orgogliosa dei tuoi sentimenti elevati, bensì amore che puoi applicare alle piccole cose quotidiane.
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Sono presuntuosa nel dire che possiedo troppo amore per darlo a una persona sola? L’idea che per tutta la vita si debba amare sempre e soltanto una persona mi sembra così infantile. Può impoverire e inaridire parecchio.
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Riassumendo, vorrei in realtà dire questo: la barbarie nazista fa sorgere in noi un’identica barbarie che procederebbe con gli stessi metodi, se noi avessimo la possibilità di agire oggi come vorremmo. Dobbiamo respingere interiormente questa inciviltà: non possiamo coltivare in noi quell’odio perché altrimenti il mondo non uscirà di un solo passo dalla melma.
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In fondo, la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio. E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che presta ascolto alla parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio.
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Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa. Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarTi affinché Tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini.
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Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo.
M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani, credo che cerchino Dio dentro di sé.
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Sono molto stanca.
Sono in grado di sopportare questo tempo presente, lo capisco persino un poco.
Se sopravviverò a questo tempo e se allora dirò: la vita è bella e ricca di significato, bisognerà pur credermi.
Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile.
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Vorrei poter raggiungere le paure di quell’uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori, Klaas, è l’unica cosa che possiamo fare di questi tempi.
Allora Klaas ha fatto un gesto stanco e scoraggiato e ha detto: Ma quel che vuoi tu richiede tanto tempo, e ce l’abbiamo forse? Ho risposto: Ma a quel che vuoi tu si lavora da duemila anni della nostra èra cristiana, senza contare le molte migliaia di anni in cui esisteva già un’umanità – e che cosa pensi del risultato, se la domanda è lecita? E con la solita passione, anche se cominciavo a trovarmi noiosa perché finisco sempre per ripetere le stesse cose, ho detto: E’ proprio l’unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale.
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Per formularlo ora in modo molto crudo – il che farà probabilmente male alla mia penna stilografica: se un uomo delle SS dovesse prendermi a calci fino alla morte, io alzerei ancora gli occhi per guardarlo in viso, e mi chiederei, con un’espressione di sbalordimento misto a paura, e per puro interesse nei confronti dell’umanità: Mio Dio, ragazzo, che cosa mai ti è capitato nella vita di tanto terribile da spingerti a simili azioni?
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Passiamo ad altro; oggi ho imparato una cosa importante: dovunque ci troveremo, dobbiamo esserci con tutto il nostro cuore. Se il cuore è altrove, non saremo capaci di dare abbastanza alla comunità a cui apparteniamo e quella comunità ne diventerà più povera. Che si tratti di impiegate carrieriste o Dio sa cosa, bisogna esserci con tutto il cuore e si potrà trovare qualcosa anche in loro.
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Il buffo è che non mi sento nelle loro grinfie, sia che io rimanga qui, sia che io venga deportata. Trovo tutti questi ragionamenti così convenzionali e primitivi e non li sopporto più, non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora io mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non mi potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle mie più vane fantasie. Ma anche questo è poca cosa, se paragonato a un’infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente.
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Mi sento responsabile per quel grande e bel sentimento della vita che mi porto dentro, devo cercare di mantenerlo intatto in questo tempo per poterlo trasmettere a un tempo migliore.
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Credo che sia soprattutto la paura di sprecarsi a sottrarre alle persone le loro forze migliori. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti giorno dopo giorno, riusciamo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò «Dio», e se poi facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, «lavorando a noi stessi», allora ci rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze.
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Il sentimento che ho della vita è così intenso e grande, sereno e riconoscente, che non voglio neppur provare a esprimerlo in una parola sola. In me c’è una felicità così perfetta e piena, mio Dio.
Probabilmente la definizione migliore sarebbe di nuovo la sua: «riposare in se stessi», e forse sarebbe anche la definizione più completa di come io sento la vita: io riposo in me stessa. E questo «me stessa», la parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo «Dio».
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Credo sinceramente che potrei esserlo, potrei anche dare un po’ di forza alla vita degli altri ed essere davvero felice, perché anche l’autentica felicità è un traguardo: essere davvero felice dentro, accettare il mondo di Dio e goderne senza voltare le spalle a tutta la sofferenza che vi regna. E’ una così triste orda, l’umanità oggi: tanto poco felice di vivere, nel vero senso della parola, e tanto poco radiosa. Un cumulo di piccoli complessi e preoccupazioni triviali, basse invidie, matrimoni infelici e figli malriusciti, ecc. Eppure, anche se abiti in un sottotetto e mangi solo pane secco, vale comunque la pena di vivere. E sebbene questi tempi rendano difficile l’esistenza, impedendoci di vivere appieno, non dovremmo comunque farne una tragedia o lasciare che tutto vada tristemente in malora. Anche questo fa parte della vita e non si può stabilire se la rovina debba colpire me o un’altra persona, ma non bisogna prendersi troppo sul serio nemmeno in tal caso.
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Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo «Dio».
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Nella mia vita c’è posto per tante cose. E ho così tanto posto, mio Dio.
Oggi, mentre passavo per quei corridoi così affollati, ho sentito improvvisamente un gran desiderio d’inginocchiarmi sul pavimento di pietra, in mezzo a tutta quella gente. L’unico atto degno di un uomo che ci sia rimasto di questi tempi è quello d’inginocchiarci davanti a Dio.
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Cammino accanto agli uomini come se fossero piantagioni e osservo quant’è cresciuta la pianta dell’umanità.