Tre anni fa ho scritto un articolo per protestare contro un controllo antidroga in una mia classe. Un articolo per il quale ho ricevuto, insieme a non pochi apprezzamenti, decine di insulti e minacce. Un tale ha ritenuto opportuno chiamare la mia dirigente e chiedere il mio licenziamento; non contento, ha poi aperto in un forum una discussione dal titolo “Prof. Antonio Vigilante: un pessimo insegnante”, che è ancora oggi uno dei primi risultati che si ottengono digitando in Google il mio nome. Intanto i controlli antidroga sono continuati. Quest’anno con una variante: invece di entrare in aula con il cane antidroga hanno fatto uscire gli studenti e hanno perquisito l’aula vuota. Il cane ha apprezzato molto un pezzo di mortadella residuo della merenda di uno studente. E dunque un qualche senso la cosa l’ha avuta, almeno per lui.
Ieri l’altro il ministro Salvini ha tenuto un comizio nella città in cui insegno, affermando che da settembre metterà polizia e carabinieri davanti alle scuole per stroncare la vendita di droga. Questa volta Antonio Giannelli, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi ha avuto il buon senso di osservare che la cosa forse non è proprio realizzabile, considerando che ci sono quarantamila edifici scolastici, e di ricordare l’importanza della prevenzione.
Veniamo da mesi in cui gli studenti italiani sono stati sbattuti quotidianamente in prima pagina: lo studente che minaccia il docente, quello che lo insulta, quello che lo picchia. Sapete come funziona: bastano una decina di casi, dati in pasto all’opinione pubblica nell’arco di uno o due mesi, per creare allarmismo sociale. Basterebbe una rapida considerazione statistica per rendersi conto che il fenomeno semplicemente non esiste. In Italia gli studenti sono quasi otto milioni, quelli della secondaria inferiore quasi un milione e settecentomila, due milioni e mezzo quelli della secondaria superiore. Questo vuol dire che, anche considerando solo questi ultimi, la percentuale di studenti con comportamenti gravemente irrispettosi verso i docenti risulta statisticamente irrilevante.
Il disprezzo degli adolescenti è radicato nel nostro discorso comune non meno del disprezzo dello straniero o dei Rom. Gli adolescenti vanno costantemente sorvegliati, se occorre anche con polizia e carabinieri, perché sono poco raccomandabili, non conoscono il rispetto delle regole, bevono e si drogano, non hanno valori, vogliono tutto e subito. Scrivono sui muri, non hanno alcun riguardo per la nostra storia e l’arte, sono sempre attaccati ai telefonini, anche quando vanno ai musei. E poi non studiano nulla, mica come noi che alla loro età eravamo tutti dei geni. Un disprezzo che è anche alla base di non pochi discorsi sulla scuola: basti pensare a Paola Mastrocola, i cui libri hanno non poco successo presso qui docenti che rimpiangono la pedana sotto la cattedra (che non manca in diverse aule, a dire il vero).
Dietro i pregiudizi c’è sempre una profonda ragione psicologica, che spesso è legata alla violenza. Il pregiudizio razziale, ad esempio, è più radicato in quei luoghi in cui particolarmente feroce è lo sfruttamento lavorativo degli stranieri. Sappiamo che li riduciamo in schiavitù (qualcuno ricorderà il reportage di Fabrizio Gatti per “L’Espresso” intitolato Io schiavo in Puglia), ma allontaniamo da noi questa consapevolezza de-umanizzando il nostro schiavo e quindi rappresentandoci come sue vittime. Ho l’impressione che accada qualcosa del genere con gli adolescenti.
Come è noto, l’adolescenza è una creazione sociale e culturale. In alcune culture la maturità sessuale coincide con la maturità sociale, o quasi. A quindici anni un ragazzo comincia a lavorare e diventa membro effettivo della società. Da noi invece l’inserimento effettivo avviene in media dopo i venticinque anni. C’è dunque un periodo spaventosamente lungo tra la maturità sessuale e la maturità sociale, un periodo in cui la persona è socialmente sospesa, costretta in un limbo, priva di autonomia e di progettualità. Può essere anche, e per molti è in effetti, una gabbia dorata, può essere che non vengano negati beni anche superflui, ma viene costantemente negato un bisogno umano fondamentale: il bisogno di essere un soggetto sociale. Di sentirsi parte della società, di contribuire alla vita di tutti.
In questi anni di sospensione un adolescente vive in una condizione che qualsiasi adulto troverebbe intollerabile. Ogni mattina va a scuola ad ascoltare, seduto per cinque ore, persone che parlano di cose per le quali raramente ha un vero interesse (e quanti hanno interesse per centinaia di argomenti appartenenti a più di dieci discipline diverse?); le stesse persone che, quando è il loro turno – al Collegio dei docenti, ad esempio – non resistono sedute per più di un’ora, parlano liberamente tra di loro, leggono il giornale e consultano ossessivamente lo smartphone. Come è giusto che sia (o quasi), perché esiste il diritto di annoiarsi. In quegli anni chiunque, col pretesto dell’educazione, si sente in diritto di guardarlo dall’alto in basso, di dirgli cosa è giusto e cosa è sbagliato, di criticare ogni sua mossa. Di mancargli di rispetto. Bambini ed adolescenti sono, in assoluto, le persone cui si manca maggiormente di rispetto. Si nega loro costantemente, sistematicamente, il diritto fondamentale al riconoscimento. Il diritto di essere considerato una persona a posto. Semplicemente.
Eppure basta uno sguardo un po’ meno superficiale per accorgersi che loro sono quelli più a posto, nella nostra società. Certo, qualcuno di loro scrive sui muri, qualche altro fa uso di cannabis e qualcuno addirittura la spaccia. Colpe che si relativizzano non appena le confrontiamo con quello che fanno gli adulti. Prendete una qualsiasi fascia di età ed aprite i giornali. Ecco a voi il mondo degli adulti: evasori fiscali, banchieri senza scrupoli, politici che si comportano come bulli di periferia, uomini che uccidono le donne che dicono di amare, sacerdoti che ammazzano l’amante o violentano bambini, perfino ottuagenari che accoltellano per una banale questione di bollette. Un mondo che spaventa i ragazzi. Non c’è quasi figura adulta che non abbia perso qualsiasi autorevolezza ai loro occhi. Non il politico, non il prete, non il professore. Avvertono gli adulti come quelli che li giudicano senza avere l’autorità morale per farlo.
Ed hanno ragione, perché non trovo né in me stesso, né nella maggior parte degli adulti che frequento, la pulizia morale dei miei studenti. Non trovo la dolce determinazione della studentessa straniera che sogna di fare filosofia alla Sorbona, e studia senza chiedere nulla in cambio, “tanto il voto non è importante”; non trovo lo straordinario coraggio di chi riesce a non perdere il suo meraviglioso sorriso pur con gravi problemi di salute, né l’equilibrio e la saggezza di chi deve gestire la separazione dei suoi genitori, o l’entusiasmo di chi impiega tempo ed energie per preparare i compagni in difficoltà, consentendomi di giungere allo scrutinio senza nessuna insufficienza, o ancora la forza di chi cerca di capire la sua identità di genere facendo i conti con la paura di essere rifiutato dalle persone che ama. E potrei continuare a lungo.
Qualche settimana fa un’alunna ha chiesto di parlarmi. Un caso di coscienza: aveva cominciato a lavorare ed a guadagnare qualche soldo. La sua inquietudine era: “Professore, ho paura che i soldi diventino troppo importanti per me”. L’ho rassicurata, fino a quando si porrà il problema, i soldi – che sono importanti – non diventeranno troppo importanti per lei. In una società in cui il primato del denaro è affermato ad ogni piè sospinto solo un adolescente può avvertire ancora il suo potere e la sua seduzione come una minaccia.
Forse è giunto il momento di finirla di giocare al massacro con i nostri giovani. Il suicidio è nel nostro paese la seconda causa di morte degli adolescenti, dopo gli incidenti stradali. Un problema che viene affrontato da un punto di vista psichiatrico, con l’invito a genitori e docenti a cogliere tempestivamente i sintomi di depressione. Dai tempi di Durkheim tuttavia sappiamo che un suicidio può avere anche cause sociali. In Realismo capitalista Mark Fischer (morto anch’egli suicida) si chiede: “anziché accettare la generalizzata privatizzazione dello stress che ha preso piede negli ultimi trent’anni – quello che dovremmo chiederci è: com’è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate?”. E’ probabile che si tratti dello stesso processo sociale che ha reso tollerabile che il discorso pubblico sui giovani riguardi quasi esclusivamente, ormai, il controllo: pedagogico, psichiatrico o poliziesco. Una ipotesi da considerare è che portare gli adolescenti fuori dal controllo sia la via per riprendere il controllo della nostra società.
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Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, *23 giugno 2018.