Il centro commerciale Mongolfiera di Foggia |
Settant’anni fa i bombardamenti che rasero al suolo Foggia, facendo migliaia di vittime (il numero esatto è controverso, ma certo si tratta di diverse migliaia). A chi chiedeva le ragioni dell’accanimento sulla nostra città degli anglo-americani, questi rispondevano, pare, con l’argomento del compasso. Si punti un compasso su Foggia, dicevano; si traccerà intorno un’area che comprende l’Italia meridionale ed i Balcani: ossia una zona di altissima importanza strategica per le operazioni militari.
A distanza di sessant’anni l’argomento del compasso torna nelle parole di Bernardo Marinelli, amministratore delegato della Genera Consulting. Intervistato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, dice: “Fissate un compasso su Foggia e allargate il raggio, vi renderete conto che la grande ricchezza di questa città è la sua posizione geografica”. Da un lato, il Foggiano è facilmente raggiungibile dal Barese, ma anche da parte della Lucania e della Campania; dall’altro, si tratta di una zona interessata da un forte flusso legato alle attrattive turistiche del Gargano ed a quelle più o meno religiose di San Giovanni Rotondo. E’ la zona ideale, insomma, per sistemare una impresa economica ambiziosa. E quella della Genera Consulting, gruppo marchigiano, è ambiziosissima: più di duecentocinquanta milioni di investimento e mille e cinquecento posti di lavoro per un grande parco acquatico, con ipermercato, hotel, terme eccetera. Il progetto prevede anche un parco archeologico che ingloberebbe l’area della tomba della Medusa, attualmente in stato di abbandono.
Due cambiamenti importanti per la nostra città sono stati negli ultimi anni la nascita del primo ipermercato, La Mongolfiera, e più recentemente quella della Città del Cinema. Due strutture con le quali la piccola città di provincia ha provato l’ebbrezza del non-luogo. Il successo è stato immediato e privo di oscillazioni. La Mongolfiera è diventata meta di vere e proprie gite – gente che arriva dalla provincia e passa nell’ipermercato tutta la giornata -, la Città del cinema è riuscita ad attirate anche chi il cinema non l’ha mai amato. Le conseguenze per la città non sono state lievi. Molti piccoli negozi hanno chiuso i battenti, incapaci di fronteggiare la concorrenza della grande distribuzione. Il negozietto di quartiere della nostra infanzia è diventato sempre più un ricordo sbiadito. Gli stessi supermercati soffrono, schiacciati dagli ipermercati. La nascita della Città del Cinema ha provocato la chiusura di quasi tutti i cinema cittadini: il Capitol, l’Ariston, il Cicolella (il Falso Movimento ha chiuso per altre ragioni, sostituito dalla Sala Farina, che benché parrocchiale si sforza di mantenere la tradizione del buon cinema).
Quello che sta succedendo, a Foggia e altrove, è che la città si sta progressivamente svuotando in favore di strutture dedicate interamente al consumo. E’ l’anima stessa della nostra società, il consumo; l’acquisto è il rituale sacro che la tiene in vita, il gesto che dà senso all’individuo e lo lega alla collettività. Se questo è ciò che conta, allora i luoghi più significativi saranno quelli nei quali meglio potrà realizzarsi il rituale del consumo. La trasformazione della città in palinsesto semicancellato dalle vetrine dei negozi non è più sufficiente. Essa cede al luogo del consumo puro o del puro divertimento (che è anch’esso consumo). L’ipermercato è il luogo nel quale l’individuo si abbandona felicemente alla massa e in essa di oblia. Ne è attratto come la farfalla dal fuoco, come il mistico da Dio. In questo abbandono prova un piacere particolarissimo, il piacere di chi compie la sua missione. Perché, come avvertiva Baudrillard, nella società dei consumi il consumo non è un diritto o un piacere, ma un dovere del cittadino.
Se il progetto venisse approvato ed andasse in porto, si accelererebbe una movimento che già procede per conto suo, apparentemente inarrestabile, e che può essere caratterizzato come la periferizzazione del centro. La città diventa satellite della sua periferia. La gente passa sempre più tempo nelle grandi aree commerciali al di fuori del centro abitato; la città come luogo di scambio umano diventa poco significativa, poiché poco significativo è lo scambio umano. La realizzazione di una grande area dedicata al consumo ed al divertimento favorirebbe la trasformazione della città in semplice luogo da attraversare per andare altrove, un quasi dormitorio privo di interesse, in cui qualche attrattiva riuscirebbe ad avere soltanto la via centrale con i negozi alla moda.
Ho usato poco fa le parole sviluppo e progresso come se fossero sinonimi. Per Pasolini, come è noto, non lo erano. Lo sviluppo era quello che volevano gli industriali che producono merci e beni, ed hanno bisogno di gente che li compri; il progresso lo volevano gli altri: gli operai, i contadini, gli intellettuali. Ha ancora senso, oggi, questa distinzione? Esistono ancora persone che vogliono il progresso? E’ evidente che il consumo non è più, solo, una faccenda da industriali. Il consumo non lo vuole solo chi produce beni inutili. Esso, come detto, è ormai un dovere sociale oltre che una necessità psicologica.
La più grande trasformazione italiana dell’ultimo secolo, quella del “boom economico” della fine degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta del secolo scorso, si è svolta con una rapidità ed una forza di persuasione che non ha quasi incontrato ostacoli. Pasolini è stato tra i pochissimi a tentare di opporsi, e non è probabilmente azzardato scorgere nella sua morte tragica ed avvolta ancora nel mistero un segno dello scacco di chi cerca di fronteggiare, a mani nude e con la sola forza della sua intelligenza, dinamiche tanto più grandi di lui. Se ci chiediamo cosa resta del suo impegno – e di quello di tanti altri: ad esempio il mite ed inquieto Alex Langer – ci imbattiamo in qualche domanda: dove vogliamo andare? siamo sicuri di volere questo sviluppo? è questa davvero la società che vogliamo?
Queste domande sono oggi al centro del dibattito economico, filosofico e sociologico: basti pensare ad autori come Serge Latouche, Amartya Sen, Vandana Shiva. Autori che si interrogano sui limiti dello sviluppo e sulle sue contraddizioni. E tuttavia, benché molti di questi autori siano conosciuti anche al di fuori della cerchia dei cosiddetti intellettuali, le loro idee stentano a suscitare un dibattito pubblico.
Un cambiamento importante come quello legato alla creazione di una grande area commerciale a ridosso della città non può essere affidato soltanto alla classe politica. Ogni cambiamento dovrebbe essere discusso, analizzato, soppesato. E dietro questa discussione dovrebbe esserci la riflessione più ampia sulle domande di cui s’è detto. Dove vogliamo andare? Una comunità che non si interroga su questo – che non trova i luoghi ed i modi per farlo – è condannata a subire i cambiamenti che la riguardano. Per essere precisi, non è nemmeno più una comunità, ma una ossimorica massa fatta di atomi che nulla hanno in comune tra loro. E’ appena il caso di notare che questo dovrebbe essere il compito della politica: interrogare, suscitare domande e cercare insieme le risposte, avviare il dialogo e favorire l’autocoscienza. Chiedere incessantemente: dove vogliamo andare? Ove manchi questo inesausto interrogare, si può esser certi che siam in presenza di cattiva politica: quella che non fa il bene comune, ma persegue gli interessi privati.
Editoriale per Stato Quotidiano.