Dopo Arturo Paoli ci ha lasciati, anch’egli centenario, Pietro Ingrao. Lo incontrai nell’ormai lontano 2001, in una tavola rotonda in Campidoglio sul tema “Sinistra e nonviolenza” cui partecipò anche il compianto Tom Benetollo. Ricordo che Ingrao parlò a lungo di Capitini, e delle riserve che suscitava il suo vegetarianesimo. “Con Paolo Solari andammo ad Assisi. C’era anche Capitini. Io e Solari, a tavola, ci demmo i gomiti perché Capitini era vegetariano. Non capivamo come anche quello fosse un suo modo di praticare la nonviolenza”. Ed ammetteva: “Rispetto al messaggio di Capitini, noi abbiamo camminato su una strada diametralmente opposta che ci ha condotto alla rivalutazione della grande guerra di massa. Una guerra non più difensiva, come vorrebbe l’articolo 11 della nostra costituzione, né di necessità ma ‘bene in sé’”.
Io mi portai una decina di pagine di appunti, ma il mio intervento durò non più di un quarto d’ora, e dissi un terzo delle cose che avrei voluto dire. Mentre parlavo un ragazzo sudamericano in prima fila – la sala del Carroccio in Campidoglio era gremita di giovani: molti ragazzi erano seduti a terra – aveva gli occhi chiusi. Pensai che dormisse o fosse annoiato. Alla fine dell’incontro, invece, venne a parlarmi del Sudamerica, e delle dinamiche di potere e di dominio: e del bisogno di cambiarle.
Quelli che seguono sono gli appunti di allora.
Sinistra e nonviolenza
Il problema dell’élite
In un recente articolo apparso in Mondoperaio Giancarlo Bosetti, parlando di quelli che chiama i nuovi vizi della sinistra italiana, scrive che la «democrazia è competizione tra élite, non è sostituzione di masse al posto di élite – salvo che nelle utopie rivoluzionarie…» [1] Proprio questo considerare la democrazia affare esclusivo della élite dei politici è, dal punto di vista della nonviolenza, un vizio antico della sinistra, un vizio più grave dei nuovi vizi dell’inerzia e del cinismo, della mancanza di principi, della rigidità e pigrizia mentale denunciati da Bosetti. Non solo: non è difficile accorgersi che questi nuovi vizi scaturiscono da quel vecchio vizio di considerare la politica affare dei politici. Ha ragione Bosetti quando nota ancora che lo stile del politico di sinistra deve essere sobrio ed irreprensibile. Certo, c’è l’esempio di Berlusconi, leader politico che poco coltiva la sobrietà come stile di vita. Ma non vale evocare questo modello negativo: «Le regole per la sinistra – osserva Bosetti – sono più dure perché comunque alla politica la sinistra chiede di più» [2]. È vero: la sinistra chiede di più alla politica. Ma anche questo di più appare insufficiente dal punto di vista della nonviolenza. Alla politica la sinistra chiede una élite di uomini seri, onesti, rigorosi: o almeno di uomini che appaiano tali. A quanto pare non è fondamentale, per Bosetti, che queste qualità siano realmente possedute dai politici di sinistra. Occorre, dice, che egli «si presenti» come un uomo affidabile e aggiunge: «naturalmente se poi lo è davvero meglio ancora…» [3]. Ecco, insomma, il ragionamento: al politico occorre consenso; per ottenere consenso il politico deve mostrare qualità che lo rendano simpatico alla gente; queste qualità devono essere mostrate, ma non necessariamente possedute. Il politico non deve dimostrarsi cinico, perché alla gente il cinismo non piace. Poco importa che proprio in questo non mostrarsi cinico ci sia molto cinismo.
Tutto ciò c’entra poco con la nonviolenza. C’entra poco il discorso sulle élite. Che la politica sia di fatto affare di élite è cosa non nuova: lo sapeva già il lettore degli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca. Ma questo è un giudizio di fatto, non un giudizio di valore. Che anche negli stati democratici il potere sia nelle mani di un ristretto numero di persone non è, dal punto di vista della nonviolenza, un fatto che si possa accettare pacificamente. Le teorie che rifiutano il principio delle élite sono, per Bosetti, utopie rivoluzionarie. La nonviolenza critica e combatte la realtà della élite: essa è, in effetti, una teoria politica a carattere rivoluzionario, come meglio vedremo in seguito. Non credo che si possa accettare per la nonviolenza anche la definizione di utopia. Utopia non è una brutta parola, ma temo che per molti questo equivalga a spingere la nonviolenza nel mondo dei sogni, dove si realizzano mondi perfetti che purtroppo nulla hanno a che fare con la realtà. Quanto s’è detto ci aiuta a comprendere per quale motivo la nonviolenza non può essere politica di partito. Un partito è in competizione con altri partiti. Deve ottenere consenso, pena la propria scomparsa. Un partito difende se stesso, la propria identità, la propria causa, i propri uomini. Un partito esprime una classe politica, una classe di persone che prendono su di sé la responsabilità di gestire la cosa pubblica nell’interesse di tutti. Ma inevitabilmente in questa lotta molti scrupoli vanno perduti, molti principi si smarriscono nel gioco della alleanze, posizioni giuste ma impopolari vengono abbandonate. La politica oscilla tra due poli: da una parte quella di chi cerca consenso facendo leva sugli interessi e gli egoismi delle classi sociali giunte al benessere, manovrando abilmente le paure legate alla criminalità, alla immigrazione, ai cambiamenti sociali; dall’altra, quella di chi si mostra tollerante, aperto, progressista, presentando idee e programmi gradevoli, fin troppo facilmente condivisibili. Nel secondo caso il candidato deve impegnarsi di più, perché la sinistra, come dice Bosetti, chiede di più alla politica. Ma è una fatica per ottenere successo elettorale per la propria persona e per il proprio schieramento politico; un metodo come un altro per ottenere lo scopo. In entrambi i casi, ciò che si prospetta ai cittadini è un quadro fatto di benessere, sicurezza, sviluppo. Questo chiede oggi la gente alla politica, e questo la politica promette. La nonviolenza è, confrontata con essa, una non-politica, una pre-politica, una post-politica.
Scriveva Aldo Capitini nel 1949: «La migliore politica oggi è fare qualche cosa di meglio della politica» [4] La sinistra, osservava, segue due metodi. Nelle situazioni di forte autoritarismo cerca di stabilire un potere pieno: è il caso della rivoluzione russa. Nei paesi democratici invece i partiti di sinistra cercano di raggiungere un benessere sempre più vasto. La prima via porta alla dittatura, la seconda al «borghesismo» [5] di chi pensa ad accaparrarsi la fetta più grande possibile di beni, più che a trasformare realmente la realtà economica e sociale. La nonviolenza rigetta la dittatura, ma non accetta nemmeno una semplice politica del benessere. Il suo fine è diverso. Potenza e benessere per Capitini non sono che mezzi: cercati e posti per se stessi danno vita a modelli di società insufficienti. I veri fini dell’attività politica sono altri. La libertà, anzitutto; e poi la solidarietà o socialità. Il potere deve servire come mezzo per la libertà, il benessere deve favorire la solidarietà. Questa è la terza via della nonviolenza: il suo fine è quello di instaurare una società di uomini liberi e solidali, che Capitini chiama realtà di tutti o società aperta. Una società nonviolenta si distingue per il suo carattere inclusivo: è un cerchio che di continuo si espande ed accoglie coloro che sono costretti da qualche insufficienza a separarsi dal corpo sociale. Una tale società non è una società del benessere. Nella corsa al benessere chi resta indietro viene dimenticato, escluso o, nella migliore delle ipotesi, assistito. Diversamente, nella società cercata e concepita sul modello nonviolento chi scivola ai margini è costantemente richiamato al centro come elemento essenziale, come pietra angolare dell’edificio sociale.
Centro e periferia
L’Italia nonviolenta pensata ed auspicata da Capitini era un’Italia di periferie che diventano centri. È interessante notare che il tragitto della prima Marcia della pace, organizzata da Capitini nel 1961, attraversava zone periferiche, proprio con l’intento di raggiungere persone tagliate fuori dal potere. L’omnicrazia, il potere di tutti doveva partire da queste periferie, dalle borgate, dai paesini semi-abbandonati. Perché proprio dalle periferie? Perché la periferia è il luogo dell’impotenza, dell’esclusione; il luogo cui corrisponde, sul piano umano, l’esistenza del malato, del portatore di handicap, dell’emarginato. Questi luoghi e questi uomini sono di per sé un atto di accusa contro la società, i suoi valori, la sua economia. Ora, il farsi-centro di queste periferie avviene quando si riesce a suscitarvi una presa di coscienza ed uno sguardo critico verso il centro. Ogni punto sociale ed umano può essere centro dell’universo: questa verità cusaniana è l’anima della teoria politica di Capitini. Uomini che concepiscono se stessi come centri, criticano e si oppongono alla centralità del potere, alla burocrazia, alle decisioni che scendono dall’alto.I cambiamenti necessari vengono attuati spontaneamente, senza attendere che i politici di professione si muovano. Si pensi all’opera di Danilo Dolci. Inizia la sua opera in Sicilia, in luoghi dimenticati ed abbandonati come Partinico e Trappeto. Parla con la gente, fa acquisire coscienza. Fa di questi luoghi un centro, dove si prendono decisioni. Porta i disoccupati a lavorare nella ricostruzione di una strada di campagna abbandonata, con un clamoroso sciopero alla rovescia. Costruisce scuole. Si documenta sugli intrecci tra mafia e politica. La risposta del potere istituzionale è il carcere, l’accusa di turbare l’ordine pubblico, addirittura la definizione di individuo con «spiccata capacità a delinquere» [6]. Queste iniziative erano finalmente una reazione all’impotenza cui la gente di quei luoghi si sapeva condannata; impotenza che nemmeno il fatto che dei bambini morissero di fame sembrava poter scalfire. Attraverso la prassi nonviolenta, veniva restituito loro qualche potere -ma si trattava di un potere ben diverso da quello delle istituzioni. E’ lo stesso Dolci a chiarire questo punto, con la sua distinzione tra dominio e potere. Potere, spiega, non è una cosa negativa: potere è possibilità, libertà di fare; una cosa senza la quale l’uomo non è completo, non è autentico. Altra cosa è il dominio, che Dolci definisce un virus per gli effetti terribili che provoca. Il dominio è la degenerazione del potere che impedisce ad altri di esercitare la propria libertà, che frena lo sviluppo e la crescita umana [7].
L’ideale nonviolento è quello di una società dove c’è molto potere e poco o nessun dominio. Non si tratta di prendere per sé il potere e di esercitarlo in nome di una moltitudine. Si tratta, invece, di dare senza mediazioni il potere a quelle moltitudini. Per questo la nonviolenza non poteva accettare la dittatura del proletariato, prevedendo che essa avrebbe prodotto un intollerabile totalitarismo. Per questo la nonviolenza ha rifiutato e rifiuta la forma partitica. Il partito è quella struttura politica che tende inevitabilmente a farsi veicolo del virus del dominio. Capitini notava i pericoli della partitocrazia già nel ’45; e proponeva di «Esser pronti a costruire qualche cosa di più che un partito, ma il luogo d’incontro e di superamento dei partiti di sinistra e delle vecchie internazionali in centri instancabili di nuova socialità» [8]. È forse giunto il momento di accogliere questo appello capitiniano, che la sinistra italiana ha ignorato per più di mezzo secolo. Non si combattono le destre, se non lavorando a qualcosa di più importante, più radicale del partito. In un recente studio su Capitini si legge che «in un’epoca che, come poche altre, ha bisogno di eroici slanci costruttivi, il suo messaggio finisce tuttavia per tradursi in un sostanziale rifiuto della competizione, in un rifuggire dalle regole dell’arena» [9]. Questo giudizio impressiona fortemente se si pensa alla attività di Capitini, dagli anni dell’antifascismo al lavoro per l’omnicrazia. Tutto questo lavoro – organizzare incontri, convegni, marce, associazioni e movimenti – non era un rifuggire dalla competizione: era invece la ricerca di una diversa competizione, di una competizione più nobile. È vero, Capitini rifiutava le regole dell’arena, ma insieme a questo rifiuto additava nuove regole, costruiva nuove possibilità di vita politica. Cercava nuove regole perché il gioco, con le regole esistenti, non funzionava. Le regole della competizione politica hanno creato in Italia non pochi guasti, non pochi limiti alla nostra democrazia. Oggi più che mai avvertiamo la necessità di nuove, diverse regole del gioco politico. Ma non si può trattare soltanto di nuove regole elettorali, o di altre riforme dall’alto. Si tratta di cambiare la regola fondamentale che vuole che il fine della politica sia la conquista del potere. Mi pare che la crisi politica attuale imponga alla sinistra il dovere di ridare realmente dignità alla politica. Capitini presentava la sua proposta politica come una libera aggiunta alla opposizione: una aggiunta religiosa, per giunta; un lavoro umile, paziente, silenzioso nell’Italia delle clamorose contrapposizioni ideologiche. Oggi questo aggiunta appare finalmente nella sua essenzialità, perché i partiti mostrano come mai in passato la loro fragilità politica ed il loro essere al servizio del dominio. L’Italia nonviolenta, che Capitini sognava negli anni Cinquanta, l’Italia che doveva raccogliere il meglio dell’antifascismo ed essere da guida all’intera Europa, quell’Italia è ancora possibile; in parte è anche reale, perché tanti sono i movimenti che diffondono ideali legati alla nonviolenza, diverse le associazioni che promuovono una cittadinanza attiva, il controllo dal basso, la critica del dominio e dei suoi abusi.
I COS
Capitini ci ha lasciato non solo una concezione generale – tra le più rigorose – della nonviolenza, ma anche un esperimento, storicamente non molto rilevante ma politicamente assai significativo: l’esperimento dei Centri di Orientamento Sociale. Nati dopo la liberazione, i COS ebbero un buon successo iniziale, soprattutto in Umbria. Erano assemblee assolutamente libere, nelle quali ci si ritrovava periodicamente per discutere problemi molto pratici, oppure per affrontare questioni politiche. Alle riunioni partecipavano politici, autorità e gente comune; il suo motto era «ascoltare e parlare»; e la novità era tutta in quest’ultima possibilità: la possibilità di parlare, di comunicare finalmente con le istituzioni. L’Italia usciva dal fascismo, con i discorsi del Duce alle folle oceaniche. Entrava nell’epoca dei comizi contrapposti, degli slogan, dei manifesti, delle grandi semplificazioni. La Democrazia Cristiana non ebbe, per i COS, che ostilità e derisione. Il Partiti Comunista li appoggiò per qualche tempo, poi li abbandonò a se stessi. Brevemente l’esperienza dei C.O.S. cessò. È importante il commento di Capitini su questo fallimento: «Non lo stato antifascista, ma molto meno quello che seguì al 1948, erano in grado di valersi dei COS ed inserirli nella struttura pubblica italiana, ad integrazione della limitata democrazia rappresentativa del parlamento e dei consigli comunali e provinciali. Né le forze di opposizione di sinistra, tese nella speranza di una presa del potere, si curarono di apprestare uno strumento così elementare per la convocazione della popolazione e dell’opinione pubblica, anche in considerazione della insufficiente diffusione dei giornali. Si aprì invece un periodo in cui le ricche destre avrebbero rovesciato sugli italiani, e specialmente sugli strati meno politicizzati come quello delle donne, tonnellate di periodici illustrati, sostanzialmente di gusto antirivoluzionario ed evasivo» [10]. Mi pare che da questa analisi, storicamente assai precisa, venga una indicazione preziosa per la sinistra italiana. Ecco: quanto più si lascia a se stessa la gente, tanto più essa è facile preda delle destre. Capitini pensava che la gente che discute diventa facilmente di sinistra. Opinione che si può non condividere; è certo, però, che la mancanza di un diffuso, capillare dibattito politico è prezioso per le forze politiche conservatrici. Capitini parlava dei giornali. Oggi ci sono le televisioni, che riescono a raggiungere lo scopo con ben altra efficacia. Ciò che è pubblico giunge ai singoli filtrato, addomesticato, edulcorato, se necessario falsificato dai mass media. Manca il confronto, la verifica. Ricorrendo ad un’altra importante distinzione di Danilo Dolci, si può dire che ci troviamo in una società nella quale il trasmettere ha preso il sopravvento sul comunicare. Il trasmettere è comunicazione inautentica, perché unidirezionale: dall’alto al basso. Il comunicare è un processo circolare, fatto di domanda e risposta, di tesi ed antitesi. L’Italia nonviolenta sognata da Capitini era una Italia delle assemblee. Esse dovevano essere dovunque: nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole. negli anni successivi alla morte di Capitini abbiamo avuto, in effetti, una Italia delle assemblee. Ma si è trattato di una esperienza che non è riuscita a cambiare permanentemente la nostra vita sociale e politica. Oggi c’è molta stanchezza. Chi lavora nella scuola, ad esempio, sa con quanto poco entusiasmo gli studenti approntano le assemblee di classe e di istituto. Invertire questa tendenza dovrebbe essere il primo obiettivo della sinistra. Per questa via, credo, si potrebbe anche soddisfare uno dei bisogni fondamentali del tempo attuale, un bisogno non sufficientemente considerato dal mondo politico: il bisogno di socializzare, di combattere la solitudine, di incontrare gli altri. Nelle società del benessere cresce a dismisura il numero degli esclusi, cresce la solitudine metropolitana, non soltanto negli anziani, nei malati, nei diversi. C’è la nuova solitudine dei giovani, di quei giovani che non entrano nella macchina del divertimento e della distrazione. C’è la solitudine degli extracomunitari, partecipanti alla nostra vita economica, ma poco o nulla coinvolti nella nostra vita sociale e culturale. Se al tempo di Capitini i COS rispondevano al bisogno di diffondere il potere, oggi essi potrebbero costituire una vera e propria terapia per una società dove la comunicazione è bloccata, insufficiente.
Ai socialisti Capitini ricordava che il fine del vero socialismo (quello che lui chiamava socialismo liberato) è per «la persona, il suo sviluppo, la sua creatività, l’amore che culmina nel tu che volgiamo, amando le persone dall’intimo» [11]. Ai liberali, ricordava che le persone non sono atomi contrapposti e chiusi nella sfera dei loro diritti. Totalitarismo ed atomismo sociale erano i due pericoli che la società nonviolenta supera: al totalitarismo risponde con l’esaltazione della libertà e della creatività personale, all’atomismo si oppone ricordando che l’uomo non è interamente tale al di fuori della comunione con gli altri uomini. Entrambi i pericoli sono ancora presenti. Il pericolo di un totalitarismo politico è ormai alle spalle, dopo il crollo dei regimi totalitari dell’Est. Ma esistono forme più subdole, sottili di totalitarismo, modi raffinati di soffocare la creatività, la libertà, la capacità di decidere dei singoli. Ancora più evidente è il pericolo dell’atomismo sociale. La corsa al benessere suscita egoismi, chiusure, settarismi. La propria identità è legata a beni, che bisogna difendere ed accrescere contro gli altri. Occorre una riflessione su ciò che è realmente indispensabile all’uomo. Capitini ritiene che i veri beni umani consistano nei valori. Ma quali valori? Anche nella difesa dei valori da parte dei politici c’è ormai settarismo. Si esaltano i valori della patria, della famiglia, della fede. Ma questi sono valori che distinguono uomini da altri uomini, valori che separano e contrappongono. I veri valori invece si distinguono per Capitini per una caratteristica: uniscono le persone. Il valore è ciò nella cui realizzazione gli uomini si avvertono uniti a tutti gli uomini, agli animali, a coloro che non vivono più. E’ un valore la musica, è un valore il dire tu ad un altro uomo; non è valore l’esaltazione della propria patria, che unisce alcuni uomini per separarli dagli altri. Sarebbe un grave errore, a mio avviso, considerare i COS un esperimento del passato.
Bisogna riprendere quel progetto, in forme magari diverse da quella del passato. Abbiamo bisogno di una fitta rete di centri sociali, diversi da quelli esistenti: centri frequentati da gente di ogni età, fortemente integrati con il territorio, costantemente attenti alla realtà politica locale ma capaci anche di approfondire le problematiche internazionali. E’ importante che questi centri giungano nelle periferie, nei luoghi dove più fortemente risaltano i limiti della nostra democrazia. Esistono paesi nel sud che stanno inesorabilmente morendo, senza che si abbia la forza di invertire la tendenza, arrestare la fuga dei giovani e il degrado complessivo. Esistono interi quartieri, in quasi tutte le città italiane, dove vivono cittadini invisibili, persone che non riescono a far giungere al potere le proprie richieste, il proprio disagio.
Una politica inclusiva
Per Capitini democratizzare il socialismo non era sufficiente. La socialdemocrazia comportava per lui il pericolo di una semplice amministrazione della cosa pubblica, per conquistare il benessere. «La storia – affermava – si muove per cose più grandi. Si tratta di una tensione di apertura a tutti, ad una nuova società, anzi a una nuova realtà, che comprenda veramente tutti, nessuno escluso, e che elevi e trasformi la sostanza di tutti» [12] Nessuno escluso, dice Capitini. Siamo terribilmente lontani da questa idea. Vi sono oggi persone, esseri umani clandestini, quasi fantasmi pericolosi in agguato contro la società civile. Questo è intollerabile. Abbiamo visto sorgere, in tempi recenti, centri di accoglienza temporanea che assomigliano in modo preoccupante a campi di concentramento. Abbiamo assistito ad una campagna di informazione distorta, che ha concentrato sugli extracomunitari paure vecchie e nuove. Abbiamo ascoltato un autorevole rappresentante della Chiesa cattolica chiedere che si impedisse agli immigrati di fede diversa dalla cristiana di venire in Italia, e ciò in difesa della «identità nazionale». Tutto ciò, sotto gli occhi di una sinistra di governo che appare sempre più come una semplice sentinella del benessere. Si consideri, ancora, la questione della sicurezza. Siamo, più o meno, ai tempi di Dolci in Sicilia. C’era delinquenza, e lo stato rispondeva con la repressione. Diverso era il metodo nonviolento: documentare l’estrema povertà., la disoccupazione, i diritti calpestati, e lavorare pazientemente alla radice dei problemi, trasformando dal basso. Chi riesce ancora, oggi, a vedere il delinquente come una vittima? Chi ha ancora voglia di interrogarsi sul rapporto tra delinquenza ed esclusione sociale? Pochi. Si chiede a gran voce sicurezza immediata; e questo la politica – la politica della sinistra di governo – offre. Sicurezza immediata vuol dire repressione, controllo, inasprimento delle pene, esclusione del colpevole dal corpo sociale.
Qui la frattura tra la sinistra – quella che vorrei chiamare sinistra del benessere – e la nonviolenza appare profonda. La nonviolenza combatte ogni forma di chiusura. E’ una questione di punti di vista. La nonviolenza fa proprio il punto di vista dell’escluso, dell’arretrato, del perdente, del clandestino. La sinistra del benessere ha perduto ormai questo punto di vista; ha acquisito molta ragionevolezza, ma ha smarrito ogni carattere rivoluzionario. Oggi più che mai la nonviolenza è scomoda, difficile, provocatoria. Criticare a fondo una società ammalata di chiusure e di benessere, avvicinarsi all’escluso e dargli voce: è il primo dovere di un nonviolento (amico della nonviolenza, direbbe Capitini). Anche la lunga lotta di Capitini alla Chiesa cattolica appartiene alla nonviolenza. Lotta che non era contro le persone, ma contro una istituzione dogmatica, potente, escludente; una lotta che vale a sostenere all’interno della Chiesa stessa le forze migliori emerse durante il Concilio Vaticano II, e protestare contro le tendenza conservatrici che con tanta forza si ripresentano. Nella Chiesa cattolica tanti italiani trovano la propria identità. È proprio questo, per la nonviolenza, un pericolo. Una società inclusiva chiede una identità aperta, dialogante. Si pensi al grande lavoro di Capitini per il dialogo tra Oriente ed Occidente. La sua stessa filosofia è un affascinante incontro della cultura filosofica occidentale con il messaggio gandhiano. Oggi è urgente in Italia un incontro con le culture mediterranee, soprattutto con l’Islam. Ma è un dialogo ancora lontano. Nel migliore dei casi si accorda ai musulmani il diritto di costruire una moschea; nel peggiore dei casi si deplora l’identità ferita, o minacciata. Dove c’è una chiusura, c’è una violenza ideologica che prima o poi diventa violenza fisica, tangibile. E’ capace la sinistra del benessere di una tale politica inclusiva? No. Un presidente del consiglio di sinistra, posto di fronte alla richiesta degli omosessuali di manifestare, afferma che «purtroppo» ne hanno il diritto; e la manifestazione era a Roma, in quella stessa Roma che il giubileo dei cattolici ha trasformato per un anno in un rumoroso, affollato, scomodo santuario. È comprensibile questo atteggiamento. Combattere le chiusure è cosa che crea resistenze, impopolarità, attira su di sé condanne ed anatemi. Naturalmente un politico preoccupato del successo elettorale deve tener conto dei recinti esistenti nella società, individuare quello più ampio e sostenerlo affinché lo sostenga. Per questo occorre quel qualcosa di più della politica che è la nonviolenza.
Universalismo concreto
La nonviolenza ha, come s’è detto, una predilezione per le periferie, i paesini, le borgate. Questi non sono che punti di vista decentrati, dai quali è possibile ottenere una visione critica del centro. L’orizzonte di questa visione non è limitato alla realtà locale, né a quella del proprio paese. Al COS si discutevano i problemi concretissimi del luogo, ma si affrontavano anche le grandi questioni internazionali, e le due cose non erano prive di collegamento, perché affrontare nonviolentemente i piccolissimi problemi della vita quotidiana significa già fare un passo per una civiltà nonviolenta. Considerare localmente questioni globali è importantissimo in tempi di globalizzazione. Tra gli aspetti più preoccupanti della globalizzazione c’è il passaggio di poteri importanti dai governi nazionali a realtà sovranazionali, sottratte al controllo dei popoli. Questa realtà, che porta decisioni fondamentali per la vita di tutti ad un livello incontrollabile, ha trovato nella società civile internazionale una opposizione assolutamente spontanea, diffusa, determinata: l’opposizione del cosiddetto popolo di Seattle. Un movimento che ha una identità complessa, comprendendo anarchici dei centri sociali, nonviolenti, volontari di organizzazioni non governative, ecologisti. Dove possa giungere questo movimento, non è facile dire. Ma non è difficile prevedere che il successo o l’insuccesso del movimento anti-globalizzazione sarà legato all’uso o meno della violenza. Solo una applicazione piena delle tecniche di opposizione nonviolenta potrà permettere al movimento di legittimarsi. In caso contrario, la violenza dei manifestanti sarà l’alibi per la violenza repressiva; ogni piccolo atto di violenza sarà enfatizzato dagli organismi d’informazione, per criminalizzare tutto il movimento, e far passare in secondo piano le sue ragioni. C’è un articolo di Capitini, apparso nel 1948, che a mio avviso è di una attualità straordinaria. Capitini parlava dell’universalismo: la globalizzazione, con i termini dell’epoca. Distingue due tipi di universalismo. Il primo consiste nel considerare l’universalismo «su un piano amministrativo, di assicurazione del benessere quotidiano; e allora prevarrà la potenza che potrà meglio subito assicurarlo» [13] È esattamente quello che accede oggi. La globalizzazione, concepita come fatto economico, porta al prevalere delle potenze industrializzate, che si spartiscono mercati e materie prime, e dettano le regole del gioco. Il secondo universalismo è fondato su qualcosa di più profondo. «Credere che gli uomini possano accontentarsi di un’amministrazione del mondo – scriveva – è pensarne troppo male» [14] Il benessere non può appagare le esigenze più profonde dell’uomo: resta alla superficie. Al fondo, c’è altro: c’è il bisogno di libertà, il bisogno di socialità, il bisogno di religiosità, da Capitini intesa in modo non istituzionale, come approssimazione al problema del senso della vita. Il vero universalismo è quello che soddisfa queste esigenze più profonde dell’uomo. Capitini lo chiama universalismo concreto, e sostiene che verso di esso procede il mondo attuale, «moderno e postmoderno, postliberale e postcomunistico» [15].
Capitini scrive nel 1948, eppure questi termini si adattano perfettamente al mondo attuale. Il termine postmoderno è entrato nel linguaggio filosofico soltanto da qualche decennio, ed è ora quasi un luogo comune, Il termine postcomunismo è entrato prepotentemente nel linguaggio politico dopo l’89, dopo il crollo dei regimi comunisti. Come mai Capitini può usare, nel 1948, questi aggettivi? Perché avvertiva fin da allora che le grandi impostazioni politiche, ideologiche, economiche del Novecento erano destinate a far posto a qualcosa d’altro. Il suo ragionamento doveva essere, più o meno, il seguente: può durare solo ciò che soddisfa e favorisce pienamente la realizzazione dell’uomo; il liberismo ed il comunismo, per ragioni diverse, impediscono questa realizzazione (il primo soffocando il bisogno di socialità, il secondo soffocando il bisogno di libertà); liberismo e comunismo sono perciò destinati al superamento, sono forze che potranno ancora agire storicamente, ma sono già state condannate sul piano dei valori. L’universalismo concreto della civiltà nonviolenza segue quindi la dissoluzione delle grandi ideologie contemporanee. Potremmo dire che la nonviolenza è la vera idea politica dell’età postmoderna. Interessante anche l’aggettivo usato da Capitini per connotare il nuovo universalismo: concreto. Intendeva dire che questo universalismo considera l’uomo nella sua interezza, nei suoi bisogni più profondi, e non soltanto alla superficie, come se tutto ciò che conta fosse il benessere, il soddisfacimento economico. Ma concreto deriva anche, come si sa, da cum-crescere, crescere insieme. L’universalismo nonviolento non comporta la crescita di alcuni a spese di altri. La realtà che la nonviolenza cerca dev’essere, per Capitini, realtà di tutti; non si può dimenticare o lasciare indietro nessuno. Occorre, sosteneva Capitini più di cinquant’anni fa, un punto di vista nuovo, una nuova sintesi. Si tratta di un cambiamento radicale, qualcosa di ben più profondo e duraturo dell’avvicendamento di una classe politica. Capitini parlava di una semplificazione della propria vita, [16] per concentrarsi meno su oggetti, e più su valori. Oggi sappiamo che i nostri oggetti, il nostro sviluppo, il nostro tenore di vita costano altrove ingiustizia, miseria, violenza. La globalizzazione, come universalismo errato, è il risultato di una concezione limitata della politica: la politica come amministrazione, assicurazione del benessere, nei termini di Capitini. Una concezione della politica che è penetrata nella sinistra, in quella che ho chiamato sinistra del benessere: quella sinistra che porta l’Italia a partecipare alla guerra in Kossovo e sostiene il Nuovo Modello di Difesa, che prevede la difesa degli interessi vitali della Nazione, vale a dire mercati e materie prime. La nonviolenza è post-comunistica: ma questo post non va inteso come un rifiuto dell’anticapitalismo comunistico. Sulla critica della proprietà privata Capitini non ha mai cambiato idea. Del comunismo la nonviolenza rifiuta l’autoritarismo, la burocrazia, la dittatura, il metodo rivoluzionario violento; accoglie invece la socialità, la crescita comune, l’anticapitalismo.
Queste le forze oggi in campo. Da una parte una realtà monolitica, compatta, potente; oligarchie che appaiono impenetrabili, inattaccabili. Dall’altra, la resistenza di piccoli gruppi, soprattutto di giovani, di provenienza diversa. In mezzo c’è una moltitudine di persone che non comprendono bene quello che succede, si lasciano informare e formare dai mass media, e quando provano a guardare un po’ più lontano hanno l’impressione di trovarsi di fronte a processi troppo grandi, difficili da comprendere ed ancora più difficili da modificare. da questa moltitudine dipende il nostro futuro. Se esse prenderanno coscienza della enorme perdita di potere – vale a dire di libertà – che il processo comporta, se si accorgeranno che rinunciare a dimensioni profonde dell’esistenza per ottenere benessere non è un buon affare, le cose cambieranno. Se i lavoratori affiancheranno i giovani dei centri sociali, se le famiglie riconsidereranno il loro stile di vita ed i loro consumi, se le associazioni lavoreranno in rete per costruire una economia alternativa, le cose cambieranno. Questo, direbbe Capitini, è il varco attuale della storia.
Nonviolenza scomoda
Vorrei concludere ricordando il carattere drammatico, difficile, duro della nonviolenza. Capitini ricordava che la nonviolenza è «una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subconscio, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata» [17]. Questa è la rivoluzione nonviolenta. Delle altre rivoluzioni rifiuta il metodo violento, per quell’affetto che la nonviolenza ha per i singoli, ma anche perché considera che ogni rivoluzione violenta produce poi gerarchie, burocrazie, dittature. Ma per il resto, la nonviolenza non è meno radicale delle altre concezioni rivoluzionarie. Capitini considerava questa concezione radicale della nonviolenza come un grande passo oltre il superficiale pacifismo borghese, che combatte la guerra in nome del benessere. Un pacifismo che risorge in modo insidioso: ed è inevitabile, visto che siamo nella società del benessere. Contro questo pacifismo brando, acritico, conciliante bisogna rafforzare e recuperare il carattere scomodo della nonviolenza. Pochi intellettuali e personalità italiane del Novecento sono state scomode quanto Aldo Capitini e Danilo Dolci. Dei diversi aspetti della personalità nonviolenta, recentemente studiati da Pontara, bisognerebbe valorizzare soprattutto lo spirito critico, ed anche un certo anticonformismo. Nonviolenza è guardare oltre il punto di vista borghese: guardare dal punto di vista dell’escluso, del povero, del malato, dello sfruttato. Da questo sguardo periferico non può venire che una condanna molto dura del centro, della istituzione, della sfera del dominio. Naturalmente uno dei principi della nonviolenza è quello del dialogo; e gli amici della nonviolenza cercheranno anche il dialogo con le istituzioni. Ma altra cosa è smarrire il potenziale critico. Alla nonviolenza appartiene il principio del dialogo, ma anche quello della noncollaborazione. Non si fa la rivoluzione senza creare fratture profonde, senza assumere posizioni scomode, anche impopolari; senza rischiare ogni attimo la sconfitta, il suicidio politico. Questa nonviolenza scomoda non dà vita a Marce della pace alle quali possa partecipare, per rifarsi l’immagine, un capo di governo di sinistra responsabile di aver portato il proprio Paese in una guerra anticostituzionale. Questa nonviolenza radicale approfondisce soprattutto il dialogo con quelle forze politico-ideologiche – anarchici, comunisti, ecologisti – che condividono la critica della civiltà del benessere (quella che Capitini chiamava americano-pompeiana) e cercano di far proprio il punto di vista dell’escluso, per farne la leva del cambiamento.
Note
* Appunti per un incontro su «Sinistra e Nonviolenza» (Roma, Campidoglio, 14 febbraio 2001) tra chi scrive, Lanfranco Mencaroni, Rocco Pompeo, Rocco Altieri, Tom Benetollo e Pietro Ingrao.
1 G. Bosetti, I nuovi vizi della sinistra italiana, in Mondoperaio, n.1, gennaio-febbraio 2001, p. 84.
2 Ibidem.
3 Ibidem.
4 A. Capitini, Rileggendo il profeta Isaia,in Nuovo Corriere, 4 aprile 1949; poi in Italia Nonviolenta, Bologna 1949; ora in Scritti sulla nonviolenza, Perugia 1992, p. 66.
5 A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa, Torino 1950, p. 99.
6 Cfr. A. Capitini, Danilo Dolci, Manduria 1958, p. 24.
7 Cfr. in particolare D. Dolci, La creatura e il virus del dominio, Latina 1987.
8 A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa, cit, p. 23.
9 G. Lami, Il progetto non violento di Aldo Capitini, in Prospettiva Persona, a. VII. n. 24, giugno 1998, p. 28.
10 A. Capitini, Attraverso due terzi di secolo,in Scritti sulla nonviolenza, cit., p. 28.
11 A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa,cit., p. 93.
12 A. Capitini, Il socialismo liberato, in Il Ponte, n. 11, 1956, p. 1890.
13 A. Capitini, Orizzonte mondiale, in Il Mattino del Popolo, 30 maggio 1948; poi in Italia nonviolenta, in Scritti sulla nonviolenza, cit., p. 43.
14 Ibidem.
15 Ibidem.
16 A. Capitini, Il potere di tutti, Firenze 1969, p. 93.
17 A. Capitini, Scritti sulla nonviolenza, cit., p. 21.