Un amico mi ha scritto una lunga mail critica a proposito della mia recensione del libro di Philippe Meirieu. Gli ho risposto con una mail ugualmente lunga che mi appunto qui.
1a. Nelle tue osservazioni mi pare che manchi una distinzione tra istruzione e educazione. Una questione che pongo spesso nei seminari maieutici è se la scuola debba istruire o anche educare. La difficoltà, nel rispondere, è che non si sa bene cosa sia educazione. Una collega disse che sarebbe stata a disagio a lavorare in un Ministero dell’Educazione Pubblica. In questo caso la parola educazione evoca l’imposizione di valori propria di uno Stato etico, cioè cattofascista. Nell’ottica della pedagogia critica, invece, educazione è l’esatto contrario: è l’analisi appunto critica dei valori correnti, evidentemente tutt’altro che innocenti.
La mia idea è che la scuola debba educare e che educare non abbia a che fare né con l’imposizione dei valori correnti né con il loro rifiuto. Lo spazio dell’educazione è quello – proprio anche alla filosofia – in cui la trasmissione dei valori si interrompe e viene sottoposta ad indagine comune. O, detto altrimenti, è l’oltre della socializzazione. C’è istruzione – o una certa parte dell’istruzione – quando si insegna l’Iliade, ad esempio illustrando alla classe l’argomento del primo canto e leggendo e analizzando dei passi. C’è educazione quando si riflette insieme sul comportamento di quei personaggi, sui valori che li agiscono; e quella riflessione è un pezzetto di una riflessione più ampia su come bisogna vivere. Una domanda alla quale evidentemente l’insegnante non può rispondere al posto dello studente.
L’educazione è necessariamente simmetrica proprio perché ha a che fare con domande alle quali il docente non ha il diritto di rispondere. Quello che può e deve fare è creare la situazione perché la domanda sorga e ragionare insieme alla comunità. Se è un autentico educatore, ogni nuova posizione della domanda sarà per lui un’occasione per ridiscutere le sue stesse risposte. Come il mio maestro Lapassade (L’entrée dans la vie, 1963), penso che sia importante accettare come un fatto l’inachèvement, l’incompiutezza dell’essere umano. Nell’ambito di questo confronto il docente avrà modo di lavorare alla precisione lessicale (e quindi insegneremo l’italiano al cinese “paracadutato a Melzo”) e ad altri aspetti che per lui sono importanti, ma farebbe bene anche a fare attenzione per cogliere la ricchezza che può venire da un lessico diverso da quello corrente a scuola, come ad esempio quello dialettale. O come il cinese.
1b. Il tempo. Non c’è nulla che sia più sacro del tempo, come sa chi sta invecchiando e ogni tanto prova mentalmente a fare il conto dei giorni che realisticamente gli restano da vivere. Il tempo è vita: e non c’è dunque offesa contro la vita più grande della perdita di tempo. Il fatto che a scuola si abbia sempre l’impressione di non avere tempo a sufficiente dovrebbe far pensare alla scuola come a un luogo che trabocca di vita: in cui si fanno tante cose significative, che non si riesce a inserirne altre. Non è proprio quello che accade. Se ripenso ai miei anni scolastico, una delle cose che più mi intristiscono è proprio lo spreco che è stato fatto del mio tempo, ossia della mia vita. Spreco perché si pretendeva di insegnarmi qualcosa quando non ne avevo alcun bisogno o alcun interesse. Cose che ho studiato poi, quando l’interesse è sorto, giungendo in poco tempo a conquistare quelle conoscenze che a scuola ho cercato di ottenere a costo di fatica e noia. Dirai che se ho potuto poi studiarle per conto mio è perché la scuola mi aveva dato appunto un metodo, e dunque il tempo non è stato sprecato. Non è proprio così. Costringendomi a studiare indipendentemente dall’interesse, la scuola ha legato lo studio ad ogni genere di frustrazione, quando non a sensazioni di impotenza appresa. Una impotenza che per molti dura per tutta la vita: quanti sono quelli che mai più vogliono sentir parlare di matematica o di greco? A darmi il metodo è stato lo studio di quelle poche cose che mi interessavano realmente, e che per fortuna non mancavano. Lo studio di quelle cose non è stato tempo perso. Ma si è trattato di isole temporali di senso in un mare di spreco insensato.
E intanto: qualunque momento educativo — ossia di confronto tra persone alla ricerca del valore — è senz’altro tempo non sprecato. Lo è anche quando lo studente non dice una sola parola, ma ascolta gli altri. Parlerà poi, a scuola o fuori, quando avrà parlato abbastanza con sé stesso.
2a. Non sostengo affatto che lo studio non dev’essere una fatica. Sostengo che qualsiasi fatica legata all’apprendimento è sempre fonte di piacere: anche quando il corpo è addirittura dolente per lo sforzo. Sto traducendo L’educazione del lavoro di Célestin Freinet. È un dialogo tra un contadino, Mathieu, alter ego di Freinet, e il signor Long, maestro del villaggio. In un passo in cui rivendica per il bambino — per noi è un tabu — il lavoro manuale, ricorre ai suoi ricordi infantili per descrivere la gioia che, nonostante la fatica, può dare un lavoro fatto insieme ad altri. “Uscivo di lì sudato, esausto, con la gola secca, il naso e gli occhi feriti dalla polvere, ma ero così orgoglioso di quel lavoro che attendevo con impazienza il giorno successivo per ricominciare. Mi sembrava che quella vittoria mi conferisse nuovi diritti nella comunità e una maggiore dignità alla tavola dei lavoratori”. Credo che anche a scuola la fatica acquisterebbe un senso simile se fosse appunto legata a un lavoro comune dotato di senso. La fatica vuota, fina a sé stessa, è un insulto alla vita non meno dello spreco di tempo.
2b. Dici che ti affascina molto il mondo delle università medioevali. Per noi è sconcertante la libertà che in esse avevano gli studenti. Ma ci sono differenze profonde tra l’Università di Bologna a quella di Parigi. La prima era sostanzialmente gestita dagli studenti, che nominavano i docenti e li pagavano; la seconda invece era gestita dalla corporazione dei maestri ed aveva una impostazione rigida anche dal punto di vista disciplinare. È al sistema di Parigi — il modus parisiensis — che si sono ispirati i gesuiti per dar vita al loro sistema scolastico. Un sistema che ha spazzato via sistematicamente qualsiasi libertà dello studente, instaurando un ordine totalitario che nei primi tempi suscitò anche reazioni violente (abbiamo notizia di rivolte armate). Noi siamo ancora dentro questo tipo di istituzione.
3a. Il nostro cervello ha potenzialità enormi, e la nostra volontà non è meno potente. Non c’è nulla che, adeguatamente motivato, un essere umano non sia in grado di fare. Ma non tutto nello stesso momento. Non conosco nessuna persona adulta che coltivi una quantità di discipline paragonabile a quella che affronta normalmente uno studente di seconda media. È un accanimento assolutamente insensato che genera inevitabilmente fallimenti. Ora, le cose sono due. Se lo studente appartiene a una famiglia che gli sta addosso affinché butti giù comunque in qualche modo tutto quel cibo indigesto, in modo da ottenere la promozione (e poi avrà tutto il tempo e l’agio per risputarlo), oppure no. E in questo secondo caso sarà bocciato o orientato verso indirizzi in cui ci siano meno bocconi indigesti da ingurgitare, al prezzo naturalmente di un minore status sociale. Temo che questo sia tutto quello che c’è da dire sulla selezione.
3b. Che farei se vedessi mia figlia quattordicenne con la minigonna, pesantemente truccata, salire su una moto di grande cilindrata con un quarantenne dall’aria equivoca, mi chiedi. Mi pare che nella tua visione del mondo vi siano persone a posto e persone meno a posto. Sarei ipocrita se ti dicessi che per me non è così. Temo però di avere criteri molto diversi dai tuoi per stabilire chi per me è a posto e chi no. Non ho nulla contro le minigonne e il trucco. Mi inquietano — no: mi intristiscono – la giacca e la cravatta, la ventiquattrore, gli abiti firmati. Che farei se mio figlio entrasse con giacca e cravatta in una banca per passarvi la giornata come dirigente? Niente. Penserei che sta cercando una via della vita. E che, come diceva Korczack, non è un disonore smarrirsi nell’immensa foresta della vita. È un disonore (bisognerà ragionare sull’uso di questa parola da parte di Korczack) credere che la propria via sia l’unica possibile, o giusta. Non esplorare la foresta.
3d. Io non ho alcuna intenzione di affossare la scuola. Non sono un fautore né dell’homeschooling né della descolarizzazione. Il rischio è che ogni famiglia educhi i figli secondo la propria visione, con un controllo totalitario di cui testimonia il memoir di Tara Westover; o che si diffondano scuoline cattoliche, islamiche, ebraiche eccetera, ognuna con il suo delirio identitario. La scuola resta un posto in cui è possibile coltivare l’educazione. Ma occorre fare un lavoro enorme per liberare le sue potenzialità educative dalla sovrastruttura violenta che la soffoca.