L’educazione popolare

Vediamo dunque come opera l’educazione popolare. Non ha, intanto, gli spazi della scuola. Può anche farli propri, ma trasformandoli in modo decisivo. Barbiana, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, ha una sala per lo studio, con tutt’intorno una piccola biblioteca, ma ha anche – cosa inaudita per la scuola – un’officina e una piscina. Non ha poi la struttura relazionale della scuola. Può permanere la figura dell’insegnante, del maestro o del professore, e può essere perfino rivendicata la sua autorità (nel caso di Freire, come abbiamo visto, è una autorità funzionale), ma la relazione è umana, non burocratica. Nessun conflitto, in una situazione di educazione popolare, può essere risolto con una nota sul registro. Quando l’operaio lo contesta, Freire non può far altro che riflettere su quella contestazione. Una situazione di educazione popolare è fondata sul riconoscimento reciproco. L’educatore può svolgere il suo compito perché è riconosciuto dagli studenti, che siano bambini, adolescenti e adulti. Ma può educare solo se a sua volta riconosce pienamente, e non retoricamente, i bambini, gli adolescenti e gli adulti con cui sta lavorando: solo se è disposto a lasciarsi educare da loro. Questo vuol dire che l’educazione popolare non opera per sostituzione, come fa la scuola, ma per dialettica. Non c’è un mondo culturale (quello orale contadino o quello del sottoproletariato urbano) da cancellare, sostituendolo con il mondo della cultura, quello che passa attraverso la scrittura e i libri. C’è invece il confronto tra due mondi, tra i quali l’educatore è chiamato a fare da mediatore, da asse, da punto di giunzione. E se il suo lavoro è efficace, il risultato sarà un superamento dialettico di entrambe le culture, una cultura nuova che non appartiene a nessun mondo sociale e culturale dato, e per questo è capace di novità.

Da Senza cattedra. Per un’altra scuola, in preparazione.

Scuola, educazione e fatica

Un amico mi ha scritto una lunga mail critica a proposito della mia recensione del libro di Philippe Meirieu. Gli ho risposto con una mail ugualmente lunga che mi appunto qui.

1a. Nelle tue osservazioni mi pare che manchi una distinzione tra istruzione e educazione. Una questione che pongo spesso nei seminari maieutici è se la scuola debba istruire o anche educare. La difficoltà, nel rispondere, è che non si sa bene cosa sia educazione. Una collega disse che sarebbe stata a disagio a lavorare in un Ministero dell’Educazione Pubblica. In questo caso la parola educazione evoca l’imposizione di valori propria di uno Stato etico, cioè cattofascista. Nell’ottica della pedagogia critica, invece, educazione è l’esatto contrario: è l’analisi appunto critica dei valori correnti, evidentemente tutt’altro che innocenti. Leggi tutto “Scuola, educazione e fatica”

Potere, autorità e autorialità

Un altro mondo è possibile? di Giuseppe Cognetti (Rubettino, Soveria Mannelli 2023) è una riflessione sulla possibilità di un nuovo umanesimo di quello che è uno dei pochissimi filosofi interculturali italiani. Un libro pieno di spunti interessanti, sul quale probabilmente tornerò. Intanto però una nota a margine su un tema che mi sta particolarmente a cuore.

Scrive Cognetti:

Potere (archetipo maschile) è capacità di fare, risiede in chi ne è detentore (individuo, gruppo, Stato), si avvale della forza per imporsi; autorità (da augeo, far crescere, archetipo femminile) è conferita, riconosciuta da altri, in una o più qualità (età, saggezza, merito, sapere), fondate nell’essere più che nell’avere e che generano valore, prestigio, autorevolezza. (pp. 77-78)

La definizione del potere come capacità di fare mi pare corretta. È evidente tuttavia che se questo è il potere, esso è tutt’uno con la vita. Vivere è avere potere. In primo luogo, s’intende, il potere di mangiare e di bere, senza il quale non potremmo sopravvivere; poi il potere di difendersi dalle intemperie e dai pericoli. In una società avanzata a queste possibilità essenziali se ne aggiungono altre, in genere racchiuse nell’idea di libertà, la cui essenza è il potere stesso: scegliere il proprio partner, ad esempio, o poter sostenere pubblicamente le proprie idee. Molte di queste cose richiedono in effetti una forza. In una società che neghi alle donne le possibilità cui ritengono di aver diritto, ad esempio, esse sono costrette a ricorrere alla forza: devono forzare la società al riconoscimento. Lo stesso Cognetti poco oltre parla della “lotta per il senso della propria vita” di curdi, palestinesi, sikh, donne iraniane e afghane (p. 86).

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La pedagogia dell’evitamento

Molti anni fa entrai in una sala molto affollata per seguire una conferenza sull’educazione. Una volta — stava dicendo il conferenziere — un bambino a scuola poteva essere definito turbolento; oggi lo stesso bambino sarebbe definito iperattivo. E tra turbolento e iperattivo, spiegava, c’è una differenza enorme. La turbolenza è un problema pedagogico. L’iperattività diventa, invece, un disturbo.

Il conferenziere si chiamava Alain Goussot, e della questione avremmo discusso più volte, negli anni a venire. Mi sembrava che nella sua critica della medicalizzazione in atto nelle scuole ci fosse il rischio di non riconoscere problemi reali, che richiedono una personalizzazione della didattica, nella quale non riuscivo a non vedere una importante passo avanti della scuola italiana. A distanza di molti anni — e quando ormai non è più possibile, purtroppo, discuterne con lui — devo riconoscere che aveva molte ragioni.

Si è fatta strada in questi anni nelle scuole, fino a diventare dominante e incontrastata, quella che chiamerei pedagogia dell’evitamento. La famiglia comunica alla scuola che lo studente ha un disturbo certificato. E alla luce di quella certificazione, succede sempre più spesso che, sostenuta dallo specialista, chieda ai docenti di non far fare alla figlia o al figlio ciò che ha a che fare con il suo disturbo. Si va al di là delle misure dispensative e compensative, che pure sono diventate ormai un meccanismo pedagogicamente idiota (spesso si tratta solo di compilare un modulo barrando alcune caselle; ogni tipologia di disturbo ha le sue caselle). Mi è capitato di dover discutere in un consiglio di classe la richiesta, sostenuta da uno specialista, di esentare uno studente con un ritardo mentale dalla scrittura, dal momento che scriveva con grandi difficoltà. Questo studente, di quindici anni, aveva la scrittura di un bambino di otto anni; se la scuola avesse smesso di chiedergli di scrivere, avrebbe perso del tutto la capacità di scrivere. I genitori di una studentessa a disagio con le verifiche orali in classe chiedono che la figlia sia del tutto esentata dal parlare davanti ai compagni. In che modo potrà affrontare gli esami universitari? Come farà l’esame di laurea? A fronte di un disagio — spesso si tratta di questo, più che di un disturbo — la scuola può rinunciare a lavorare su competenze che sono fondamentali? È doveroso riconoscere a uno studente dislessico il diritto di scrivere usando il computer, ma siamo sicuri di aiutare uno studente con sindrome di Asperger badando ad evitare con la massima cura qualsiasi cosa che possa infastidire un soggetto con sindrome di Asperger? I nostri cervelli sono in costante adattamento all’ambiente. Un ambiente privo di qualsiasi sfida, che venga modellato sullo stato attuale di un cervello e non gli richieda nessun cambiamento, nessuno sforzo, è un ambiente che non favorisce, ma ostacola la sua crescita.

La rivendicazione delle famiglie è quella del successo scolastico. Che è sacrosanta. Il problema è che si confonde il successo con il voto. Se si chiede a uno studente di fare solo quello che sa fare, sicuramente i voti saranno alti. Ma lo scopo della scuola non è quello di mettere voti alti; è quello di far crescere gli studenti. E sappiamo che il nostro cervello cresce facendo cose difficili. Affrontando compiti che hanno un livello di sfida ottimale. Uscendo, per così dire, dalla nostra comfort zone mentale. L’impressione, invece, è che dopo la certificazione il lavoro dei consigli di classe consista proprio nel creare intorno allo studente una comfort zone tanto rassicurante quanto pericolosa.

È anche, mi sembra, un modo per venir meno alle proprie responsabilità educative e didattiche. Dispensare e compensare sono cose facili, con le quali mettiamo a posto la nostra inquieta coscienza di docenti senza troppi problemi. Siamo davvero convinti che una mappa concettuale, una calcolatrice, una interrogazione programmata possano aiutare qualcuno a crescere? Siamo sicuri che bastino i consolidati automatismi che portano all’elaborazione del Piano Didattico Personalizzato? Di fatto, manca nelle scuole il momento dell’elaborazione pedagogica e didattica. I docenti sono per lo più esecutori: prendono atto delle richieste contenute nella certificazione. Lo studente è esentato da…; si chiede alla scuola di… Ma la scuola è una comunità di professionisti dell’educazione. Cercare le mediazioni adeguate, una volta preso atto delle difficoltà dello studente, è un suo dovere. E non basta barrare qualche casella per assolverlo.

Il fatto che manchi ordinariamente nelle scuola la figura del pedagogista di Istituto, e che nessuno ne avverta la necessità, è un indice significativo della scarsa disponibilità delle scuole ad inoltrarsi nella via lunga della effettiva valorizzazione di ciascuno studente, oltre la scorciatoia dell’evitamento.

Pubblicato su Comune-info.

La scuola difficile

Ho raccolto gli articoli sulla scuola pubblicati negli ultimi anni – dal 2015 – prevalentemente su Gli Stati Generali in un ebook intitolato La scuola difficile, disponibile su tutte le librerie on-line al costo di 3.99 euro (Amazon, IBS, Kobo) .

Di seguito la Premessa.


Raccolgo in questo libro gli articoli sulla scuola che ho scritto nell’arco degli ultimi sei anni, prevalentemente su Gli Stati Generali, nella speranza che il ragionamento sulla scuola che essi tentano, ricondotto ad una qualche unità in una raccolta, possa contribuire, sia pure in misura minima, alla riflessione sulla scuola che abbiamo e su quella che vorremmo o dovremmo creare.

Lo intitolo La scuola difficile, riprendendo il titolo di uno degli articoli, per diverse ragioni.

In primo luogo, quella del titolo è la difficoltà della nostra scuola. È convinzione diffusa che la scuola italiana sia diventata facile, leggera, che abbia perso il rigore e la serietà di una volta. I miei studenti che passano un periodo di studi all’estero sono invece concordi nel percepire la nostra scuola come più difficile. E purtroppo questa maggiore difficoltà non comporta una maggiore serietà o una migliore preparazione. La scuola è più difficile semplicemente perché meno coinvolgente, più noiosa e pesante.

In secondo luogo, la difficoltà è quella della scuola che vorrei e che ritengo necessaria. E anche qui, in due sensi. Il primo è quello che provo a spiegare nell’articolo da cui ho ripreso il titolo (cap. 31). Possiamo fare una scuola più seria non rendendo più pesante il lavoro degli studenti, ma impegnandoci in un lavoro più complesso della routine lezione-compiti-interrogazione, tanto rassicurante (in fondo si è sempre fatto così) quanto evidentemente fallimentare. Ma questa scuola è difficile — ed è il secondo senso — anche perché qualsiasi tentativo di scardinare quell’impianto incontra resistenze fortissime, e spesso condanna all’isolamento ed all’incomprensione.

In questi sei anni si sono succeduti cinque governi: il governo Renzi (fino al dicembre 2016), il governo Gentiloni, il primo e il secondo governo Conte e l’attuale governo Draghi. Sono stati, soprattutto, gli anni della pandemia, che ha sconvolto in modi prima inimmaginabili il nostro modo di vivere e di fare scuola. Sono gli anni in cui la digitalizzazione delle scuole, promossa dal governo Renzi, ha avuto una accelerazione forzata dalla chiusura delle scuole, con la conseguente necessità di passare alla didattica a distanza. I docenti sono stati costretti a reinventarsi, a cercare vie alternative per raggiungere gli studenti, a sperimentare forme diverse di insegnamento. E, inevitabilmente, a riflettere su cosa è scuola e cosa no. La sospensione del setting tradizionale — tradizionalissimo, in Italia — è una occasione storica per interrogarsi sulle alternative. Sono convinto che questo sia il momento migliore per provare a ripensare la scuola. Il momento del ritorno alla normalità, che dev’essere il momento in cui si cerca qualcosa di più, e di meglio, di quella normalità. E tuttavia sono troppo disincantato per non ritenere più plausibile lo scenario tranquillizzante del semplice ritorno alla scuola di prima. Perché, appunto, una scuola altra è difficile.

Alcuni degli articoli qui raccolti hanno un carattere più teorico e presentano, con i limiti di un articolo giornalistico, la mia idea di scuola e di educazione, mentre altri sono più legati alla contingenza, a questo o quella notizia o fatto particolare. Trattandosi di una raccolta di articoli, e non di un saggio unitario, non sono infrequenti le ripetizioni di alcuni temi (ad esempio l’importanza del Service Learning o dell’abolizione dei compiti a casa).

L’idea di scuola che è al fondo di queste analisi è semplice e si può sintetizzare in poche parole: costituire la classe come una comunità in dialogo, passare dalla trasmissione alla ricerca comune, aprire la scuola al territorio e re-istituirla (si veda l’ultimo intervento, uscito su Gli Asini di Goffredo Fofi), formare gli studenti all’impegno, pensare il proprio lavoro di docenti nell’ottica della giustizia sociale, fare educazione, e non solo istruzione, e farla sia cogliendo l’aspetto valoriale dei contenuti culturali (il valore della bellezza nella poesia, nella letteratura, nell’arte; il valore della verità nella filosofia e nella storia; il valore della giustizia nel diritto, e così via), sia curando la relazione con gli studenti, che può essere via per la crescita reciproca solo se è autentica e viva, e non mortificata da quella verticalità burocratico-amministrativa che genera assurdità pedagogiche come la nota in condotta.

Quanto qui scritto è il risultato, anche, del confronto — dialogo ma anche, a volte, scontro — con molte persone, alle quali sono grato. Nominarle tutte sarebbe cosa lunga. Loro sanno. Per approfondire l’idea di scuola qui presentata si può leggere il libro Alternativa nella scuola pubblica. Quindici tesi in dialogo (Ledizioni, Milano 2018) scritto con Fabrizio Gambassi ed esito anch’esso di un lavoro comune fatto con colleghi, studenti e genitori.

Valutare e valorizzare

“Ogni inizio contiene una magia”, scriveva Hermann Hesse nel Gioco delle perle di vetro. Ed è una affermazione che per me vale soprattutto per quel nuovo inizio che è il primo giorno di scuola. Che è il momento in cui maggiormente mi fermo a domandarmi — a ri-domandarmi — perché insegno: e cosa vuol dire insegnare. Quando prendo una classe nuova, passo i primi giorni a interrogarmi sulla questione con gli studenti.

Lo scorso anno l’ho chiuso come commissario interno all’esame di Stato. Una esperienza che è l’esatto contrario del primo giorno di scuola. Se questo ha la freschezza degli inizi e la fragranza della possibilità di cambiamento, l’esame di Stato ha la tristezza atroce del giudizio finale con i vincitori e in vinti; il momento nel quale l’istituzione celebra la sua istituzionale ottusità.

Ho passato l’estate a cercare di riprendermi moralmente dagli esami. E a riflettere, ancora e ancora. In particolare, dopo aver passato giorni a chiudere esistenze e storie in un numeretto, a domandarmi cos’è valutare.

La questione della valutazione comprende tre aspetti.

Il primo è quello della selezione lavorativa. Qualunque idea di scuola si abbia, non si può negare che il suo compito sia anche quello di formare persone che occuperanno un certo posto nella società, ed è importante che abbiano sufficiente motivazione e preparazione per farlo. In genere si fa attenzione al secondo aspetto; per me il primo è anche più importante. Preferisco che nel campo sociale, ad esempio, lavori uno studente fortemente motivato anche se non preparatissimo piuttosto che uno con una preparazione approfondita ma privo di empatia.

Il secondo aspetto è quello che potremmo chiamare dell’adempimento disciplinare. A scuola si insegnano diverse discipline. Ogni disciplina ha i suoi argomenti e i suoi obiettivi da raggiungere. Si valuta lo studente in base al raggiungimento di questi obiettivi. Questi due primi aspetti sono legati in modo problematico. La scuola ritiene che valutare l’adempimento disciplinare dello studente serva al contempo a selezionare buoni lavoratori. Il mondo del lavoro non la pensa proprio così, e chiede a gran voce che il modo di insegnare e di valutare cambi, lasciando più spazio alle competenze. La scuola reagisce stizzita, affermando che il suo compito è formare la persona, e non selezionare lavoratori.

Il terzo aspetto è quello della valorizzazione. Lo studente è un futuro lavoratore ed uno che deve apprendere diverse discipline, ma è anche e soprattutto una persona che sta crescendo, e che in questo percorso difficile va aiutato a tirare fuori il meglio di sé, e prima ancora ad apprezzare quello di buono che già ha in sé.

Ritengo che questo terzo aspetto sia quello più importante. Se ripenso al mio percorso educativo e scolastico, mi accorgo del fatto che avrei avuto bisogno soprattutto di questo, da parte della scuola. Non sono stato uno studente facile, perché non facile era il mio contesto. Studiavo molto, ma per conto mio; solo raramente le lezioni scolastiche intercettavano i miei interessi. Al secondo anno delle superiori sono stato rimandato in tre materie. Una di queste era la lingua francese, che ho sempre amato moltissimo. Un’altra era arte. La mia prima scelta, per le superiori, ero stato i Liceo Artistico. Mi piaceva molto disegnare, ed ero anche piuttosto bravo. È evidente che dietro quelle insufficienze c’era qualcos’altro.

Alle superiori ho incontrato per lo più docenti che mi disprezzavano. Qualcuno di loro cercava anche di convincermi ad abbandonare la scuola. Il professore di musica riteneva che se avessi lasciato avrei potuto poi a diciott’anni fare il concorso in polizia — l’ho poi fatto davvero, superandolo anche — , mentre quello di matematica pensava, chissà perché, a una carriera da fotomodello. Quello che loro vedevano era uno studente che non studiava. Che non studiava quello che loro gli dicevano di studiare. E che per giunta aveva in classe un atteggiamento provocatorio; che al docente che gli chiedeva se stesse seguendo la lezione rispondeva con sincerità: no. E che per questo veniva invitato ad accomodarsi fuori dall’aula.

Poi è arrivato il professor Abbatangelo. Un vecchio professore di pedagogia, che evidentemente vedeva quello che agli altri sfuggiva. Non studiavo pedagogia. Va bene. Cosa studiavo? All’epoca ero immerso nello studio della filosofia indiana: la Bhagavadgita e il Vedanta. Se lo fece bastare. Mi interrogò sulla filosofia indiana, presi un gran bel voto. E cominciai a studiare pedagogia.

Che era successo? Era successo che il professor Abbatangelo mi aveva visto. Aveva visto, per la precisione, due cose. In primo luogo, me fuori dall’aula: i miei interessi, le mie domande. E poi aveva visto il mio altro. Non quello che ero, ma quello che potevo essere.

Chi insegna, chi educa, dovrebbe avere uno sguardo fertile. Dovrebbe guardare l’altro con occhi che fanno nascere cose, che scorgono le possibilità, che individuano i semi. Diseducatore è chi getta sull’altro uno sguardo che pietrifica. (“Studente con scarsa intelligenza”, aveva annotato sul suo registro la mia professoressa di latino. E questo nonostante il latino fosse praticamente l’unica disciplina nella quale avevo voti alti.)

Mi piace pensare alla scuola come il luogo in cui docenti, dirigenti, collaboratori scolastici siano sinergicamente impegnati a valorizzare gli studenti. Di fatto, questo avviene poco. E non solo perché la scuola è una istituzione che non riesce ancora a liberarsi dalle sue origini autoritarie e l’umiliazione dello studente, in forme aperte o subdole, è ancora pratica diffusa, ma soprattutto perché qualsiasi forma di riconoscimento avviene nell’alveo delle discipline. Quello che conta, alla fine, è che lo studente studi italiano, matematica e filosofia. Se lo fa è bravo, se non lo fa, non è bravo. Tutto qui. Un docente sensibile potrà incoraggiare lo studente in difficoltà, valorizzare i suoi punti di forza, sostenere la sua autostima, ma sempre nel cerchio della disciplina.

Cosa c’è che non va? Non è giusto che sia così? No, non lo è, e vediamo perché.

Lo studente X è arrivato in Italia da due anni. Prima di giungere da noi ha vissuto per diversi anni in un altro paese europeo. Conosce bene quattro lingue: la lingua madre, l’italiano, la lingua del paese in cui è vissuto e una quarta lingua che ha studiato nel suo paese natale. Ha una ricchezza linguistica che nessun altro studente ha nella sua classe. Ma non ama l’inglese. Se la cava male. Per la scuola, lo studente X è linguisticamente insufficiente. Ma non è così.

Consideriamo un altro caso. Questa volta mi permetto un ricordo. Anni fa uno studente russo di una mia prima giunse in ritardo alla prima ora. Per scherzo gli dissi che non potevo fare a meno di punirlo: avrebbe dovuto recitarmi una poesia russa a scelta. Lui ne fu felice, e cominciò a declamare dei versi di Puškin. Avrei scoperto poi che aveva una conoscenza molto approfondita della letteratura russa, ossia di una parte significativa della cultura mitteleuropea.

La scuola guarda gli studenti attraverso i suoi occhiali, che sono quelli disciplinari. Tutto ciò che non rientra in una delle discipline previste dall’indirizzo, semplicemente non esiste. La valutazione è il risultato della somma dei diversi sguardi disciplinari sullo studente. Il risultato è che la scuola è miope. E gli studenti lo sanno; una buona parte del loro malessere viene da qui. La scuola non li vede, se non nella misura in cui loro si scolarizzano. Se prendono la forma che la scuola richiede per guardarli. Uno studente figlio di genitori stranieri, ad esempio, non è in alcun modo invogliato dalla scuola a mantenere un contatto con le sue radici culturali. Le lingue e le culture nigeriana, o albanese, o romena non rientrano nel piano degli studi, e dunque non esistono. Sono una faccenda privata dello studente e della sua famiglia. L’integrazione dello studente straniero si riduce a organizzare corsi di italiano come L2; un processo unidirezionale, che non prevede alcuno scambio culturale, e dunque nessun riconoscimento reciproco.

Il tutto è più della somma delle parti. Difficile valutare uno studente procedendo per addizione, ma soprattutto difficile valorizzarlo in questo modo. Alla scuola manca una figura che segua, ascolti, guardi lo studente al di là delle discipline. Un tutor — la parola mi piace poco, ma non è questo il punto — che affianchi i docenti nella valutazione, offrendo una conoscenza più ampia che nasce anche dal confronto con la famiglia e dalla considerazione del contesto culturale. O forse manca semplicemente il coraggio di ripensarsi come una istituzione realmente educativa.