Il 12 luglio del 1615 a Roma, nella chiesa della Minerva, una terziaria francescana di quarant’anni confessa davanti agli inquisitori “di aver fatto ridotto di molte persone dell’uno, e l’altro sesso miei devoti, e figli spirituali, quali per non degenerare confusione li facevo dividere in più Congregazioni in alcune stanze secrete della mia casa in un’ora a ciò destinata, dopo una breve orazione che facevo loro in lode della carità carnale, spenti i lumi li facevo congiungere insieme, e ciò senza scrupolo d’incorrere in peccato, anzi fare atto meritorio ogni volta che si reiterava la copola, stante loro la partecipazione del dono di castità comunicatomi da Dio…” [1].
La suora si chiama Giulia di Marco, ed il suo è il più grande scandalo della Napoli di inizio Seicento. Di umilissime origini molisane, dopo le molte sofferenze che il suo secolo, non diversamente dai precedenti e dai successivi, riservava ai poveri, compreso il mettere al mondo un bambino che sarà costretta ad abbandonare, prende l’abito francescano e raggiunge Napoli, dove si dedica a pratiche di carità. E lo fa con tanto zelo, da acquistare presto una grande fama di santità ed una notevole popolarità in una città che da sempre ha bisogno di idoli. Sebastiano Vassalli, che le dedica il suo ultimo libro, postumo (Io, Partenope, Rizzoli), la chiama senz’altro “Suor Partenope”, ad indicare il legame speciale con la città. Su quel che è accaduto poi, esistono due versioni. La prima è quella dell’Inquisizione. Acquisita fama si santità, suor Giulia ha cominciato con il suo confessore, padre Aniello Arciero, anch’egli di umili origini, una pratica singolare. Un giorno padre Aniello le chiede di mostargli le sue nudità, per mettere alla prova la sua castità. All’inizio gli sembra di farcela, ma presto cede. Tocca quel corpo, poi va oltre. E fa una scoperta: non avverte in ciò nessun peccato; anzi, al momento culminante del rapporto, esclama “Gesù mio, Gesù mio” [2]. Si convince, cioè, che l’unione sessuale è un atto religioso, sacro. E di ciò convince anche Suor Giulia. E insieme convincono un bel po’ di gente, compresi molte persone di altissimo rango. Fino a quando la cosa giunge alle orecchie degli inquisitori.
La seconda versione dice che la fama di santità di Suor Giulia spaventò qualcuno, e la pesante calunnia nei suoi confronti nacque dallo scontro tra poteri interni alla Chiesa, con i Teatini preoccupati che la figura di Giulia potesse mettere in ombra la santità di suor Orsola Benincasa. Sebastiano Vassalli – che, sia detto di sfuggita, riesce a fare di suor Giulia un personaggio piatto – segue la seconda versione. Non negando, però, l’originalità della sua esperienza religiosa. Suor Giulia era casta, ma era anche una donna che sperimentava l’estasi, e l’estasi – come insegna il caso di Teresa d’Avila – coinvolge anche il corpo, pur restando una esperienza puramente spirituale. L’accusa nei confronti di suor Giulia sarebbe nata da questo equivoco, da cui deriverebbe anche lo scandalo per la scultura di Teresa d’Avila nella chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma [nell’immagine], per la quale Gian Lorenzo Bernini, secondo l’invenzione narrativa di Vassalli, si sarebbe ispirato appunto a suor Giulia. La suora, in sostanza, avrebbe tentato una via femminile al sacro in una Chiesa tutta maschile: e questo non le sarebbe stato perdonato. Ciò che bisognava impedire, condannando suor Giulia, era “la religione di Eva”. C’è un dato che Vassalli non tiene in considerazione. Nella sua abiura, padre Aniello Arciero confessa di essere stato l’iniziatore della pratica della carità carnale, e la stessa suor Giulia confessa di essere stata convinta dal suo confessore del suo particolare dono di castità, che le avrebbe permesso di offrirgli senza peccato il suo corpo. Si tratta, naturalmente, di confessioni estorte con la tortura: ma se le cose fossero andate come ipotizza Vassalli, sarebbe stato interesse degli inquisitosi evidenziare le responsabilità di suor Giulia per meglio segnarne la diabolicità, invece di considerarla in sostanza una vittima del raggiro di un uomo, padre Aniello.
Difficile dire quale delle due versioni sia vera. Se fosse vera la prima versione, quella dell’Inquisizione, il caso di suor Giulia sarebbe uno dei più interessanti della storia della cristianità. Perché effettivamente suor Giulia, insieme a padre Aniello, avrebbe tentato di aprire una nuova via al sacro. Una via che in ambito cristiano è da sempre chiusa. Il rigido dualismo cristiano assegna gli impulsi sessuali al regno del male, che è rigorosamente diviso a quello del bene e ad esso opposto. Il santo è colui che domina e rigetta la sua sessualità. All’uomo e alla donna comuni il sesso è concesso, ma solo a fini procreativi: e sempre guardato con sospetto. Nulla di più scandaloso e inaccettabile che considerare il sesso una pratica religiosa. Altrove non è così. L’India ha una tradizione di rigetto della sessualità non meno rigorosa di quella cristiana. Chi si dedica allo yoga, l’insieme delle pratiche che conducono all’unione con il Divino, deve praticare tra le altre cose il brahmacarya, la castità. Ma in India è nata anche la convinzione che le energie della natura materiale, tra cui quelle sessuali, possono essere considerate non in contrapposizione con il Divino, ma quale via per giungere ad esso. E’ la via del tantrismo, che l’Occidente cristiano, anzi post-cristiano comprende anche meno dello yoga, ridotto a ginnastica e fitness. E non lo comprende perché, a causa di due millenni di cristianesimo, e nonostante sparute esperienze ben presto messe a tacere, non ha l’esperienza della sacralità del sesso. Di fronte ad esso non restano che due vie: la repressione (o la pratica accompagnata dal senso di colpa: i peccati sessuali sono quelli che il buon cattolico confessa maggiormente, salvo poi ricascarci il giorno dopo) e, per reazione, una liberazione che si accorda pienamente con la logica dominante nella società dei consumi: il sesso come acquisto e vendita di corpi.
Note
1. La carità carnale. Istoria di Suor Giulia di Marco, a cura di A. Vigilante, Rainone Editore, Bergamo 2006, p. 81.
2. Così nella sua abiura: ivi, p. 78.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali