La scuola che verrà

Gli studenti sono i grandi assenti nel dibattito pubblico sulla scuola. Parlano tutti, di scuola; anche, e soprattutto, quelli che mai hanno insegnato: psicologi, pedagogisti, politologi, politici, politicanti. Non sorprende: l’accesso al discorso pubblico è legato allo status sociale, e se gli insegnanti hanno uno status sociale basso – per cui quello che dice un docente con vent’anni di esperienza conta meno dell’ultima uscita d’un Galli della Loggia – gli studenti (e questo è uno dei problemi della nostra società) non esistono quasi, come soggetti degni di parola. Per questo non si può non accogliere con favore le 95 tesi del collettivo studentesco torinese Rinascimento Studentesco per ripensare la scuola italiana post-pandemia.
Considerare gli studenti come interlocutori validi vuol dire anche non far loro sconti. Per questo comincerò l’analisi delle loro tesi con qualche considerazione critica. Cominciando dal numero delle tesi. Comprendo la suggestione di Lutero, ma elencare 95 tesi significa mettere insieme in modo confuso quello che è importante e quello che lo è meno e soprattutto dare l’impressione che si sia aggiunta proposta a proposta, più che discutere e cercare insieme un profilo coerente, sia dal punto di vista pedagogico che dal punto di vista politico. Qualche tesi è banale, qualche altra enuncia principi astratti più che formulare proposte, qualche tesi non è nemmeno una tesi (la 59: perché non metterla alla fine?). La tesi 93 – “Intensificare i controlli su tutti i congedi di cui usufruisce il personale scolastico (malattia, malattia del bambino ecc.)” –  asseconda la penosa retorica dei docenti fannulloni, ignorando che dopo la riforma Brunetta il docente nei primi dieci giorni di malattia ha lo stipendio decurtato da ogni trattamento economico accessorio. [read more]

Nell’impossibilità di discutere tutte le tesi – occorrerebbe scrivere un libro – prenderò in considerazione quelle che mi sembrano più interessanti ed urgenti. Cominciando dalla prima – “Studenti più coinvolti nelle decisioni scolastiche (più studenti nei Consigli di Istituto)” – e dalla terza: “Una scuola più democratica e luogo di dibattito (garantire il diritto di assemblea, di classe e d’istituto)”. Il fatto che queste richieste siano in cima alle 95 tesi deve far riflettere. Si tratta, in effetti, di uno dei problemi più gravi della scuola italiana: la passivizzazione degli studenti. Che rivendicano, in questo caso, il diritto di assemblea garantito dalla legge. Ma devo osservare amaramente, da docente, che il rispetto rigoroso di questo diritto – e mi sorprenderei se qualche scuola non lo rispettasse – non è affatto garanzia di democrazia: ciò che emerge dalle assemblee può essere bellamente ignorato da chi di fatto gestisce la scuola. Il punto è che lo studente non è considerato, a scuola, un interlocutore, il membro di una comunità democratica, un legittimo portatore di interessi e punti di vista, ma, a seconda delle concezioni della scuola, un paziente da curare o un cliente da soddisfare. Ed è da qui che bisognerebbe partire, secondo la mia idea di scuola. È ridicola una scuola che voglia educare alla democrazia, alla partecipazione e all’impegno sociale senza coinvolgere costantemente gli studenti nella stessa pratica scolastica. Non si tratta di rafforzare la componente studentesca negli organismi decisionali – che in realtà si stanno sempre più svuotando di senso – ma di lavorare affinché la scuola sia una comunità in dialogo, ed in dialogo principalmente su sé stessa: una comunità di docenti e studenti che ragionano su cosa vuol dire fare scuola, cultura, educazione.
Democratizzare in questo modo la scuola è anche il miglior modo di fare educazione civica. L’altro aspetto centrale per una formazione politica degli studenti è ben colto dalla tesi 19: “La scuola dev’essere luogo d’incontro e formazione tra associazioni, obiettivi e cittadini della zona”, cui si collega la tesi 58: “Introdurre a scuola la storia del volontariato in Italia e nel mondo, spronando gli studenti all’attivismo sin da piccoli, piuttosto che occupare il tempo con programmi spesso troppo lunghi”. Si può fare a dire il vero di più, e di meglio, introducendo in Italia il Service Learning, come già si sta facendo da qualche anno in alcune scuole. È una pratica che va oltre il volontariato, perché porta gli studenti a impegnarsi nella loro comunità mettendo in pratica quello che studiano in classe. Studio e impegno civile sono legati in modo organico, in un processo nel quale è essenziale il protagonismo progettuale degli studenti.
I Patti educativi di comunità, introdotti lo scorso anno, possono essere uno strumento importante per superare la chiusura della scuola al territorio e integrare la comunità educativa scolastica nella più ampia comunità cittadina. Ma mi sembra importante insistere su questo: prima di aprirsi alla comunità esterna la comunità scolastica deve costituirsi, appunto, come comunità. E non c’è comunità se non si mette in comune qualcosa. Non c’è comunità senza relazione autentica. Mi spiace non trovare nelle tesi quello che a mio avviso è il punto fondamentale: la relazione. A scuola le relazioni sono per lo più inautentiche, ipocrite, mediate dalla norma più che tese alla ricerca comune. Un conflitto viene risolto con il ricorso a un testo scritto in un registro burocratico: la nota. E anche i dirigenti, ormai manager aziendali, comunicano trincerandosi dietro un gergo giuridico-burocratico, che diffonde dall’alto una grande freddezza umana. E no, non si può fare quella cosa calda, viva, palpitante che è l’educazione, in un contesto in cui le relazioni umane sono rapporti tra superiore e subordinato (anticipazione di quello che sarà poi il mondo del lavoro).
Da docente, mi sarei aspettato una più radicale messa in discussione delle pratiche didattiche correnti. Ma la tesi 35 centra il punto: “Disposizione delle classi più inclusiva e coinvolgente possibile, allontanarsi dalla ‘retta’ per andare verso il ‘cerchio’”. Non è solo una questione di setting (che a dire il vero è tutt’altro che marginale, e condiziona fortemente il lavoro didattico ed educativo). Passare dalla unidirezionalità (dal trasmettere, direbbe Dolci) alla circolarità vuol dire andare all’essenza dell’insegnamento. Non può essere, l’insegnamento, il semplice trasferimento di contenuti culturali dall’insegnante allo studente. Se quest’ultimo dev’essere studente, e non semplicemente alunno o allievo, occorre che quei contenuti culturali siano discussi, analizzati, criticati; e cercati insieme, più che semplicemente consegnati, con l’aiuto del manuale. Da docente, so quanto è gratificante parlare per un’ora davanti a una classe ammirata dal tuo sapere. Ma non serve agli studenti. Ogni parola di troppo del docente è una parola sottratta allo studente.
Un ultimo punto sul quale mi sembra importante soffermarsi è quello della laicità. La tesi 71 afferma: “Eliminare completamente l’insegnamento della religione cattolica: la scuola deve essere laica per tutti, il credo religioso fa parte della cultura familiare e in famiglia deve restare”. Se questa tesi sembra negare qualsiasi insegnamento della religione, la tesi 55 afferma: “Essendo l’Italia, secondo la Costituzione, uno Stato laico, anche la scuola deve esserlo sia dal punto di vista teorico (insegnamento della storia delle religioni) sia dal punto di vista pratico (eliminazione dei crocifissi dalle scuole)”.
Naturalmente hanno ragione. L’insegnamento confessionale della religione cattolica è assurdo. Assurdo è che si assumano dei docenti pagati dallo Stato ma scelti dalla Curia. Scandalosa e inaccettabile è la presenza del crocifisso in aule scolastiche che accolgono ormai studenti di ogni religione. Ma c’è un problema meno vistoso, ma non meno grave, ed è la totale chiusura della nostra scuola a qualsiasi cultura che sia diversa da quella europea ed occidentale. L’insegnamento della filosofia ripercorre tutta la storia della filosofia occidentale, rifiutandosi sdegnosamente di considerare vera filosofia quella cinese o quella indiana, quello della storia è la cronaca dei diversi imperi europei con un’appendice sulla storia americana, quello della letteratura riempie lo studente di ammirazione per la grandezza dell’Iliade e dell’Eneide, evitando accuratamente di rivelargli l’esistenza del Mahabharata. E lo studente esce dalla scuola – e poi dall’Università – con la certezza incrollabile che non esista civiltà al di fuori dell’Europa. Incapace, di fatto, di comprendere un mondo globalizzato, nel quale l’Europa diventa sempre più periferia.

Articolo pubblicato su Comune, 31 marzo 2021.[/read]

E se la scuola neoliberista
fosse quella tradizionale?

L’edizione del 27 marzo di The Guardian ha in prima pagina una notizia che sembra venir fuori da un episodio di Black Mirror. Teleperformance, società leader mondiale nel settore dei call center – 380.000 dipendenti in trentaquattro nazioni – monitorerà i suoi dipendenti attraverso particolari webcam che riveleranno eventuali infrazioni nel lavoro domestico. Il lavoratore che avrà bisogno di una breve pausa, ad esempio per andare in bagno, dovrà segnalarlo utilizzando una apposita app.(1)

Se non sarà efficacemente contrastata, questa sorveglianza totalitaria diventerà una delle caratteristiche del lavoro nell’epoca del capitalismo della sorveglianza. La riduzione del lavoratore a strumento digitalmente manovrato fa sistema con la costante manipolazione resa possibile dai big data, che penetrano dove anche il più efficiente dei regimi totalitari era costretto ad arrestarsi: l’immaginario, il desiderio, le aspirazioni, il mondo di dentro. Che è invece ora costantemente esposto, analizzato, profilato e sfruttato commercialmente.

Leggendo la notizia ripensavo a una cosa letta in un gruppo di insegnanti qualche giorno fa. Un insegnante spiegava come monitorare in tempo reale il lavoro degli studenti su Google Classroom, che con Microsoft Office 365 è, grazie a un discutibilissimo sostegno ministeriale, la piattaforma di gran lunga più usata per la didattica a distanza. Controllare gli studenti sembra essere l’ossessione dei docenti che insegnano a distanza. Controllarli mentre seguono le lezioni, controllarli mentre fanno i compiti, controllarli durante le verifiche.

Ciò che appare come una evidente e grave violazione dei diritti umani quando si tratta di lavoratori, è invece normale se riguarda quei lavoratori particolari che sono gli studenti. Il controllo, che la DaD rende più difficile, è una delle caratteristiche principali della condizione scolastica. Essere a scuola vuol dire essere controllato. Stare costantemente sotto lo sguardo del docente, dover in ogni istante adattare il proprio comportamento ai codici scolastici fino ad interiorizzarli e diventare uno studente scolarizzato. La scuola è rimasta una istituzione panottica. L’aula non ha angoli bui, zone d’ombra nelle quali ci si possa rifugiare. Per respirare occorre andare altrove, approfittare dei pochi minuti in cui è concesso andare in bagno.
Sappiamo che non è possibile preservare quella cosa fragile che è la dignità umana senza qualche paravento, qualcosa che ci sottragga all’esposizione, all’invadenza dello sguardo. Dignità umana è il diritto di non essere visti, di non restare nudi, di non dire e di non dirsi. È diritto di sottrarsi. Un luogo interamente illuminato, interamente esposto, è un luogo violento e disumano.

Si ritiene che la scuola debba rappresentare il luogo nel quale, formando la persona a contatto con i più alti valori culturali, è possibile contrastare le tendenze disumanizzanti del neoliberismo. È per questo che molti si sono opposti sdegnosamente all’alternanza scuola-lavoro. Pareva un cedimento della scuola, che dev’essere otium, tempo dedicato alla pura e disinteressata cura di sé, alle esigenze del mercato del lavoro. Sfuggiva, e sfugge, che c’è invece piena continuità tra la scuola tradizionale e il mondo del lavoro come lo desidera il neoliberismo.

Definisco scuola tradizionale la scuola ancora in gran parte prevalente nel nostro Paese: la scuola centrata sulla lezione, sul manuale, sullo studio autonomo e sulla valutazione individuale. Il setting corrispondente a questa scuola è quello dei banchi in fila che mettono capo alla cattedra del docente.

In questa scuola ogni studente è intento a perseguire il proprio profitto individuale. Per farlo, il modo più sicuro è attenersi in tutto e per tutto alle indicazioni del docente, lasciarsi guidare da lui sulla via del sapere. E piegarsi al suo sguardo: accettare di essere costantemente osservati e prendere la forma che l’occhio desidera che si assuma.

È frequente, quando si parla di scuola, che si ricorra a quella che io chiamo la reductio ad Hayekum. Come è noto, la reductio ad Hitlerum consiste nel mettere a tacere l’avversario sostenendo che le sue tesi erano sostenute da Hitler o conducono a qualche tesi sostenuta da Hitler. La reductio ad Hayekum (da Friedrich von Hayek, uno dei maggiori teorici del liberismo) ne è la versione aggiornata: si insinua che una tesi, una proposta, una riforma siano animati dallo spirito del neoliberismo. È questa l’accusa con la quale si è letta, come detto, l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro, che pure ha consentito in Italia, ad esempio, la prima sperimentazione del Service Learning, ossia di una metodologia che forma alla cittadinanza e all’impegno civile. Più in generale, è la fallacia con la quale si attacca qualsiasi ipotesi di cambiamento della scuola italiana, che muove sempre da qualche losco proposito di neoliberalizzazione. Sfugge che la scuola così com’è, con il suo impianto tradizionale, tradizionalissimo, è pressoché perfetta per un ambiente di lavoro neoliberista. Manca giusto l’attitudine al lavoro di gruppo, ma a quello si rimedia. La scuola in compenso consegna al mondo del lavoro uno studente che per anni è stato abituato a lasciarsi osservare costantemente e a cedere alle richieste dell’ambiente per ottenere la gratificazione individuale del voto. E non si comprende per quale miracolo questo studente perfettamente scolarizzato dovrebbe diventare poi un lavoratore in grado di far valere i propri diritti e di rivendicare la propria dignità umana.

(1) P. Walker, Call centre staff face being watched working at home, “The Guardian”, 27 marzo 2021.

Articolo pubblicato su Comune il 27 marzo 2021.