Cosa sta succedendo a Facebook?

Ieri ho segnalato, con un articolo sugli Stati Generali, l’assurda censura in cui è incorso su Facebook lo scrittore Marco Rovelli, noto per il suo impegno per i diritti civili, il cui profilo è stato bloccato con l’accusa di aver scritto la parola “negro”. Qualche ora dopo il mio articolo, è capitato anche a me di subire la rimozione di un contenuto giudicato non rispettoso degli standard di comunità. Si trattava, in questo caso, di un vecchio post contenente l’affermazione “Antonio Vigilante è terronista”, un post autoironico (terronista da terrone: sono un pugliese che vive a Siena) assolutamente innocuo. Per aver linkato l’articolo in cui parlavo di questa censura, oggi sono stato bloccato per un giorno.


E’ una affermazione semplicemente falsa. Il mio post – e l’articolo cui rimandava – non attaccava nessuno un base alla razza, all’etnia, alla nazionalità, alla religione, all’orientamento sessuale, al genere o alla disabilità. Non meno di Rovelli, anche se temo con efficacia minore, mi occupo dei diritti civili, come è possibile constatare anche scorrendo gli articoli pubblicati su Gli Stati Generali. L’articolo è stato censurato (e io sono stato bloccato) per un’altra ragione: perché conteneva una critica a Facebook.  In sostanza, Facebook (o qualcuno per conto di Facebook, ma non è dato sapere chi) censura in modo assolutamente arbitrario e privo di logica; se qualcuno protesta, passa al provvedimento successivo del blocco temporaneo; ed avvisa, intanto, che più blocchi ripetuti possono portare alla disattivazione permanente dell’account. Abbiamo dato a Facebook un potere immenso. Gli abbiamo consegnato la nostra storia, la nostra identità, la narrazione di noi stessi, la nostra passione, le foto delle persone che amiamo e dei nostri momenti felici e gli sfoghi dei momenti tristi. Lo abbiamo fatto credendo che fosse uno strumento, un mezzo neutro per mettere in comunicazione le persone, esattamente come una piazza virtuale. Le cose evidentemente non stanno così. Facebook è un potere arbitrario, che procede con modalità apertamente kafkiane – si è bloccati senza sapere perché, senza sapere da chi, senza avere la possibilità di far valere le proprie ragioni – e che non ammette la libertà di critica. Per fortuna, è un potere al quale ci si può sottrarre con un clic. Lo farò dopo aver recuperato e messo al sicuro sul mio computer le foto del mio cane, morto qualche giorno fa, che ingenuamente ho pensato di salvare sul mio profilo; ammesso che, dopo questo articolo, Facebook mi dia il tempo di farlo.

Aggiornamento

Rientrato nel mio profilo dopo un giorno di blocco, trovo questo avviso:

Siamo alla follia.Semplicemente.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 18 ottobre 2017.

Sono un terronista (e Facebook mi censura)

Per una singolare coincidenza, poche ore dopo il mio articolo sulla assurda censura di Marco Rovelli, Facebook mi ha notificato di aver rimosso un mio contenuto che avrebbe violato gli standard della comunità. Per quello che riesco a capire, le cose sono andate come segue. Molto tempo fa – tanto tempo, che nemmeno me ne ricordavo – ho scritto un post nel quale mi davo del “terronista”. Una uscita ironica (non particolarmente brillante, lo ammetto) che alludeva alla mia condizione di foggiano (quindi terrone) a Siena. E’ un aggettivo che uso qualche volta con i miei amici senesi, insieme al verbo terronizzare. Cose come: “Basta lavorare, lasciatevi terronizzare un po’, andiamo a prendere un caffè”. Ora, è successo che a qualcuno – che segue le mie cose con tanta attenzione da scovare un post che avevo dimenticato – quell’aggettivo non è piaciuto. Può essere che gli sia sfuggita la n, ed abbia letto terrorista, o che davvero abbia pensato che ce l’avessi con i terroni. E si è indignato tanto, da non scrivermi per chiedermi il senso di quel post (glielo avrei spiegato volentieri), ma da segnalarmi a Facebook. Come se avessi incitato a mettere i terroni sulla graticola.  All’oscuro censore di Facebook è giunta questa segnalazione, e invece di farsi una risata, ha ritenuto opportuno, anzi necessario rimuovere il mio post e segnalarmelo.

Confesso: la cosa mi ha fatto sorridere. Ma poi è subentrata la riflessione. Una riflessione triste. Ho spesso usato la segnalazione di contenuti inappropriati per chiedere la rimozione di post razzisti o fascisti. Non larvatamente fascisti o razzisti: considero importante la libertà di pensiero. Ricorro alla segnalazione solo quando si tratta di opinioni potenzialmente omicide: quando si incita ad uccidere i Rom o i neri. E nove volte su dieci ricevo da Facebook la risposta che il contenuto segnalato non viola gli standard di comunità. Il fatto che un contenuto innocuo, (auto)ironico, privo di qualsiasi malizia venga invece censurato, mi fa pensare a due scenari. Nel primo, mi figuro un oscuro censore alle prese con una mole di lavoro che lo manda semplicemente fuori di testa. Dopo otto ore di lavoro folle, si vede arrivare l’ennesima segnalazione. E non ha la lucidità necessaria per considerarla in modo razionale. Nel secondo scenario l’oscuro censore è uno che nemmeno sa quello che fa, un nerd malpagato messo a gestire una cosa più grande di lui. In ogni caso, la libertà di espressione di due miliardi di persone è in mani tanto oscure quanto fragili.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 17 ottobre 2017.

Facebook censura Marco Rovelli

“Questi racconti sono la versione moderna della Storia della colonna infame di Manzoni. Oggi si condannano senza alcun grado giudiziario degli esseri umani a scontare pena in un recinto di appestati.” Sono parole di Erri De Luca che si trovano sulla quarta di copertina di Lager italiani (Rizzoli), il libro del 2006 con il quale Marco Rovelli denunciava la vergogna dei Centri di Permanenza Temporanea, nati dalla stessa logica concentrazionaria che ha dato origine ai lager nazisti. Rovelli era andato nei Centri, aveva incontrato i reclusi , aveva ascoltato le loro storie e le aveva raccontate in un libro che è ancora oggi importante per capire le (bio)politiche di gestione delle migrazioni nel nostro paese. Ed ha continuato questo lavoro di ascolto e di narrazione legato alla difesa dei diritti umani e civili nei dieci anni successivi, ad esempio con la bellissima storia del musicista rom Jovica Jovic (La meravigliosa vita di Jovica Jovic, appunto) pubblicata da Feltrinelli del 2013. Bene: questa mattina Rovelli è stato bloccato da Facebook. L’accusa: aver scritto la parola “negro”. Il post incriminato – che è stato rimosso, e dopo il quale Rovelli è stato bloccato – è il seguente:

Karl Brandt sorride felice dagli inferi: la felice famiglia Rosenberg si fa un selfie e caca sulla testa pulciosa di un hippie drogato comunista e mezzo negro.

Precedentemente gli era stato cancellato un altro post, nel quale commentando le parole di Salvini riguardo alla mano libera che darebbe alle forze dell’ordine se andasse al governo aveva scritto che si tratterebbe della libertà di menare “zecche e negri”. Non occorre evidentemente spendere molte parole per dimostrare che se si blocca Rovelli con l’accusa di razzismo si compie una mostruosità. Qualche parola è bene spenderla – oltre che per manifestare solidarietà a Rovelli – per ragionare sul sistema. Negli Standard della comunità di Facebook si legge:

Facebook rimuove i contenuti che incitano all’odio, compresi quelli che attaccano direttamente una persona o un gruppo di persone in base a: • razza; • etnia; • nazionalità di origine; • affiliazione religiosa; • orientamento sessuale; • sesso; • disabilità o malattia. Le organizzazioni e le persone impegnate a promuovere l’odio contro questi gruppi protetti non possono avere una presenza su Facebook. Come per tutti i nostri standard, confidiamo nelle segnalazioni della nostra comunità per individuare questi contenuti.

Un criterio condivisibilissimo, ma c’è qualcosa che non funziona se poi si traduce in una pratica di censura che opera indifferentemente su Matteo Salvini e su Marco Rovelli. Come è noto, si parte dalla segnalazione di un utente. Qualcuno che può essere stato sinceramente irritato dall’uso di quella parola, ma più probabilmente qualcuno cui Rovelli non sta simpatico, anche per le sue battaglie per i diritti civili. Dal momento che le segnalazioni possono essere pretestuose, diventa centrale quello che accade dopo: l’analisi della segnalazione. Poiché Facebook non è soltanto un sito Internet, ma un social network con due miliardi di utenti che lo usano come principale strumento per rendere pubblico il proprio pensiero – poiché, cioè, Facebook è uno dei canali principali attraverso i quali si manifesta oggi, di fatto, la libertà di pensiero e di espressione – diventa fondamentale che le persone che valutano le segnalazioni sappiano il fatto loro. Ma chi sono? Proprio perché Facebook ha due miliardi di utenti, e i contenuti da segnalare costituiscono una mole di lavoro immensa, è improbabile che le segnalazioni possano essere trattate da personale qualificato. Secondo un rapporto dell’Unesco [1], Facebook avrebbe esternalizzato questo lavoro ad agenzie di cui non è nemmeno dato conoscere il nome (per il rapporto Unesco in passato era la oDesk, ma non si sa quale sia ora). Ci si trova di fronte ad una situazione kafkiana. C’è un potere che può metterci a tacere, imporci di cancellare quello che abbiamo scritto, espellerci; è un potere che agisce in modo discutibile, censurando un noto difensore dei diritti civili con l’accusa di razzismo; ed è un potere affidato ad oscuri impiegati, cottimisti della censura di cui non è dato conoscere i nomi. Si dirà: non occorre stare su Facebook. Ottima cosa sarebbe sottrarsi a questo potere semplicemente uscendo da quel social network, e magari anche da altri. Ma, che piaccia o meno, Facebook è oggi una realtà nella realtà; è una sfera pubblica nella quale accadono fatti sociali, ed una delle forme principali nelle quali oggi si manifesta (nei modi spesso discutibili che conosciamo) la partecipazione al dibattito pubblico. L’utopia della rete democratica, che favorisce il confronto pubblico e quindi la crescita del dialogo, si è infranta di fronte alla distopia di social network nei quali si tenta di arginare un’onda imponente di odio omofobico, misogino, razzistico con interventi censori casuali, inefficaci e spesso, come in questo caso, semplicemente stupidi.

[1] Unesco, Fostering freedom online: the role of Internet intermediaries, 2014, p. 147, nota 755. Url: http://unesdoc.unesco.org/images/0023/002311/231162e.pdf

 Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 17 ottobre 2017.

Facebook come asocial network

Ho chiuso il mio profilo Facebook e ne ho aperto uno nuovo, con nuove regole. Troppo faticoso sarebbe stato cancellare tutte le amicizie o pseudo-amicizie. Ho preferito ripartire da zero. Il mio nuovo profilo funziona così: i post sono pubblici e chi vuole può seguire gli aggiornamenti, proprio come un blog; nessuno però può chiedermi l’amicizia.
Molto mi ha fatto riflettere, tra l’altro, il comportamento socialmente miserabile di una scrittrice abbastanza nota che ha avuto con me una discussione sul mio profilo. Cosa da ordinaria amministrazione; ma ne è seguito un post sul suo, di profilo, con il quale senza nominarmi riportava le mie affermazioni distorcendole apertamente e sostanzialmente incitando i suoi lettori al linciaggio. Cosa che è puntualmente avvenuta.
Io provengo da una condizione di asocialità completa; vorrei poter dire felice, ma felice non era; e tuttavia ne ero in qualche modo soddisfatto. Ma mi sono imposto di uscirne, e di spingermi anche nella sfera pubblica. Per questo ho aperto, ormai più di quindici anni fa, il mio primo blog, e per questo ho contribuito alle fortune di Zuckerberg. Ma, perdonatemi, davvero non ce la faccio. Il misto di meschinità, di piccineria, di stupidità, di violenza mimetica delle situazioni sociali, e ancor di più delle situazioni sociali virtuali, non lo reggo.
Ho visto che in questi ultimi giorni è diventato virale, come si dice, un mio articolo dello scorso anno sui controlli antidroga a scuola. Su una pagina Facebook ha più di novemila like. Altri siti e pagine riprendono l’articolo senza citare la fonte, tutti dicono che è stato scritto adesso, qualcuno dice che è una lettera, qualcuno dice che sono una professoressa. La7 mi invita a parlarne in una trasmissione che non conosco. Qualcuno mi copre di insulti pubblicamente, qualche altro privatamente, qualcuno mi segnala alle forze dell’ordine e all’ufficio scolastico.
Fate come vi pare. Vivete le vostre passioni, accapigliatevi, fatevi adorare dai vostri seguaci. Ma alla larga da me.

Razzismo standard

A proposito di vignette vigliacche. Uno dei tanti fascisti di Facebook pubblica un vecchio manifesto fascista dal contenuto inequivocabilmente razzista: un uomo nero che violenta una donna bianca e la scritta Difendila! Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia. Segnalo la cosa a Facebook, che mi risponde che il contenuto non è stato rimosso perché hanno riscontrato che rispetta i loro Standard della comunità.
Leggo questi Standard della comunità:

Facebook non consente i contenuti che incitano all’odio, ma attua una distinzione tra contenuti seri e meno seri. Se da un lato incoraggiamo gli utenti a mettere in discussione idee, eventi e linee di condotta, non consentiamo la discriminazione di persone in base a razza, etnia, nazionalità, religione, sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia.

Poiché il manifesto è inequivocabilmente razzista ed inequivocabilmente incita all’odio contro i neri, bisogna dedurne che per Facebook si tratta comunque di un contenuto “meno serio”.
Intanto a Foggia una giornalista de l’Unità viene processata per aver commentato criticamente su Facebook un manifesto di una scuola per estetiste, che mostrava una bambina bionda, intenta a truccarsi, e la scritta Farò l’estetista. Ho sempre avuto le idee chiare.