Nel 1792 Mary Wollstonecraft, moglie del filosofo anarchico William Godwin e madre della scrittrice Mery Shelley, pubblica la prima rivendicazione dei diritti delle donne: A Vindication of the Rights of Woman. Tra lo scandalizzato e il divertito, il filosofo neoplatonico Thomas Taylor le risponde quello stesso anno con una Vindication of the Rights of Brutes: se, come dice Wollstonecraft, le donne hanno diritti, perché allora non dovremmo riconoscere diritti anche agli animali? Non poteva immaginare, il filosofo, che sarebbe giunto il tempo in cui quello dei diritti degli animali sarebbe stato un normale tema di discussione morale. A dire il vero, già l’anno prima lo scozzese John Oswald, un giacobino morto durante la Rivoluzione francese, aveva scritto The Cry of Nature in cui, influenzato dall’etica dell’India (che aveva visitato come soldato), affermava la necessità del vegetarianesimo e il valore della vita non umana.
Hanno diritti gli animali? E quali diritti hanno? E quali animali li hanno? La questione non è oziosa: non è difficile riconoscere qualche diritto ad un cane o un cavallo, e tutti condanniamo moralmente la violenza gratuita verso questi animali (che comporta anche conseguenze penali), ma possiamo dire lo stesso di un topo e di un insetto? Hanno diritti tutte le forme di vita, o solo alcune? E in quest’ultimo caso, come distinguere le vite non umane che hanno diritti da quelle che non ne hanno? Si può individuare come criterio la capacità di soffrire o la razionalità, ma in questo caso non si ricorre ancora a un pregiudizio specista? Non si riconosce valore alla vita che maggiormente assomiglia alla nostra?
Siamo sicuri, poi, che sia il caso di parlare di diritti? La cosa ha un indubbio vantaggio: se si dimostra che la vita animale ha diritti, allora diventa obbligatorio per tutti rispettarli; non si tratta più di buona volontà individuale, ma di un obbligo di legge, la cui violazione può essere sanzionata. Ma si può parlare di diritti per soggetti che non fanno parte di una medesima comunità giuridica? Si può dubitarne. Il diritto regola il rapporto tra gli esseri umani, ed ha sempre un carattere di reciprocità. Il soggetto A ha doveri verso il soggetto B, che si impegna a sua volta a rispettare i diritti del soggetto A. E’ evidente che non è questo il caso dei viventi non umani, che costituiscono con l’essere umano una comunità ecologica, ma non una comunità di diritto.
Ma la (eventuale) negazione dei diritti degli animali ha un corollario interessante. Se io faccio parte di una comunità di diritto, mi trovo ad avere alcuni diritti, alcuni doveri ed anche diversi diritti-su. Un genitore, ad esempio, ha il dovere di educare il figlio, che a sua volta ha il diritto di essere educato (ed istruito); ma il primo ha anche alcuni diritti sul secondo, che sono legati al ruolo che la legge gli riconosce. Come è noto, nella Roma antica questi diritti-su erano molto estesi, e davano al pater familias anche il diritto di disporre della vita del figlio. Oggi per fortuna il diritto-su genitoriale è moto più limitato, ma persiste.
Ecco dunque il corollario: se gli animali non hanno diritti, perché non fanno parte della nostra comunità di diritto, allora nemmeno noi abbiamo diritti su di loro. Questo vuol dire che l’umano che costringe l’animale a lavorare per lui, o lo uccide per mangiarne la carne o usarne la pelliccia, o per divertimento, o ancora lo riduce ad animale da compagnia, spesso dopo averlo sterilizzato, non sta esercitando un suo diritto sull’animale, ma sta agendo in base alla sola forza. Sta cioè compiendo una violenza, ossia un’azione moralmente condannabile e razionalmente ingiustificabile.
C’è un modo per sfuggire a questa conclusione, e consiste nel dire che in realtà l’essere umano il diritto sulla vita animale l’ha, perché glielo ha concesso Dio.
Chi legge quello che scrivo su
Gli Stati Generali sa che non ho apprezzato molto l’ultimo libro di Leonardo Caffo,
Fragile umanità. Tra le altre cose, Caffo scrive in quel libro che chi è specista “chiude gli occhi” di fronte alla sofferenza animale. Replicando con quel cinismo che piace tanto ai lettori di destra, Camillo Langone
racconta sul Foglio di essersi precipitato, dopo averlo letto, in Romagna per imparare ad uccidere oche e conigli. Nonostante il cinismo, anche Langone sente la necessità di giustificare la sua azione. E scrive:
Ovviamente lo specismo, ossia il pensiero della superiorità dell’uomo sulle bestie, non è affatto un pregiudizio bensì un giudizio e addirittura di Dio, dunque a spingermi in Romagna è stato il desiderio di ubbidire a chi mi ha creato a sua immagine e somiglianza: “Il timore e il terrore di voi sia in tutti gli animali della terra e in tutti gli uccelli del cielo” (Genesi 9,2).
Si potrebbe replicare che una manciata di anni prima dell’ateo Oswald era stato un sacerdote (anglicano), Humphry Primatt, a sostenere dal punto di vista cristiano il dovere di rispettare la vita animale nella sua Dissertation on the Duty of Mercy and Sin of Cruelty to Brute Animals (1776). Ma soprattutto è interessante osservare che non è possibile giustificare il diritto di disporre della vita animale se non ricorrendo alla religione o al mito. Ed è una giustificazione estremamente debole, se vogliamo adoperare llo stesso cinismo di Langone: siamo in piena secolarizzazione, la Chiesa si sta autodistruggendo, i battezzati sono molti ma i credenti pochi, e anche chi dice di essere credente il più delle volte crede in una sua religione personale, che mette insieme Cristo e il karma. L’argomento del mandato divino è destinato a diventare sempre più una favola, e di quelle che non si raccontano nemmeno più ai bambini. E resterà la domanda: quale diritto abbiamo di uccidere gli animali?
Nell’immagine: Antonio Tempesta (Firenze, 1555 – Roma, 5 agosto 1630),
Dio crea gli animali.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 29 marzo 2018.