Abbiamo davvero bisogno dei professori?

Chi vuole ancora gli insegnanti?, chiede Philippe Meirieu, uno dei più influenti pedagogisti francesi, fin dal titolo di un libello tradotto da Enrico Bottero (Armando, Roma 2024, pp. 58). Il titolo francese è Qui veut encore des professeurs? Il traduttore spiega che professeurs indica in Meirieu la figura forte di una “persona convinta che fare scuola sia un atto simbolico e politico”, mentre gli einsegnants ne sono la versione depotenziata, “ridotta a compiti meramente esecutivi” (p. 13). Questa distinzione non è facile da adottare in italiano, perché il discorso di Meirieu riguarda chiunque pratichi l’insegnamento, mentre in Italia il termine professore indica solo chi insegna nella scuola secondaria. Bottero traduce dunque professeurs con insegnanti, unico termine che comprenda tutti. Ma è una scelta che fa smarrire il senso stesso della domanda del titolo. Che è: chi vuole ancora dei professori, e non semplicemente degli insegnanti?

La risposta di Meirieu è che non sono in molti a volerli. Non li vogliono le famiglie, che vedono sempre più spesso la scuola come un servizio di cui sono consumatori e clienti e non li vuole il sistema politico-economico, che esige docili burocrati al servizio della competitività, somministratori compulsivi di test per accertare l’aderenza agli standard di competenza richiesti dal mercato. Si potrebbe aggiungere che non li vogliono nemmeno molti studenti, che vedono nell’insegnante colui che, se sono state seguite tutte le procedure richieste dall’istituzione, dispensa il voto desiderato.

E tuttavia, afferma Meirieu, c’è bisogno di professori, e non soltanto di insegnanti. Di professori al maschile, perché – spiega in nota – anche se chi insegna è per lo più di sesso femminile, “il titolo e il testo di questo libro seguono l’uso comune del genere maschile per indicare le persone che lavorano con gli allievi della scuola” (p. 17). È una scelta discutibile, anzi sbagliata, perché essere intellettuali è ben poca cosa, se non serve a criticare gli usi comuni. Ed è una scelta che non lascia presagire nulla di buono.

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Democrazia, educazione e dominio degli adulti

Philippe Meirieu

In un libro dal titolo militante – Pédagogie: le devoir de résister (Esf, Issy-les-Moulineaux 2007) – Philippe Meirieu, una delle voci più ascoltate della pedagogie francese, sostiene, sulla scorta di Hannah Arendt, che occorre segnare un confine netto tra infanzia ed età adulta: l’educazione riguarda solo i bambini, non gli adulti; “non si possono educare gli adulti, né trattare i bambini come dei grandi. (…) All’educazione, nella misura in cui si distingue dal fatto di apprendere, bisogna che si possa assegnare un termine” (Arendt, citata a p. 71). Le ragioni di questa separazione sono in ultima analisi politiche: nei totalitarismi gli adulti sono infantilizzati e sottomessi ad un’autorità. Commenta Meirieu:

Da questo punto di vista, la separazione di cui parla Hannah Arendt è fondatrice della possibilità stessa di ogni democrazia: bisogna istituire una frontiera – anche arbitraria – tra i bambini e gli adulti. E’ l’esistenza di questa frontiera che permette al tempo stesso l’educazione dei bambini e l’esercizio del potere dei cittadini. Il bambino deve dunque essere educato e, durante questo tempo, non può essere considerato un cittadino, a rischio di cadere in una confusione generatrice di gravi abusi. L’adulto, dal suo canto, se può continuare ad apprendere, non può essere educato: è lui che deve decidere cosa apprendere, deve scegliere la propria via e decidere, direttamente o con l’intermediazione dei suoi rappresentanti eletti, sulle leggi che reggono la città. (p. 72)
Secondo questo ragionamento, c’è un momento nella vita di ognuno in cui il processo educativo termina, evidentemente perché ha raggiunto il suo scopo. E’ il momento in cui il bambino diventa adulto; un adulto educato. E’ un modo di concepire l’educazione che contrasta nettamente con l’idea diffusa dell’educazione permanente, la convinzione, cioè, che il processo educativo duri per tutta la vita. Meirieu naturalmente non ritiene che, giunti ad una certa età, la crascita ed il cambiamento si fermino; ma questa crescita non può essere eterodiretta. A questo fine distingue, sulla scorta di Arendt, l’educazione dall’apprendere. L’adulto continua ad apprendere, ed apprende finché vive; ma nessuno può educarlo. L’apprendimento è un processo autodiretto, l’educazione un processo eterodiretto. Nella democrazia i cittadini apprendono, nelle dittature sono educati.

E’ difficile contestare che la pretesa di dirigere dall’esterno la vita di persone adulte sia incompatibile con la democrazia. Aggiungerei che la presenza di figure che pretendano di orientare le masse indicando loro le vie del bene e del male mal si concilia con una democrazia, secondo lo stesso criterio – poiché comporta che milioni di adulti percepiscano sé stessi come minori, persone che hanno bisogno di qualcuno che le diriga dall’esterno. Una democrazia è tale solo se ognuno è autorità per sé stesso. Al tempo stesso, questo discorso ha un implicito che dà da pensare. Educare è, secondo questo ragionamento, un atto di dominazione. Vuol dire dirigere qualcuno dall’esterno. Per Meirieu è una dominazione che va bene per i bambini, non va bene per gli adulti. C’è un’età della vita in cui è bene essere dominati ed un’età della vita in cui ciò è violenza e totalitarismo. Ma siamo sicuri che sia così? E’ veramente democratico un sistema in cui tutti, sistematicamente, nella prima età della loro vita sono sottoposti ad una prassi totalitaria? L’educazione forma la persona. Che persone verranno formate attraverso l’eterodirezione? Se l’educazione è totalitaria, non formerà persone adatte a sistemi totalitari, ossia incapaci di democrazia? Non bisognerà piuttosto, in un sistema democratico, mantenere la distinzione tra educazione ed apprendimento, ed estenderla anche all’infanzia? Cioè: dare anche al bambino la possibilità di apprendere autonomanente, seguendo i propri interessi?
Il ragionamento di Meirieu implica una visione escludente della democrazia. La democrazia è cosa da adulti, che non riguarda i bambini. Gli uni sono liberi, gli altri sono schiavi. Gli adulti sono cittadini, i bambini no. Ma non è l’inclusività la caratteristica più vera della democrazia? Non è la democrazia quel movimento che incessantemente va alla ricerca degli esclusi, per portarli al centro della polis?
La società è attraversata da rapporti di dominio. Una democrazia autentica è quel sistema sociale e politico nel quale non esiste dominazione. E’, evidentemente, un ideale regolativo, proprio perché il dominio si insinua ovunque. Nostro compito è convertire il dominio, che è verticale ed asimmetrico, in potere, che è orizzontale e simmetrico. La scuola è, nei sistemi che si dicono democratici, un’ombra tra le tante. Come può esserci democrazia in un sistema in cui milioni di persone sono trattate come non cittadini, sottoposte a pratiche inferiorizzanti, private del riconoscimento pieno della loro personalità, del diritto di seguire i propri interessi e perfino di disporre del proprio corpo? Il dominio degli adulti sui bambini, lungi dall’essere la premessa di ogni democrazia, è il suo impaccio più grave. Basta entrare in una scuola, anche nel più democratico dei sistemi, per ritrovarsi paracudati in un regime totalitario, in cui tutti sono sorvegliati e puniti se non si adeguano all’ordine costituito. E il fatto che ancora esistano scuole è il segno della lontananza dei sistemi che si dicono democratici dalla realtà autenticamente democratica di una società del potere, priva di gerarchie e di sudditanze.