Qualche giorno fa ho provato un brivido sentendo le note e i ritmi a me ben noti di una tarantella garganica in un ambiente inusuale, un teatro di Siena, e in un contesto non meno inusuale: prima di quelle note, di quei ritmi, avevo ascoltato musica nordafricana, mediorientale, balcanica, yiddish, spagnola, francese. Ho avuto la netta sensazione che fosse quello il contesto più vero: che quella musica fosse parte integrante di quel discorso. Si trattava di un concerto di Ginevra Di Marco accompagnata dalla Orchestra Multietnica di Arezzo, che da più di dieci anni porta avanti una ricerca musicale che fa dialogare la musica popolare europea con quella del Mediterraneo e araba.
Ho letto molto, ultimamente, di Dariush Shayegan, un filosofo iraniano scomparso lo scorso anno che per tutta la vita si è occupato del dialogo tra il mondo musulmano e quello occidentale. La sua tesi è che le società tradizionali, e quella islamica soprattutto, si trovano in una condizione paradossale, che chiamava entre deux: non possono più vivere nel loro tradizionale mondo culturale, ma non riescono ancora a vivere nel mondo occidentalizzato. Sono bloccati tra il non più e il non ancora, e questa situazione di impasse genera l’ideologizzazione dell’islam (che ha dato origine alla rivoluzione iraniana) e il terrorismo.
C’è un campo, però, nel quale questi mondi che paiono così lontani, e che con grandi sforzi la filosofia interculturale (di cui Shayegan è uno dei maestri) cerca di far dialogare, si incontrano meravigliosamente, ed è appunto la musica. Quella tradizionale islamica riesce ad incontrarsi con quella popolare europea senza stridore, come se fossero lingue che dicono in modo diverso la stessa cosa. E la cosa più interessante, e più importante, è che questo incontro, questo dialogo musicale non è affare da etnologi o da musicologi, ma è arte, ossia emozione. Chi ascolta sente di trovarsi di fronte non ad una operazione intellettuale, ma ad una cosa viva.
Quell’emozione ci dice che esiste una casa comune. E’ il Mediterraneo, una terra di scambi antichi, di antichi colloqui, non solo interni, ma aperti anche alle suggestioni del Medio Oriente e, più oltre, dell’Iran, dell’India. Esiste una continuità tra i ritmi zigani del flamenco, quelli arabi, quelli balcanici, e la nostra tarantella.
Da qualche tempo abbiamo deciso di voltare le spalle a questa casa comune. Non vogliamo saperne di albanesi, di Rom, di egiziani e tunisini. Ci siamo tirati fuori da questa fitta rete di intrecci, di legami, di richiami; siamo diventati un paese astratto. Astratta è la stessa rivendicazioni delle nostre radici, perché le radici affondano in un terreno comune, e non c’è albero se non c’è bosco. Negare le relazioni, gli scambi, i condizionamenti reciproci è tagliare e negare le nostre stesse radici. E’ una affermazione di identità che in realtà istituisce un popolo fittizio, che non è che un ego più grande, l’ipostatizzazione del nostro misero egoismo provinciale.
La nostra nuova casa e una casa inospitale. E’ una non casa, a dire il vero, perché il concetto di casa non è separabile dal concetto di ospitalità. E’ un non luogo, una dimensione astratta costruita dal denaro, nella quale le relazioni sono scambi economici e poco più. Il non più e non ancora caratterizza la nostra società non meno di quella islamica. Non siamo più la civiltà contadina, ce la siamo lasciata alle spalle con un senso di liberazione con il boom economico del secolo scorso. Non siamo ancora… cosa? Nulla. Non siamo ancora nulla. In passato avevamo un non ancora. Sognavamo una società giusta, avevamo davanti un progetto, una meta. Oggi non abbiamo davanti nulla. Non procediamo verso nulla. Il non ancora è lo spazio della sopravvivenza. Esistiamo, siamo vivi perché non è ancora avvenuta la catastrofe, che pure si annuncia. Tra il non più e il non ancora abitiamo uno spazio paradossale ed alienante. Non potendo procedere né retrocedere, ci trinceriamo nel presente per combattere una guerra di posizione contro i nostri fantasmi. E al prossimo mostriamo la faccia feroce, che non si sa mai.
Articolo pubblicato su l’Attacco, 22 febbraio 2019.