L’ENI, l’Africa e noi

African Metropolis è la grande mostra che il MAXXI  di Roma dedica alla nuova arte africana. Un evento in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e con la partnership dell’Eni, che all’interno della mostra ha creato un suo spazio espositivo, DATAFRICA, con installazioni che presentano semplici dati sul continente, senza alcuna immagine. Un percorso interattivo tra cifre, mappe, diagrammi, che è accompagnato da una narrazione tranquillizzante. Nella pagina del sito dell’Eni dedicata all’evento è messa in bella mostra una citazione tratta dal Corriere della Sera: “Da parecchi anni noi investiamo in 14 Paesi africani, dall’Angola alla Nigeria passando per Congo e Mozambico, con l’obiettivo di affiancare all’attività estrattiva programmi di sostegno delle economie e delle comunità locali: centrali elettriche, impianti eolici, solare fotovoltaico per dare energia alle famiglie e alle imprese di vari Paesi. Ma anche investimenti in agricoltura e in riforestazione.”  A parlare è l’amministratore delegato Claudio Descalzi. Una narrazione che l’ENI ha, naturalmente, i mezzi economici per diffondere sulla stampa, compreso l’acquisto di un vistoso spazio pubblicitario sulla presente testata. Ma è una narrazione vera?

Consideriamo alcuni dati che con ogni probabilità mancano nel percorso del MAXXI.

161 su 180. E’ il posto che, secondo Trasparency International, il Congo francese occupa a livello mondiale nella classifica dei paesi con maggiore corruzione percepita.

15 milioni di euro. E’ la cifra irrisoria che, secondo un’inchiesta dell’Espresso, l’Eni avrebbe speso per acquistare, nel corrottissimo Congo francese, il Marine XI, un enorme giacimento petrolifero sottomarino. L’operazione sarebbe avvenuta attraverso un complesso sistema di società offshore.

1,3 miliardi di dollari. A tanto ammonterebbe, secondo la procura di Milano, la tangente pagata da Claudio Descalzi per l’acquisizione di una concessione petrolifera in Nigeria.

40 anni. E’ l’aspettativa di vita del Delta del Niger, dove si trovano la maggior parte dei pozzi petroliferi dell’Eni, mentre nel resto della Nigeria è di 53-55 anni.

2 milioni di euro. E’ il risarcimento che cinquemila abitanti di una tribù del Delta del Niger chiedono come risarcimento per un disastro ambientale avvenuto nel 2010.

11.000. E’ il numero di bambini che secondo uno studio dell’Università di St. Gallen, in Svizzera, sono morti entro il primo anno di età a causa delle perdite di petrolio nel Delta del Niger.  Secondo l’Eni e le altre compagnie petrolifere, lo sversamento di petrolio è dovuto alle azioni di vandalismo delle popolazioni, che cercano di spillare il petrolio dalle condutture per rivenderlo, ma non è da escludere che molte perdite siano dovute allo fatiscenza delle condutture. “Qualunque sia la causa – osserva Amnesty International -, secondo la legge nigeriana le compagnie petrolifere sono responsabile di contenere e ripulire le perdite e riportare le aree contaminate al loro stato originario. Tuttavia, ciò accade di rado. Di conseguenza, la gente nel Delta del Niger vive con l’impatto cumulativo di decenni di inquinamento”.

Corruzione, inquinamento, morte. Non compaiono nel giallo rassicurante dell’advertising di Eni, né nella retorica neo-coloniale che accompagna l’iniziativa, nella quale si parla perfino di “un futuro inclusivo”.

“Sono le bugie che sono state martellate / nelle tue orecchie per una generazione / […] E’ questo / caro amico, che trasforma il nostro mondo / in una tetra prigione”, scriveva il poeta nigeriano Ken Saro-Wiwa. Lo scriveva nel 1991, quattro anni prima di essere condannato a morte per aver reclamato i diritti della gente del Delta del Niger contro le multinazionali del petrolio.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 23 ottobre 2018.