Molti anni fa frequentavo un filosofo e scrittore la cui cultura era considerata quasi leggendaria. Ed era vasta, in effetti, ma con dei limiti ben precisi: le sue conoscenze riguardavano il campo storico, filosofico e letterario nell’area italiana e francese (non conosceva l’inglese), ma senza un reale aggiornamento sugli sviluppi più recenti; profonde erano invece le lacune nel campo scientifico. Come poteva apparire straordinariamente colta una persona con simili limiti? In primo luogo, essendo una persona di potere aveva la possibilità di stabilire, per così dire, l’agenda della discussione, facendo in modo che si muovesse sempre nel suo campo. Quando qualcuno portava la discussione in un campo per lui insicuro, interveniva con decisione, quando non con fastidio. La seconda ragione è che ha avuto la fortuna di vivere in un Paese in cui alcune cose, come la filosofia o la letteratura o il latino, sono unanimemente considerate cultura, mentre ci si può quasi vantare della propria ignoranza nel campo matematico o scientifico.
Sull’ignoranza (e sull’errore) Gianrico Carofiglio ha pubblicato un libretto – Elogio dell’ignoranza e dell’errore, Einaudi, 2024 – che dice un po’ di cose sensate, e le dice con quella chiarezza che spesso manca agli accademici. Le dice anche però, e purtroppo, senza quella precisione che è doverosa in campo accademico – un campo di cui prenderò, una volta tanto, le parti. E non sono sicuro di riuscire ad aggiungere all’elogio dell’ignoranza e dell’errore anche quello dell’imprecisione.
Dice Carofiglio che l’ignoranza ha a torto una pessima reputazione. Dovremmo capire che qualsiasi sapere è circoscritto, che nessuno ha competenze in ogni campo e che per quanto colti prima o poi ci imbattiamo nei confini del nostro sapere. E questi confini, oltre i quali c’è l’ignoranza, bisogna riconoscerli. Verissimo. A Carofiglio piace dirlo anche con le parole di Confucio. E scrive:
Confucio pare abbia enunciato lo stesso concetto in un modo solo poco diverso: “La vera conoscenza sta nel conoscere l’estensione della propria ignoranza”.
Pare che Confucio. Ora, dei Dialoghi di Confucio esistono ormai anche in Italia diverse edizioni. La più nota è quella della Einaudi, la stessa casa editrice del libro di Carofiglio. Sarebbe bastato poco per controllare la citazione. Il passo esatto dice:
Il Maestro disse: “You, vuoi che ti spieghi che cos’è la sapienza? Essere consapevole di quel che si sa e riconoscere le proprie mancanze: questa è la sapienza” (Confucio, Dialoghi, a cura di Tiziana Lippiello, Einaudi, Torino 2006, 2.17, p.15)
Ora, perché Carofiglio ha citato Confucio in questo modo così approssimativo? Perché scrivendo in libro per Einaudi, la più importante casa editrice italiaana, non si è preso il tempo di controllare la fonte? Perché non ha fatto quello che si chiede di fare a qualunque studente alle prese con la tesi di laurea? E perché all’Einaudi nessuno gliel’ha chiesto?
Poco più oltre scrive:
C’è una frase – attribuita di volta in volta a Plutarco, a Montaigne, a Yeats – che fotografa molto bene l’attitudine di cui abbiamo parlato fin qui: “L’istruzione non significa riempire i secchi, è accendere i fuochi”.
Attribuita di volta in volta a. Qualche giorno fa ho chiesto a una mia corsista – mi occupo dell’abilitazione dei docenti di filosofia e scienze umane – di controllare la fonte proprio di quella affermazione, che aveva inserito in un documento accademico. Le attribuzioni libere le lasciamo ai social network: l’università e la scuola chiedono rigore. Si tratta di una parafrasi di questo passo de L’arte di ascoltare di Plutarco (Moralia, 3.18)
La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma piuttosto, come legna, necessita di una scintilla che l’accenda e vi infonda l’impulso della ricerca e un amore ardente per la verità (traduzione di Giuliano Pisani in Plutarco, Tutti i Moralia, Bompiani, Milano 2017, p. 87).
Chiudendo il suo libro Carofiglio racconta le circostanze particolari che lo hanno portato a intraprendere la carriera dello scrittore. E ricorda che in epigrafe al suo primo romanzo, Testimone inconsapevole, mise
una frase tratta dal Tao Te Ching, il Libro della Via e della Virtù di Lao Tzu: “Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”.
Quel romanzo uscì da Sellerio. Nessuno, alla Sellerio, fece notare a Carofiglio che nel Tao Te Ching non c’è scritto nulla del genere. E naturalmente nessuno glielo ha fatto notare adesso all’Einaudi. Eppure anche del Tao te Ching esistono molte edizioni italiane, anche economiche. Quella curata da Augusto Shantena Sabbadini per Feltrinelli ha il testo cinese con la tradizione ideogramma per ideogramma, con indicazione anche delle variabili possibili. Costa meno di quindici euro e consente di entrare nella straordinaria complessità e ricchezza di uno dei capolavori dell’umanità.
Traggo qualche conclusione. La prima è che la verità non gode più, e con qualche ragione, di una grande reputazione, ma sarebbe bello se l’esattezza, la sua parente povera, per così dire, fosse un valore condiviso. Ogni volta che controlliamo una fonte, correggiamo una citazione, precisiamo una data o un dato, stiamo dando un piccolo contributo a un mondo migliore. L’opposto della verità – l’errore – può avere una sua grandezza, anche perché nella storia tante verità sono state condannate come errori; ma l’opposto dell’esattezza è la superficialità, e la superficialità non è mai un valore.
La seconda conclusione è che se Carofiglio può permettersi di citare con tanta ostentata sciatteria un autore come Confucio e un’opera come il Tao Te Ching (o, meglio, Daodejing) è perché è convinzione diffusa che la cultura cinese non meriti una vera attenzione, non faccia parte del bagaglio di una persona colta; si può citare qualcosa, certo, per dare un tocco di esotismo al nostro discorso, ma senza perderci troppo tempo. Si nega, in sostanza, che esista una cultura mondiale, che merita la stessa attenzione e lo stesso rispetto che noi chiediamo, per dire, per la nostra Divina Commedia. Si tratta di un male che ha un nome preciso: provincialismo. Ed è una cosa che non si allontana troppo da quel triste, miserabile, deprimente, squallido, asfissiante, stupido sciovinismo che caratterizza la politica “culturale” e scolastica della destra al potere in questo Paese.
Gli Stati Generali, 25 giugno 2025
Ciao Antonio,
il saggio di Carofiglio a cui ti stai riferendo è stato pubblicato nella collana Stile Libero Extra di Einaudi. Non si rivolge ad un pubblico accademico. Non è una tesi di laurea o un paper sottoposto a peer-review. Pertanto non c’è un vero e proprio motivo per essere rigorosi nelle citazioni. Che senso ha quindi stare a fargli la punta al cazzo?
Quindi nei libri Einaudi che non sono rivolti a un pubblico accademico è possibile inventarsi le citazioni. E farlo notare vuol dire “fare la punta al cazzo”.
Se fossi davvero convinto/a di quello che sostieni, non resteresti anonimo/a.
La prima parte della risposta è uno straw-man argument. Tra citare in modo approssimativo e inventare le citazioni c’è un bello scarto.
La seconda parte della risposta è una critica ad hominem. Attacchi me come persona dandomi dell’insicuro/a e non i miei argomenti. No aspetta, forse è un non-sequitur. Se io mettessi il mio nome vero, allora sarei automaticamente davvero convinto/a di quello che sostengo?
A parte che io mi chiamo veramente BugniBugni. Sono un personaggio di fantasia. Il mio nome è citato in diversi paper che mi sto inventando in questo momento, sottoposti a peer-review da me stesso. Mi ritengo un mio pari.
La frase “Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla” attribuita al Tao Te Ching non è una citazione approssimativa, ma una citazione inventata. Sono sicuro che nel tuo mondo di personaggi di fantasia che sottopongono a peer-review loro stessi un libro Einaudi con citazioni inventate va benissimo. Nel mio mondo no.
Ok, ma in che modo quella citazione inventata rende inconsistente l’argomentazione del libro?
Non mi occupo, nel post, del valore dell’argometazione di Carofiglio. Il tema è il valore dell’esattezza. E il post riguarda più Einaudi e Sellerio che Carofiglio.
Ok, ma il valore dell’esattezza è un valore assoluto?
Einaudi e Sellerio sono attività commerciali. Non devono rispondere ad una commissione in merito alla qualità delle citazioni. Anche un paper o una tesi di laurea possono contenere citazioni errate o approssimative, magari perché il relatore ha fatto solo finta di leggerla, contando sul fatto che nessuno se ne sarebbe accorto.
I libri o i paper oggi non sono scritti e pubblicati per dare un piccolo contributo a rendere il mondo un posto migliore, ma prevalentemente per essere venduti, per guadagnare prestigio, per fare curriculum…
Insomma: siamo sicuri che sia io a vivere in un mondo di fantasia?
Non esistono valori assoluti. La società è fatta di campi, per dirla con Bourdieu, o di mondi, per dirla con Boltanski e Thévenot. Nel campo/mondo intellettuale e culturale l’esattezza è sempre stato un valore fondamentale. In altri campi non lo è. Nel campo emergente dei social network, che è parte importante di quello che Boltanski e Thévenot chiamano “mondo dell’opinione”, l’esattezza non è un valore: è normale che si attribuisca qualsiasi affermazione a chiunque, con la massima disinvoltura. Quello che sta accadendo, e libri come quello di Carofiglio lo dimostrano, è che il campo dell’opinione sta invadendo anche quello culturale: anche l’editor della più importante casa editrice italiana crede che la faccenda del bruco e della farfalla sia nel “Tao Te Ching”. E in fondo va bene così, se il libro vende.
A te sta bene così, dal momento che anche una tesi di laurea può contenere qualche errore. Ne prendo atto. Io credo che si debba lavorare per educare gli studenti universitari al rigore della ricerca e al rispetto dell’esattezza.
No, l’esattezza ha un peso e un valore diverso a seconda del contesto, anche all’interno del mondo culturale.
Se la mia argomentazione è fondata sulla citazione di uno studio o di un saggio, allora devo essere rigoroso e la mia precisione deve essere massima, perchè se la citazione è errata o fuorviante, allora la mia argomentazione sarà inconsistente.
Se invece la citazione è a scopo stilistico o aneddotico, allora il peso epistemico dell’errore diventa trascurabile, perché la mia argomentazione rimane solida. Certo, meglio comunque fare attenzione.
Nella postfazione del libro, l’autore parte da un episodio autobiografico in cui gli è stato negato un incarico, per parlare del valore dell’errore nella stesura di un racconto. La prima stesura è sempre debole. Il processo di riscrittura la rafforza, fino ad arrivare ad un risultato accettabile. La citazione di Lao Tzu in chiusura è errata, ma in che modo questo indebolisce l’argomentazione o la rende inconsistente? Risposta: nessuno.
Io credo che agli studenti, oltre al rispetto dell’esattezza, vada spiegato che oggi il successo in ambito accademico e culturale dipende molto di più dal capitale relazionale che dal rigore metodologico. Quindi è importante coltivare la propria rete di rapporti, frequentare gli ambienti giusti, lavorare sulla presenza social, sulla propria immagine pubblica. Altrimenti succede che Einaudi, Rizzoli, Mondadori, ecc… non vedono un potenziale commerciale nel nostro saggio e non ce lo pubblicano. E allora ci tocca ripiegare su piccoli editori o ricorrere al self-publishing, e va a finire che il nostro saggio non se lo incula nessuno. Poi l’invidia e la frustrazione ci portano a scrivere post sprezzanti dove ci attacchiamo a questioni di lana caprina per sminuire il lavoro degli altri… Oooooops!
L’invidia e la frustrazione in effetti possono spingere ad atteggiamenti antipatici. Immagino che tu ne sappia qualcosa. Conoscendoti, so che per te è importante avere l’ultima parola. Replica pure a questo commento nel modo livoroso che preferisci. Non replicherò ulteriormente. Chiunque legga può farsi un’idea del livello delle tue argomentazioni.