Sub specie absurditatis

Siamo stati domenica con Ermes all’acquario di Livorno. Non ero mai stato in un acquario: mi ha sempre trattenuto il disgusto per quella vita così contenuta, così al servizio del nostro sguardo. Ma è prevalsa la tentazione di mostrare a nostro figlio forme di vita che ha incontrato solo nei libri cartonati per la prima infanzia.

L’attrazione principale dell’acquario è una grande vasca con squali e tartarughe giganti, ma Ermes è stato attratto, più di ogni altra cosa, da una piccola vasca che conteneva, chissà perché, alcuni guanti bianchi gonfiati e sospesi nell’azzurro dell’acqua. Io invece ho osservato a lungo la piccola vasca accanto: quella delle meduse.

Mi sono sembrate, le meduse, semplicemente perfette. E belle. Di una bellezza molto contemporanea, d’avanguardia perfino. Mi chiedo, da domenica, cos’è l’essere di una medusa. Com’è essere una medusa. Nessuno può saperlo, ma se volessimo avanzare un’analisi à la von Uexküll, potremmo dire che una medusa semplicemente è. Aderisce, per così dire, all’essere. Fa tutto ciò che occorre per mantenersi viva, e lo fa con grande efficacia – riuscendo perfino, nel caso della Turritopsis nutricula, a toccare l’immortalità.

A noi manca questa adesione piena. Se la medusa è, l’essere umano _ è. C’è un distacco dall’essere dovuto alla presenza dell’io. Con una formula, potremmo dire che la nostra esperienza è essere(io)[?essere], dove per essere si intende l’essere puro, quale si manifesta alla medusa, mentre [?essere] è l’essere quale appare a un io: ossia l’essere problematico, l’essere di cui occorre trovare la ragione.

Detto altrimenti: l’uomo è l’ente cui l’essere, a causa dell’io, si manifesta sotto forma di assurdo.

(La foto è mia.)

250325

Passeggiando con Mirò nei campi qui intorno, fischiettavo chissà perché Todo cambia di Mercedes Sosa. E per associazione di idee m’è capitato di pensare a Vittorio Sgarbi e alla sua depressione. E all’ultimo libro delle Metamorfosi di Ovidio: Omnia mutantur, nihil interit: eccetera.

Veniamo a un recinto di là dal quale s’avvicina un cagnino. È un antico nemico di Mirò, agguerritissimo: e però più piccolo, perfino, e dunque tenero. Ma ora sembra aver deposto le armi. Si avvicina curioso, annusa innocuo. Mirò sembra confuso, accenna un ringhio, ma desiste presto. L’occhio del cagnino ha qualcosa che non va. Guardo meglio. Sono entrambi gli occhi ad avere qualcosa che non va. Sono vuoti. Il cane è cieco. E la cecità l’ha, sembra, pacificato.

 

030325

Si sveglia. Piange. Come sempre: l’assenza della mamma, la fatica di riacquistare l’io. Ma si quieta in un attimo. Lo vedo strisciare nel mio studio. “Sono un serpente!”, annuncia. Prendo un cucchiaio di plastica che ha lasciato ieri sulla mia scrivania e decido di usarlo come bacchetta magica. “Ora sei un cane!” Non funziona: resta serpente. E striscia verso la sala. Si mette a giocare con la pista del trenino, mentre gli passo un biscotto – tra qualche minuto andrà alla scuola dell’infanzia e bisogna che mangi qualcosa. A un certo punto il treno esce dai binari. “Deragliato!”, dice. La parola mi sorprende. Non gliel’avevo mai sentita dire. Leggi tutto “030325”