Quando ho cominciato a insegnare, ormai vent’anni fa, non avevo molti libri nel mio bagaglio leggero di giovane docente. L’università mi aveva formato soprattutto sulla fenomenologia, l’ermeneutica e il personalismo, ma nessuna di queste teorie mi persuadeva. Presa la laurea, ho cominciato da zero o quasi il lavoro di farmi una cultura filosofica e pedagogica adeguata al mio sentire; un lavoro che non è ancora finito.
Tra i pochi libri che portavo idealmente con me, il giorno in cui per la prima volta ho messo piede in un’aula scolastica, c’era L’analisi istituzionale di Georges Lapassade. Avevo incontrato le idee e la prassi di Lapassade durante uno dei lavori tentati alla ricerca di una mia via: pedagogista in una cooperativa educativa. Una cooperativa che era seguita da Lapassade e ne adoperava il metodo dell’autogestione: ragazzini anche molto piccoli (di quelli che si definiscono difficili) erano chiamati alla gestione condivisa della comunità educativa. La prima volta che misi piede come docente in un’aula scolastica lo feci con quel modello educativo, e ben presto sperimentai quanto l’istituzione scolastica sia chiusa non tanto alla sperimentazione in sé, quanto a sperimentazioni che ne mettano in discussione realmente, e non solo retoricamente, i rapporti di potere.
Lapassade è stato uno dei protagonisti più vivaci, anche se non tra i più noti, del Sessantotto. E chi ha provato a portarne a scuola la pratica sa quanto sia superficiale, sciocca, storicamente arbitraria la diffusa analisi che attribuisce i mali attuali della scuola italiana a una presunta influenza nefasta del Sessantotto. A distanza di cinquant’anni c’è da interrogarsi piuttosto su quanta istanze pedagogiche del Sessantotto rappresentino ancora una sfida per la scuola; quanto, cioè, autori come Lapassade siano ancora attuali. Per questo risulta prezioso un libro come Educazione e pedagogia autogestionaria. Una ricerca su Georges Lapassade di Carla Gueli (Sensibili alle foglie, Roma 2018). Un libro che nasce appunto dalla necessità e dall’urgenza di affrontare il nonsenso quotidiano della scuola, interrogando dal di dentro l’istituzione attraverso la voce delle persone che la costituiscono quotidianamente. Si parla molto, a scuola, di educazione al pensiero critico, ma pare che l’istituzione stessa sia escluda da questa analisi critica: non accade mai, o quasi, che studenti e docenti si fermino ad analizzare il senso, l’origine, la direzione, la natura e la struttura, i fini evidenti e quelli latenti dell’istituzione scolastica. Non è difficile comprenderne le ragioni. Chi analizza criticamente la scuola giunge ben presto alla questione del potere. E se si critica il potere scolastico, l’istituzione crolla. O si trasforma profondamente. In uno dei suoi libri più potenti, L’entrée dans la vie (1963), tradotto in italiano con il titolo Il mito dell’adulto, Lapassade mette in discussione uno dei capisaldi della concezione pedagogico-scolastica. Gli adulti hanno il diritto/dovere di educare i giovani, e di farlo con un giusto ricorso all’autorità ed alla disciplina, perché rappresentano l’umano giunto a compiutezza. Ma ciò che caratterizza la specie umana, osserva Lapassade, è una costante incompiutezza, l’essere sempre in formazione, senza che si possa individuare un momento in cui il processo è compiuto e l’educazione ha raggiunto la sua fine. Si tratta di tesi che all’epoca risultavano fortemente provocatorie e lo sono per molti versi anche oggi, ma in fondo, ricorda Gueli, anticipano quella esigenza di una educazione permanente che oggi è universalmente riconosciuta. Senza che se ne traggano, però, tutte le conclusioni pedagogiche, perché se anche l’adulto è in formazione, allora scompare la distinzione netta tra insegnante e alunno, e bisogna parlare piuttosto di una comunità di soggetti in formazione. Che è ciò che Lapassade cercava con la pratica dell’autogestione, che rappresenta anche un modo per riscoprire la relazione umana oltre il sistema burocratico. “Il solo modo di proteggersi dalla relazione umana è di sopprimerla, non bisogna che l’altro continui ad essere l’origine di una relazione, bisogna che egli non ne costituisca più che il termine”, scriveva ne L’analisi istituzionale (Istituto Editoriale Internazionale, Milano 1974, p. 126). Lo avvertono ogni giorno gli studenti: ciò che chiedono più di ogni altra cosa è una relazione umana reale. Quello che ottengono, quotidianamente, è un sistema relazionale freddo, con ruoli rigidi, nel quale l’ossessione per le regole, la disciplina, il controllo si esprime in forme che altrove sarebbero bizzarre: un problema relazionale è risolto non con un confronto umano, magari anche acceso, ma con il ricorso al testo scritto del rapporto disciplinare. Un sistema che ha conseguenze anche sull’apprendimento, poiché l’apprendimento reale è sempre un fatto sociale, nasce dal confronto, dalla discussione e ricerca comune, non dalla serialità dello studio individuale, in competizione con l’altro, centrato sul protocollo lezione-manuale-interrogazione.
Pensatore rivoluzionario, Lapassade non si accontenta di mezze soluzioni. Seguendo Sartre, interpreta il passaggio dal gruppo alla istituzione come caratterizzato dal giuramento, che rende stabile il gruppo e gli garantisce il futuro, ma solo a costo di una fase di terrore, che è dunque all’inizio dell’istituzione. Non è sufficiente qualche intervento per democratizzare l’istituzione: occorre che i gruppi la analizzino criticamente e ne ribaltino la struttura, smettendo di esserne gestiti e passando alla autogestione. Una azione che, afferma, “sarà sempre, almeno in parte, allo stato di progetto, perché la rivoluzione non sarà mai definitivamente compiuta” (p. 67, citazione da Processo all’Università, del 1969). In questa proposta le istanze libertarie esistenti da tempo nella pedagogia europea e nordamericana, da Freinet a Rogers, da Neill a Illich, sono espresse con la piena consapevolezza del significato politico di una rivoluzione pedagogico-istituzionale, ed è qui la loro forza, ma anche la loro debolezza, nel momento in cui la società smarrisce lo slancio rivoluzionario.
Rileggere oggi Lapassade può sembrare impresa disperata, se si considera la spoliticizzazione attuale degli studenti, la loro scarsa propensione a discutere ruoli, poteri, dinamiche sociali, il ripiegamento sul privato; se si considera, ancora, il disorientamento degli stessi docenti, sempre più in difficoltà, anzi in imbarazzo in una istituzione che, non più attraversata da fremiti rivoluzionari, appare poco credibile anche come strumento della conservazione sociale. E’ invece un atto di speranza. E di ribellione. Attingendo a Lapassade a più in generale alla pedagogia istituzionale, scrive Gueli concludendo il suo libro, “si potrebbe forse trovare un terreno fertile per coltivare una nuova possibilità creativa e immaginifica, per elaborare modelli educativi resistenti a quelli del mercato, per immaginare i luoghi educativi come comunità dinamiche di ricerca e sperimentazione. Potrebbero forse così generarsi esplorazioni collettive generatrici di forme di educazione volte a costruire una rinnovata, benchè incompiuta, umanità” (p. 101). Resistenza è, qui, la parola chiave. Non è il tempo della rivoluzione, è il tempo della resistenza. E in campo educativo vuol dire non dimenticare che un’alternativa è possibile. Realizzabile? Si vedrà. Ma intanto importa sapere che è necessaria.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 28 settembre 2018.