Un mondo in cui più nulla è pubblico

Social network come X o Facebook trasformano la società in un semplice mezzo per la produzione di profitto

Una sala d’aspetto. Persone annoiate. Qualcuno, prendendo spunto dalla copertina di un settimanale poggiato su un tavolinetto, comincia a parlare in modo sprezzante degli appartenenti a qualche minoranza. Una donna annuisce. Un ragazzo interviene per dargli ragione. Poi torna il silenzio.

Questa scena, ripetuta migliaia di volte in situazioni e contesti diversi, avrà una conseguenza prevedibile: le persone appartenenti a quella minoranza saranno perseguitate in forme più o meno gravi, che vanno dalla negazione di diritti elementari fino al campo di sterminio. La qualità della nostra vita, individuale e collettiva – la qualità anche della nostra democrazia – è in misura determinante legata al discorso pubblico. Non si tratta, come è ovvio, dell’unico fattore. I mezzi di comunicazione di massa hanno ad esempio una importanza che non è possibile sottovalutare, e tuttavia nulla avrebbe efficacia se non passasse attraverso il discorso pubblico. Un telegiornale può trasmettere una visione allarmata dell’immigrazione, ma resta decisivo il momento successivo: quando ci si confronta con altri e si scopre che la propria paura è un fatto sociale e condiviso.

Questa è una buona ragione per non abbandonare i grandi social network, ossia X, Facebook, Instagram, Tik Tok. Perché da qualche tempo la realtà sociale si è duplicata e una porzione significativa delle nostre interazioni sociali avvengono ormai sul piano parallelo dei social network (il solo Facebook ha tre miliardi e sessantacinque milioni di utenti attivi ogni mese). È sempre più su questi social che si costruiscono le narrazioni che condizionano le nostre vite, che favoriscono o contrastano i diritti, che spingono verso la vittoria un partito politico o ne decretano il fallimento. Sappiamo che tutto ciò avviene in modo spesso sporco, che è possibile inquinare il dibattito pubblico con profili falsi e diffondendo fake news, che sui social si diffondono in modo inarrestabile, e che è facilissimo manipolare le persone più fragili, i laureati alla scuola della vita; e tuttavia la consapevolezza che è quello il tavolo su cui si gioca sempre più la partita decisiva induce a dubitare della sensatezza di un Aventino digitale, che non sembra avere speranze di un esito migliore di quello del secolo scorso.

Ma c’è un altro aspetto da considerare. Discutere, rivendicare, difendere cause su un social network come Facebook o X significa intanto accettare una condizione che getta un’ombra su tutto il resto. Anzi due. La prima è l’assenza, il venir meno di uno spazio che sia pubblico. Quello dei grandi social network è un mondo in cui il pubblico, nel senso in cui nel mondo reale è pubblico un parco o una piazza, semplicemente non esiste più. Tutto appartiene al proprietario del social network. Anche il nostro profilo personale, la nostra casa digitale, non ci appartiene, come dimostra il fatto che in qualsiasi momento possiamo esserne estromessi. I social network, cioè, realizzano finalmente l’ideale verso cui tende il capitalismo: trasformare la realtà intera in proprietà privata. La seconda condizione è che, in questo spazio proprietario, tutto genera profitto, tutto serve ad arricchire quell’unico proprietario. Qualsiasi azione sociale ha, come scopo ultimo, la produzione di ricchezza e di profitto. Salutare il mondo con la foto del proprio caffè, condividere una notizia, discutere con qualcuno che non si conosce, perorare accaloratamente la propria causa, aggiornare la propria pagina dedicata a qualche causa antagonistica, dir male del capitalismo e della proprietà: tutto genera ricchezza privata.

Stare su un social network, insomma, vuol dire accettare di spostare una parte significativa della nostra vita in un mondo parallelo che rappresenta uno dei peggiori incubi che l’umanità abbia concepito. Nel mondo reale il sogno capitalistico di trasformare tutto in merce e proprietà privata procede tra mille attriti; nel mondo parallelo sembra non trovare resistenza alcuna. Questo è il frame, la cornice politica di tutti i nostri scambi su social network come Facebook o X; ed è una cornice che prescinde dall’aspetto più o meno presentabile del padrone del social. Molti di quelli che hanno abbandonato indignati X restano invece su Facebook perché Mark Zuckerberg sembra più accettabile di Elon Musk, con i suoi legami con Trump e la destra estrema. Ma entrambi fanno la stessa cosa (e Facebook probabilmente lo fa anche in modo più pervasivo): trasformano la società, tutta la società, in un semplice mezzo per la produzione di profitto. Mi chiedo se non sia anche per colpa di questo cedimento nella realtà digitale che stiamo perdendo giorno dopo giorno la nostra capacità di attrito e di resistenza; che stiamo perdendo, cioè – e con rapidità sconcertante – la nostra stessa democrazia, che se non è vuota retorica consiste nell’affermazione e nella difesa di una serie di beni comuni sottratti al gioco dell’interesse privato.

Foto di Larissa Avononmadegbe su Unsplash

Gli Stati Generali, 4 febbraio 2025

 

Perché sarebbe cosa buona introdurre l’agricoltura a scuola

Sarebbe interessante e utile – forse deprimente, però – raccontare l’identità e la storia della scuola italiana attraverso quei documenti particolari che sono le note in condotta. Ne ricordo una in particolare, perché ne seguì un’accesa discussione con il preside. Avevo un’ora di supplenza in una classe non mia. E sul registro, allora cartaceo, un collega avvisava gli studenti che “se non vogliono studiare, possono andare a lavorare la terra”. Si trattava di una variante della nota surreale, e tuttavia non infrequente: “La classe disturba la lezione”. Ma si era in un paesino agricolo dell’alto Tavoliere e il lavoro della terra dava da mangiare a quasi tutte le famiglie di quegli studenti. Con quella nota il collega poneva un contrasto tra scuola e famiglia, tra scuola e comunità, tra scuola e contesto sociale ed economico di cui provai a spiegare al preside la gravità, senza troppo successo.

Vorrei provare ora a spiegare, senza speranza di un successo migliore, perché ritengo che sarebbe cosa buona e giusta, oltre che urgente, introdurre lo studio e la pratica dell’agricoltura nella scuola dell’obbligo. Leggi tutto “Perché sarebbe cosa buona introdurre l’agricoltura a scuola”

Il mercato delle abilitazioni all’insegnamento

La legge 29 giugno 2022, n. 79, seguita dal decreto attuativo (DPCM 4 agosto 2023), ha ridisegnato il percorso per diventare docenti.  Per conseguire l’abilitazione all’insegnamento, che permetterà poi di partecipare al concorso, è necessario seguire un percorso abilitante di almeno 60 CFU (il CFU, Credito Formativo Universitario, indica un carico di lavoro per lo studente quantificabile in termini di ore), comprendente insegnamenti disciplinari e pedagogico-didattici, un tirocinio diretto nelle scuole e un tirocinio indiretto sotto la guida di un tutor coordinatore universitario. Leggi tutto “Il mercato delle abilitazioni all’insegnamento”

Congedo

Ho letto l’articolo di Biagio Riccio sul Giorgia Meloni sperando fino all’ultima riga che fosse ironico. No, non lo è. Riccio sostiene davvero che Meloni è una persona perbene, gentile e rispettosa con gli avversari eccetera. E che gli insulti che le sono stati rivolti da un tale in cerca di notorietà – che è poi uno dei migliori storici italiani, ma in un paese analfabeta come il nostro questo in effetti non dà alcuna notorietà – sono inaccettabili perché le donne rappresentano “la dolcezza e la letizia dell’universo”.
Non voglio entrare nel merito del giudizio su Giorgia Meloni. Chi sia, lo sanno tutti. Quale sia il suo contributo alla civiltà di questo Paese anche. Il punto è un altro. Sono sicuro che Riccio non se ne rende conto ma affermare, per difendere una donna, che le donne sono “la bellezza del creato” e sciocchezze simili significa collocarsi nella stessa logica discriminatoria e patriarcale da cui proviene l’insulto a Meloni. Leggere che le donne “si sfiorano solo per accarezzarle” – con la doverosa precisazione: “con tatto gentil e prezioso” – mi dà un fastidio fisico. Agli occhi di Riccio le donne sono una schiera di esseri quasi angelici messi lì da Dio per essere ammirati nella loro bellezza e accarezzati quando se ne presenta l’occasione. E posso immaginare il suo sconcerto quando qualche donna, magari meno garbata e perbene di Giorgia Meloni, si sottrae al suo penoso teatrino.[read more]

Dopo aver letto l’articolo di Riccio ho provato quella sensazione che i tedeschi chiamano Fremdschämen. Provare imbarazzo al posto di un altro. Ma mi sono vergognato anche per me stesso. Perché quell’articolo, che sarebbe scadente anche per un foglietto parrocchiale, è stato pubblicato sul mio giornale. Che da oggi non è più il mio giornale.
La mia collaborazione con Gli Stati Generali termina qui. Sono grato, sinceramente, per lo spazio che mi è stato dato. Sono grato soprattutto a quanti hanno letto, commentato, discusso – non sempre, fortunatamente, “con tatto gentil e prezioso” – le mie cose.

Gli Stati Generali, 24 febbraio 2021.[/read]

La solitudine della scuola

Sono grato a Paolo Fasce per la sua replica al mio articolo sul tempo della scuola. Gli sono grato anche – soprattutto – perché mi offre l’opportunità di tornare sul punto fondamentale di quell’articolo, che nella ricezione sembra essere invece rimasto sullo sfondo. Non replicherò a quello che scrive punto per punto, per pietà verso il lettore (già così questo articolo sarà, temo, troppo lungo). Continuerò un attimo la mia “difesa d’ufficio” dei docenti, per andare poi al punto.
Scrive Fasce che la DaD è “troppo spesso l’apoteosi” della scuola che chiama Spiego, Studi, Interrogo, Dimentichi (SSID). Come ho scritto, non sono un sostenitore entusiasta della DaD, e qui stesso sono intervenuto per denunciare la follia di certe derive. Ma non credo che essa abbia fatto diventare alcuni, per magia, dei pessimi insegnanti. Chi faceva la scuola SSID in classe ha continuato a farla, pessimamente, in DaD. Per gli altri, la DaD è stata occasione per sperimentare e riflettere ancora una volta su cosa vuol dire fare questo mestiere. Per me scuola è comunità, ed è la comunità che ho cercato di portare in DaD. Con l’aiuto di uno strumento come Moodle, pensato per la didattica, che però non mi è stato più possibile usare dopo che il Miur ha vergognosamente sostenuto le piattaforme proprietarie di Google e Microsoft. Mi piacerebbe poter dire che ci siamo inventati una nuova didattica con l’aiuto del Ministero; nel mio caso almeno, è più aderente alla realtà l’affermazione che lo abbiamo fatto nonostante il Ministero.[read more]

Paolo Fasce mi accusa di ingenuità, perché do valore ai voti dei docenti, affermando che non si può prescindere dai risultati degli scrutini del primo quadrimestre per ragionare di tempo perso o meno. (E tra parentesi: non ho affermato che nessuno può giudicare il lavoro dei docenti; ho sostenuto e sostengo che solo i docenti del Consiglio di classe e nessun altro al posto loro – certo non i politici – possono attribuire voti agli studenti.) I suoi argomenti sono due: 1) i voti sono riferiti ad una classe, e dunque ad un contesto particolare, e dunque non hanno un valore assoluto; 2) i docenti attribuiscono sufficienze o insufficienze secondo la personale convenienza.
Il secondo (presunto) argomento è semplicemente una calunnia, e come tale non merita di essere preso in considerazione, perché discuterlo significa dargli la dignità di un argomento, che evidentemente non ha. Mi limito ad osservare che ingenuo appare lo stesso Fasce: come può pensare che i docenti che alla fine del primo quadrimestre falsano i voti per non dover lavorare a giugno, a giugno poi possano trasformarsi in professionisti sinceramente preoccupati dei loro studenti e attivamente impegnati in attività didattiche in loro favore? Il primo argomento merita un ragionamento. Insegno da ventitré anni; ho insegnato alle medie, in diversi istituti professionali in un istituto tecnico, al liceo, al sud ed al centro. Ho una percezione abbastanza ampia della realtà scolastica. E sì, posso confermare che un 8 in un certo contesto non ha lo stesso valore di un 8 in un contesto diverso. A dire il vero, uno stesso voto può avere un contenuto diverso anche in due indirizzi dello stesso liceo. Mi sfugge però cosa questo c’entri con il prolungamento dell’anno scolastico. La disomogeneità è un problema strutturale del nostro sistema scolastico e richiede un intervento ugualmente strutturale, non certo l’eccezionale apertura delle scuole a giugno.
Il contesto era il vero tema del mio articolo. Permettetemi di tornarvi su. Nel modo più concreto possibile: raccontando, cioè, una storia. B. era un ragazzone alto più di un metro ed ottanta. All’improvviso cominciò a deperire sotto i nostri occhi. Tememmo qualche malattia, poi scoprimmo che semplicemente non mangiava. E toccava a noi portargli qualcosa da casa, perché mangiasse almeno a scuola. Che era successo? Qualche mese prima ero stato a casa sua per consegnarli un computer che eravamo riusciti a recuperare in qualche modo (dismesso da un docente; l’appello agli enti ed imprese locali affinché ci aiutassero a procurare computer usati ai nostri studenti più poveri cadde nel vuoto). Viveva in una baracca, con la sorellina, la madre e il padre. Il padre era disoccupato. Mi era sembrato un uomo in gamba, pieno di iniziative, che soffriva molto per la sua condizione di impotenza economica. Bene: il padre di B. ora era in galera. Tentato omicidio. Un lavoro su commissione della mafia per racimolare qualche soldo. Lo Stato aveva messo in prigione il padre di B. senza chiedersi come avrebbero fatto la moglie (una donna con disturbi mentali) ed i figli a mangiare. Abbandonandoli a loro stessi. Lo Stato avrebbe potuto investire qualche migliaio di euro per dare un lavoro a quell’uomo; ha preferito sprecare più di centomila euro all’anno, per non so quanti anni, per tenerlo in galera. Uno spreco assurdo, per me incomprensibile. Siamo un Paese impoverito dalla spaventosa evasione fiscale, e continuamo quotidianamente a gettar via soldi per tenere la gente in galera, mentre tutto ciò che potrebbe prevenire la galera è trascurato.
In questa situazione, in questi contesti, si chiede alla scuola di intervenire. Di fare il miracolo. Ma i miracoli non esistono. Buona parte del discorso pubblico sull’educazione è basato su affermazioni e frasi fatte dal sapore romantico. “Nessun bambino è perso se ha un insegnante che crede in lui”. Cose così. E sarebbe bello se le cose fossero così semplici. Ma la realtà è molto più complessa. Potrei riformulare: qualsiasi insegnante è perso se non ha una comunità che crede in lui. E: che lavora con lui. Non posso lavorare con B. se lo Stato lo affama. Se i servizi sociali lo abbandonano. Se non esistono politiche per combattere la disuguaglianza. Se nessun governo costringe i ricchi a pagare le tasse. Se diamo per scontati la povertà, il degrado, l’abbandono di intere comunità.
C’è qualcosa di molto più serio della differenza tra un 8 dato ai Parioli e un 8 dato a Scampia. C’è la vergognosa differenza di possibilità tra chi ha la fortuna di nascere in un contesto ricco e chi invece si trova fin dalla nascita a combattere con infiniti ostacoli, con forze che deformano e disumanizzano. Quello che intendevo dire con il mio articolo è che un discorso sugli studenti che “restano indietro” è ipocrita (“No Child Left Behind” era lo slogan della politica scolastica del repubblicano Bush, lo stesso le cui politiche hanno accresciuto il divario sociale ed economico negli Stati Uniti) senza una considerazione più ampia sui rapporti tra scuola e società. La scuola, lo ripeto, non fa miracoli, se è isolata. Se davvero interessa affrontare il problema di chi resta indietro – e sarei felicissimo se il governo se lo ponesse – allora occorre lavorare seriamente (e cioè: investendo soldi, molti soldi) per creare un solido sostegno sociale al lavoro degli insegnanti. Non c’è buona pedagogia senza buona economia. E non c’è buona economia senza lotta seria, non retorica, alla disuguaglianza. Tenere le scuole aperte a giugno, in mancanza di questo impegno più ampio, e strutturale, è nulla più che un’uscita populista.

Gli Stati Generali, 13 febbraio 2021.[/read]

Il tempo della scuola

Aprire le scuole a giugno, perché si è perso troppo tempo. Con questo proposito, che riprende una proposta diffusa da tempo dal gruppo Condorcet, Mario Draghi si presenta al mondo della scuola. Vorrei spiegare per quali ragioni questa proposta, che sembra nascere da una reale preoccupazione per il bene dei nostri studenti, rivela invece inconsapevolezza pedagogica e disprezzo per i docenti.
Per la scuola italiana questo è il periodo in cui si attua un primo bilancio dell’anno scolastico. Gli scrutini del primo quadrimestre sono stati appena conclusi, è possibile verificare se ci sono stati e quanto sono stati importanti i danni della didattica a distanza. Ora, un ragionamento serio sulla scuola partirebbe da qui. E’ stato fatto un lavoro e i risultati di questo lavoro sono stati valutati. Cosa è emerso dalle valutazioni? Quanti studenti sono rimasti indietro? Quante sono, nelle diverse scuole, le insufficienze? Dire che si è perso tempo, senza considerare questo dato, significa parlare del nulla. Se si è perso tempo o meno possono dirlo solo i docenti, gli unici che hanno il diritto di valutare i risultati del loro lavoro. Nel mio caso, ad esempio, in quattro delle cinque classi che mi sono state affidate sono rimaste alla fine del quadrimestre rarissime insufficienze. In una, invece, le insufficienze sono molte, ma ci sono anche almeno tre studenti che con la didattica a distanza sono migliorati sensibilmente. Il bilancio è nel complesso tutt’altro che allarmante.[read more]

Dichiarando che si è perso tempo, e che questo tempo bisogna recuperarlo, si manca di rispetto ai docenti in due modi. In primo luogo, considerando nulla il lavoro, spesso enorme, che è stato fatto in questi mesi di didattica a distanza. In secondo luogo – e in modo più grave – considerando nulle le loro valutazioni. I sette, gli otto, i nove messi in questi mesi non valgono niente. Si stabilisce dall’alto che sono invece delle insufficienze. Nulla vale la valutazione del docente, nulla vale il lavoro fatto da lui e dallo studente per giungere a quel risultato. Mesi di lavoro vengono nullificati dall’alto. Senza nulla sapere, senza nulla vedere. Così. Insegno da più di vent’anni, credo di poter dire che nessuno ha mai mancato di rispetto in questo modo a noi docenti. Ed ho l’impressione che non si tornerà indietro.Dicevo dell’inconsapevolezza pedagogica. Non è un grande argomento, perché in questo paese la pedagogia è circondata da disprezzo unanime, e dire di qualcuno che è pedagogicamente incompetente è quasi fargli un complimento, ma qualche considerazione vorrei farla comunque, da pedagogista e da docente.
Per dieci anni ho insegnato in un Liceo che aveva gravissimi problemi di abbandono scolastico, in particolare al biennio. Ragazzine – era un Liceo delle Scienze Umane – che venivano a scuola perché costrette dall’obbligo scolastico, e avevano spesso alle spalle famiglie che dicevano loro che lo studio e la scuola non servono a nulla. Le provammo tutte per affrontare il problema, con esiti frustranti. Ma una cosa comprendemmo: che aumentare il tempo scuola non funziona. Tenere a scuola più tempo ragazzine che la scuola non l’amavano sortiva un solo risultato: aumentare la nausea e il rifiuto. Bisognava piuttosto cambiare la qualità della scuola.
La didattica a distanza funziona con gli studenti motivati. Che nel mio caso sono la grande maggioranza. Credo anche di poter dire che sul piano strettamente cognitivo hanno anche acquistato qualcosa (se non altro molte competenze digitali); ciò che si è perso è sul piano umano e relazionale.
Il problema riguarda gli studenti con difficoltà. Ora, le difficoltà possono essere di due tipi: problemi cognitivo-relazionali e problemi di motivazione. Ho notato, e lo hanno notato anche molti miei colleghi, che i primi spesso traggono vantaggio dalla DaD. Perché, ad esempio, si fa al computer, e il computer è uno strumento che uno studente con disturbi di apprendimento è abituato ad usare più dei suoi compagni. O perché lo spostamento dell’aula nella dimensione virtuale blocca alcune dinamiche violente che rendevano frustrante per qualche altro studente l’esperienza scolastica. Il problema è grave invece per chi ha problemi di motivazione. Lo studente che a scuola frequentava saltuariamente, e in classe era assente, o si perdeva nei corridoi dopo aver chiesto di andare in bagno, a distanza lo perdi del tutto. Non si collega, o se si collega sta facendo chissà cosa.
Questi studenti rischiano di perdersi con la DaD. Ma aprire le scuole in estate per recuperarli significa non aver capito granché del problema. Bisogna che uno studente sia molto motivato per frequentate a giugno, in presenza, la scuola che non ha voluto frequentare a novembre comodamente collegato da casa sua. Bisogna, cioè, che abbia come prerequisito proprio ciò la cui mancanza ha causato il problema che si pretende di risolvere. La scuola si considera da sempre una istituzione salvifica. Chi sfugge ad essa è perso. Extra scholam nulla salus. Fare più scuola, aumentare la quantità dell’offerta, non può che essere un bene. Se fosse meno autoreferenziale, la scuola capirebbe invece di aver bisogno di un vasto sostegno sociale, senza il quale è inefficace nei contesti più difficili, lì dove la scuola non è un valore condiviso. Più che tenere aperte le scuole d’estate, bisognerebbe parlare di sostenere seriamente l’educazione di strada, il volontariato educativo, i gruppi che fanno da ponte tra la scuola e la famiglia nei quartieri difficili. E magari ragionare di qualità e non di quantità della scuola. Perché la scuola che facciamo da sempre è una scuola che piace solo a chi crede nello studio. La didattica a distanza ha i suoi limiti, e non mi schiererò certo tra i suoi sostenitori entusiasti (nemmeno, però, con i fanatici della presenza), ma ha avuto il merito indubbio di costringere i docenti italiani a riflettere sul loro lavoro. Cosa vuol dire davvero insegnare? Cosa è essenziale, cosa accessorio? Come apprendono gli studenti? Cosa vuol dire valutare? Cosa valutare? Tutte queste domande, cui credevamo di aver dato una risposta una volta per tutte, sono tornate a galla, e abbiamo dovuto trovare nuove risposte. Quello che è da fare, ora, è ripartire da queste domande. Può essere che mi sbagli, ma mi pare che mai in passato docenti, studenti, genitori siano stati costretti a riflettere sulla scuola, avendo l’esperienza concreta di una alternativa. Chiudere questa esperienza offrendo a tutti una dose supplementare di scuola tradizionale significa sprecare una occasione storica per ripensare davvero la scuola italiana. Significa davvero perdere tempo nel senso non del kronos, il tempo cronologico, ma del kairos, il tempo propizio, nel quale cose nuove possono accadere.


Gli Stati Generali, 9 febbraio 2021.
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