Sono vegetariano dall’età di sedici o diciassette anni. Erano gli anni Ottanta, ed il vegetarianesimo non era propriamente di moda. Per quello che riesco a ricordare, a spingermi verso quella scelta furono le mie letture di filosofia indiana: la Bhagavadgita, Aurobindo, cose così. A convertirmi al vegetarianesimo è stata, cioè, una motivazione che oggi sembra essere del tutto tramontata: non etica, ma ascetica. Non mangiare carne come forma di rinuncia, di controllo sul proprio corpo e sui propri desideri. Con il tempo questa prima spinta ascetica si è arricchita di motivazioni etiche – risparmiare la vita degli animali, che è dotata di valore – e perfino estetiche (il disgusto per i corpi squartati, per la loro esibizione nelle macellerie, per il tetro allestimento di pezzi di corpi nei piatti). Tra le motivazioni non è mai comparsa quella salutista, che per molti è determinante: sia perché ho l’abitudine di avere convinzioni fondate su conoscenze certe, e non ho conoscenze che mi consentano di affermare con certezza che una dieta vegetariana o vegana è più salutare di una dieta che comprenda la carne, sia perché, per dirla tutta, non mi sono curato mai troppo della mia salute. Ultime sono arrivate le motivazioni politiche, di cui vorrei parlare qui.
In filosofia morale si distinguono due tipi di azioni: quelle doverose e quelle supererogatorie. Le prime sono quelle che ci si aspetta che tutti compiano; e chi non le compie è colpito dal biasimo (e in qualche caso dalla condanna penale). Le azioni supererogatorie sono invece azioni moralmente ammirevoli, ma che vanno però al di là di quello che si può ragionevolmente chiedere ad una persona media. E’ doveroso pagare le tasse, mentre è un’azione supererogatoria sacrificare la propria vita per il bene di persone sconosciute. Chi lo fa ottiene l’ammirazione di tutti, ma è chiaro che si è trattato di una sua libera scelta, che non obbliga gli altri. La vita del santo si svolge tutta a questo livello, ma è chiaro che i santi vanno venerati, più che imitati. Il problema che vorrei porre è: il vegetarianesimo ed il veganismo che tipo di scelte sono? Sono scelte moralmente doverose o supererogatorie? Ognuno è moralmente tenuto ad essere vegetariano, o è un sacrificio che possiamo lasciare a chi vuole realizzare un suo ideale di perfezione morale? Sono intimamente persuaso, come molti, del valore della vita animale. Se riuscissi a dimostrare al di là di ogni dubbio che la vita animale ha valore, allora la domanda avrebbe una risposta semplice. Se la vita animale ha valore, sopprimerla è un delitto, e dunque il vegetarianesimo/veganismo è moralmente doveroso. Purtroppo, non sono in grado di dimostrare il valore della vita animale. Lo intuisco, ma non so dimostrarlo. Il ragionamento più solido in favore del valore della vita animale mi sembra quello antichissimo del Dhammapada buddhista. Che dice (par. 129): ogni essere vivente ha paura della violenza e della morte e cerca la felicità; per questo, non bisogna uccidere né permettere che altri uccidano. L’animale come me vuole vivere, mostra una volontà di vita, un sì alla vita, che non è diverso dal mio, e che merita rispetto. Ma non sono sicuro di riuscire a difendere questo argomento dalle obiezioni. Mi si potrebbe far notare, ad esempio, che è quella stessa volontà di vita che spinge l’animale, per sopravvivere, a distruggere altre vite. Ed io stesso, quando coltivo l’orto, mi trovo a distruggere esseri viventi che ho arbitrariamente classificato come “erbacce” per far spazio ad altre piante, che soddisfano il mio gusto estetico o il mio palato. Ho parlato di una ragione politica del vegetarianesimo. Una cosa che non sapevo quando sono diventato vegetariano è che essere vegetariani è un modo per affrontare la fame nel mondo. La “fame nel mondo” è, con Auschwitz e l’atomica, uno dei grandi temi umanitari della scuola degli anni Ottanta. Ciclicamente eravamo messi al cospetto di immagini di bambini africani denutriti, per prendere coscienza del nostro benessere e dell’ingiustizia mondiale. Pare che abbia funzionato, almeno con me. Sono pienamente consapevole dell’ingiustizia che è nel nostro benessere, e del legame esistente tra il nostro benessere e la miseria di gran parte del mondo. Il nostro benessere si manifesta, oltre che con uno stile di vita insostenibile (ad esempio l’uso dell’automobile), con un’alimentazione carnea. I paesi industrializzati mangiano una quantità di carne che nessun popolo nella storia ha mai consumato. Per quanto, come ho detto, sia poco in grado di valutare le affermazioni in questo campo, mi pare evidente che i risultati di questo tipo di alimentazione per la salute siano tutt’altro che positivi. Obesità e malattie cardiovascolari sono veri flagelli nei paesi ricchi, e sono ovviamente legati allo stile alimentare.
Ma il punto è un altro. Il punto è che questo stile alimentare toglie letteralmente il pane di bocca ai poveri. Per produrre una proteina animale occorre consumare una grande quantità di proteine vegetali. E’ un processo ad imbuto, nel quale da un lato di inseriscono i cereali che potrebbero sfamare il mondo intero, e dall’altro fuoriescono le proteine animali che alimentano (e superalimentano) solo il mondo ricco. Se gli allevamenti animali scomparissero, o fossero fortemente ridotti, ci sarebbe terra sufficiente per coltivare cereali ed altri alimenti vegetali sufficienti per dare da mangiare a tutto il pianeta.
Torniamo dunque alla nostra questione. E’ un principio moralmente condiviso che un’azione che provochi un danno ad un altro essere umano è un’azione moralmente deplorevole, soprattutto se il danno è grave e l’azione è evitabile. Il fatto che questo altro sia lontano non diminuisce la gravità dell’azione. Se io per gioco schiaccio un tasto che fa partire un missile che uccide mille persone in Cina, il mio è un atto immorale. Il fatto che io non veda i mille cinesi – o che i cinesi siano, appunto, cinesi – non rende meno grave la mia azione. Diversa sarebbe la questione se l’atto di uccidere mille cinesi fosse indispensabile per la sopravvivenza mia o dei miei cari o della mia città o del mio popolo. E’ una questione difficile, che però qui non ci riguarda, dal momento che mangiare carne è un atto assolutamente evitabile, senza alcuna grave conseguenza per la salvezza e l’incolumità di chi vi rinuncia. Se dunque la mia azione di mangiare carne è legata alla mancanza di risorse alimentari in grado di sfamare tutti, è per me moralmente doveroso rinunciare alla carne. Si possono fare due obiezioni a questo ragionamento. Qualcuno potrebbe cinicamente obiettare che non gliene importa nulla della vita del bambino etiope, che per lui sono degne di valore solo la vita sua, dei suoi cari e di chi gli è vicino, e che gli altri possono morire. Purtroppo non ho una risposta a questa obiezione. Dovrei dimostrare che la vita umana – di ogni essere umano – ha valore, ma non sono in grado di dimostrarlo, così come non sono in grado di dimostrare il valore della vita animale. Mi pare in generale che sia estremante difficile dimostrare un valore. E’ per questo che quando si parla di valori spesso si giunge alla rissa. Fortunatamente, ho ragione di ritenere che un tale cinismo sia ormai poco diffuso. Molto più diffusa è l’ipocrisia di chi afferma il valore di ogni vita umana solo teoricamente, e solo se non gli costa nulla. La seconda obiezione è la seguente: capisco tutto, sono d’accordo, ma a me la carne piace, e quindi la mangio lo stesso. Non prenderei in considerazione questa obiezione, evidentemente rozza, se non avessi notato che è molto frequente, ed anche in persone tutt’altro che ignoranti. In questo caso la risposta mi sembra abbastanza facile. Immaginiamo che passi una belle ragazza. Mi piace, vorrei possederla. Il mio gusto mi spinge verso di lei. Ho dunque il diritto di fare quello che voglio, o il gusto deve cedere al dovere? E’ evidente che porre il gusto come criterio di scelta del bene e del male porta a conclusioni assurde e socialmente inaccettabili.
Se quanto detto non è sbagliato, è dunque moralmente doveroso per chiunque viva in un paese ricco mangiare meno carne o non mangiarne affatto. O aggiungere un nuovo senso di colpa ai tanti che affollano la sua coscienza.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 27 maggio 2015.