La scuola dell’incompetenza

Educazione fisica. Scuola elementare di Avellino. Senza data. Indire, Archivio fotografico per la storia della scuola e dell’educazione, collocazione 2-048-021.

C’è un meccanismo collaudato – per quanto possa essere collaudata una macchina sgangherata – che riguarda il discorso di destra sulla scuola. Data la premessa che la scuola in un dato momento è stata distrutta – mentre era buona la scuola di un tempo – si individua l’origine del degrado attuale in qualche idea o pratica pedagogica progressista che in realtà ha inciso poco o nulla sulla struttura di una istituzione che procede decennio dopo decennio, incrollabile come uno schiacciasassi, dietro l’insegna del “Si è sempre fatto così”.

Ne è vittima per lo più don Lorenzo Milani: perché è evidente che la scuola italiana è stata trasformata in una immensa Barbiana. Più di recente Loredana Perla, che il governo Meloni ha messo a coordinare la Commissione di studio che riscriverà le Indicazioni Nazionali (e c’è il sopetto che a lavoro finito non si chiameranno più Indicazioni), se la prende con Tullio De Mauro e le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, che quest’anno compiono cinquant’anni e che in cinquant’anni sono state, purtroppo, ben poco applicate nella scuola italiana. Leggi tutto “La scuola dell’incompetenza”

Scuola, educazione e fatica

Un amico mi ha scritto una lunga mail critica a proposito della mia recensione del libro di Philippe Meirieu. Gli ho risposto con una mail ugualmente lunga che mi appunto qui.

1a. Nelle tue osservazioni mi pare che manchi una distinzione tra istruzione e educazione. Una questione che pongo spesso nei seminari maieutici è se la scuola debba istruire o anche educare. La difficoltà, nel rispondere, è che non si sa bene cosa sia educazione. Una collega disse che sarebbe stata a disagio a lavorare in un Ministero dell’Educazione Pubblica. In questo caso la parola educazione evoca l’imposizione di valori propria di uno Stato etico, cioè cattofascista. Nell’ottica della pedagogia critica, invece, educazione è l’esatto contrario: è l’analisi appunto critica dei valori correnti, evidentemente tutt’altro che innocenti. Leggi tutto “Scuola, educazione e fatica”

Un mondo in cui più nulla è pubblico

Social network come X o Facebook trasformano la società in un semplice mezzo per la produzione di profitto

Una sala d’aspetto. Persone annoiate. Qualcuno, prendendo spunto dalla copertina di un settimanale poggiato su un tavolinetto, comincia a parlare in modo sprezzante degli appartenenti a qualche minoranza. Una donna annuisce. Un ragazzo interviene per dargli ragione. Poi torna il silenzio.

Questa scena, ripetuta migliaia di volte in situazioni e contesti diversi, avrà una conseguenza prevedibile: le persone appartenenti a quella minoranza saranno perseguitate in forme più o meno gravi, che vanno dalla negazione di diritti elementari fino al campo di sterminio. La qualità della nostra vita, individuale e collettiva – la qualità anche della nostra democrazia – è in misura determinante legata al discorso pubblico. Non si tratta, come è ovvio, dell’unico fattore. I mezzi di comunicazione di massa hanno ad esempio una importanza che non è possibile sottovalutare, e tuttavia nulla avrebbe efficacia se non passasse attraverso il discorso pubblico. Un telegiornale può trasmettere una visione allarmata dell’immigrazione, ma resta decisivo il momento successivo: quando ci si confronta con altri e si scopre che la propria paura è un fatto sociale e condiviso.

Questa è una buona ragione per non abbandonare i grandi social network, ossia X, Facebook, Instagram, Tik Tok. Perché da qualche tempo la realtà sociale si è duplicata e una porzione significativa delle nostre interazioni sociali avvengono ormai sul piano parallelo dei social network (il solo Facebook ha tre miliardi e sessantacinque milioni di utenti attivi ogni mese). È sempre più su questi social che si costruiscono le narrazioni che condizionano le nostre vite, che favoriscono o contrastano i diritti, che spingono verso la vittoria un partito politico o ne decretano il fallimento. Sappiamo che tutto ciò avviene in modo spesso sporco, che è possibile inquinare il dibattito pubblico con profili falsi e diffondendo fake news, che sui social si diffondono in modo inarrestabile, e che è facilissimo manipolare le persone più fragili, i laureati alla scuola della vita; e tuttavia la consapevolezza che è quello il tavolo su cui si gioca sempre più la partita decisiva induce a dubitare della sensatezza di un Aventino digitale, che non sembra avere speranze di un esito migliore di quello del secolo scorso.

Ma c’è un altro aspetto da considerare. Discutere, rivendicare, difendere cause su un social network come Facebook o X significa intanto accettare una condizione che getta un’ombra su tutto il resto. Anzi due. La prima è l’assenza, il venir meno di uno spazio che sia pubblico. Quello dei grandi social network è un mondo in cui il pubblico, nel senso in cui nel mondo reale è pubblico un parco o una piazza, semplicemente non esiste più. Tutto appartiene al proprietario del social network. Anche il nostro profilo personale, la nostra casa digitale, non ci appartiene, come dimostra il fatto che in qualsiasi momento possiamo esserne estromessi. I social network, cioè, realizzano finalmente l’ideale verso cui tende il capitalismo: trasformare la realtà intera in proprietà privata. La seconda condizione è che, in questo spazio proprietario, tutto genera profitto, tutto serve ad arricchire quell’unico proprietario. Qualsiasi azione sociale ha, come scopo ultimo, la produzione di ricchezza e di profitto. Salutare il mondo con la foto del proprio caffè, condividere una notizia, discutere con qualcuno che non si conosce, perorare accaloratamente la propria causa, aggiornare la propria pagina dedicata a qualche causa antagonistica, dir male del capitalismo e della proprietà: tutto genera ricchezza privata.

Stare su un social network, insomma, vuol dire accettare di spostare una parte significativa della nostra vita in un mondo parallelo che rappresenta uno dei peggiori incubi che l’umanità abbia concepito. Nel mondo reale il sogno capitalistico di trasformare tutto in merce e proprietà privata procede tra mille attriti; nel mondo parallelo sembra non trovare resistenza alcuna. Questo è il frame, la cornice politica di tutti i nostri scambi su social network come Facebook o X; ed è una cornice che prescinde dall’aspetto più o meno presentabile del padrone del social. Molti di quelli che hanno abbandonato indignati X restano invece su Facebook perché Mark Zuckerberg sembra più accettabile di Elon Musk, con i suoi legami con Trump e la destra estrema. Ma entrambi fanno la stessa cosa (e Facebook probabilmente lo fa anche in modo più pervasivo): trasformano la società, tutta la società, in un semplice mezzo per la produzione di profitto. Mi chiedo se non sia anche per colpa di questo cedimento nella realtà digitale che stiamo perdendo giorno dopo giorno la nostra capacità di attrito e di resistenza; che stiamo perdendo, cioè – e con rapidità sconcertante – la nostra stessa democrazia, che se non è vuota retorica consiste nell’affermazione e nella difesa di una serie di beni comuni sottratti al gioco dell’interesse privato.

Foto di Larissa Avononmadegbe su Unsplash

Gli Stati Generali, 4 febbraio 2025

 

Salwan Momika

A dicembre ho scritto un articolo su Taleb Al Abdulmohse, il non credente saudita autore dell’attentato di Madgeburgo. Nell’articolo parlavo anche di Salwan Momika, il non credente iracheno rifugiato in Svezia che aveva espresso la sua critica dell’Islam bruciando pubblicamente il Corano. In un post su X Momika denunciava il rischio di essere estradato in Iraq, dove lo attendeva la condanna a morte. Non ve n’è stato bisogno: Momika è stato ucciso ieri l’altro nel suo appartamento nel quartiere di Hovsjö. Il suo atto di bruciare pubblicamente il Corano intendeva richiamare l’attenzione pubblica sulla gravi persecuzioni che subiscono i non credenti nei paesi islamici, dove spesso rischiano la condanna a morte. Ma era politicamente scorretto, perché la priorità è difendere l’identità culturale delle comunità, identificata con la religione. Momika è stato lasciato solo da tutti. La sua morte era solo questione di tempo.

Perché sarebbe cosa buona introdurre l’agricoltura a scuola

Sarebbe interessante e utile – forse deprimente, però – raccontare l’identità e la storia della scuola italiana attraverso quei documenti particolari che sono le note in condotta. Ne ricordo una in particolare, perché ne seguì un’accesa discussione con il preside. Avevo un’ora di supplenza in una classe non mia. E sul registro, allora cartaceo, un collega avvisava gli studenti che “se non vogliono studiare, possono andare a lavorare la terra”. Si trattava di una variante della nota surreale, e tuttavia non infrequente: “La classe disturba la lezione”. Ma si era in un paesino agricolo dell’alto Tavoliere e il lavoro della terra dava da mangiare a quasi tutte le famiglie di quegli studenti. Con quella nota il collega poneva un contrasto tra scuola e famiglia, tra scuola e comunità, tra scuola e contesto sociale ed economico di cui provai a spiegare al preside la gravità, senza troppo successo.

Vorrei provare ora a spiegare, senza speranza di un successo migliore, perché ritengo che sarebbe cosa buona e giusta, oltre che urgente, introdurre lo studio e la pratica dell’agricoltura nella scuola dell’obbligo. Leggi tutto “Perché sarebbe cosa buona introdurre l’agricoltura a scuola”

Abbiamo davvero bisogno dei professori?

Chi vuole ancora gli insegnanti?, chiede Philippe Meirieu, uno dei più influenti pedagogisti francesi, fin dal titolo di un libello tradotto da Enrico Bottero (Armando, Roma 2024, pp. 58). Il titolo francese è Qui veut encore des professeurs? Il traduttore spiega che professeurs indica in Meirieu la figura forte di una “persona convinta che fare scuola sia un atto simbolico e politico”, mentre gli einsegnants ne sono la versione depotenziata, “ridotta a compiti meramente esecutivi” (p. 13). Leggi tutto “Abbiamo davvero bisogno dei professori?”