Intervista di Paolo Arena e Marco Graziotti per il foglio telematico La nonviolenza è in cammino (agosto 2010).
Come è avvenuto il suo accostamento alla nonviolenza?
Durante l’adolescenza ho letto molto, in modo anche piuttosto disordinato: e molti dei libri letti erano classici delle religioni, o testi di filosofia orientale. Verso i sedici anni lessi la Bhagavad-Gita, nella interpretazione lirica di Giulio Cogni. Lì incontrai l’idea dell’ahimsa, che mi sembrò subito bellissima. Conoscevo la sofferenza animale – galline vendute al mercato e sgozzate nel tinello di casa, pecore ammazzate nelle masserie del Gargano e poi gonfiate per staccare il vello. All’improvviso tutto ciò mi risultò inaccettabile. A sedici anni diventai vegetariano. Il passo dagli animali agli esseri umani non fu facile. Avevo un carattere non facile, chiuso, ostile. Avevo conosciuto, anche a scuola, la discriminazione classista, e ciò aveva influito non poco sul mio atteggiamento verso i professori e l’istituzione in generale. Avevo, da adolescente, una visione del mondo che si può così sintetizzare: ciò che chiamano Dio non esiste; esiste però il Se’, e per raggiungerlo occorre lanciarsi oltre i limiti dell’io. L’apertura alla vita animale mi sembrava una via per sperimentare questo sporgersi verso il Se’; un’altra era, per quello che riuscivo a vedere, la sofferenza stessa. Ma l’amore del prossimo, no. Provavo una rabbia molto forte verso le “autorità”…
Il primo incontro con un pensatore della nonviolenza risale all’università. Avevo deciso di studiare Rensi, un filosofo ateo che è stato tra i pochi filosofi italiani del Novecento che si sia posto il problema della vita non umana. Studiando Rensi, allargai lo sguardo verso altri “minori” della filosofia italiana: e tra questi era Aldo Capitini. Scoprii che era stato anche vegetariano, anzi fondatore della Società Vegetariana: e questo me lo rese immediatamente simpatico. Lessi le sue opere solo molto tempo dopo, ma intanto sapevo di lui, conoscevo il nucleo del suo pensiero. A ventidue anni, dopo la laurea, non ebbi dubbi sulla scelta dell’obiezione di coscienza. Ricordo quando fui chiamato in caserma. Volevano sapere se le cause della mia obiezione erano morali o religiose. Provai a spiegare che può non essere così facile distinguere la morale dalla religione, e che la questione era oziosa. Mi sentii rispondere: “Guaglio’, voglio solo sapere se la tua domanda la devo mettere nel mucchio delle ‘morali o in quello delle ‘religiose’”. “In quello delle ‘morali’”, risposi.
Quali personalità della nonviolenza hanno contato di più per lei, e perché?
Aldo Capitini, indubbiamente. E poi Danilo Dolci, Tolstoj, Gandhi. In Capitini c’è una filosofia della nonviolenza che è a mio avviso di altissimo valore anche filosofico. Mi spiace molto che sia praticamente sconosciuto all’estero. Dolci invece è più conosciuto all’estero che in Italia. Ricordo il modo sbrigativo in cui il 30 dicembre del ’97 il telegiornale diede la notizia della sua morte. Meno di un minuto, e nessun servizio, per un uomo che era stato candidato al Nobel per la pace, per una vita spesa interamente a favore degli ultimi. Il nostro è un paese che onora i criminali di Stato, e che disprezza i grandi.
Quali libri consiglierebbe di leggere a un giovane che si accostasse oggi alla nonviolenza? E quali libri sarebbe opportuno che a tal fine fossero presenti in ogni biblioteca pubblica e scolastica?
Probabilmente La persuasione e la rettorica di Michelstaedter. Mi sembra che in quel libro vi sia tutto. Ma non sono sicuro che la nonviolenza sia qualcosa che si impara dai libri. Dai libri si impara a definirsi, a pensarsi come nonviolenti – o “amici della nonviolenza”, come diceva Capitini. Ma la prassi è un’altra cosa.
Quali iniziative nonviolente in corso oggi nel mondo e in Italia le sembrano particolarmente significative e degne di essere sostenute con più impegno?
Ho studiato la resistenza nonviolenta in Birmania, sulla quale ho scritto un saggio che dovrebbe uscire in un libro collettivo. Mi sembra una lotta importante, anche se non priva di contraddizioni. Ma forse è anche importante riprendere esperienze del passato. Penso, per l’Italia, ai Cos di Capitini ed ai gruppi maieutici di Danilo Dolci.
In quali campi ritiene più necessario ed urgente un impegno nonviolento?
Danilo Dolci distingueva con cura due cose: il potere ed il dominio. Il potere è possibilità di fare, e come tale non è negativo. Il dominio è invece qualcosa che blocca la possibilità di fare degli altri. Per Dolci, bisognava estendere il potere della gente combattendo il dominio. Questo mi sembra oggi il principale compito della nonviolenza. Esistono sistemi di dominio che diventano sempre più coriacei, difficili da scalfire, mentre il potere individuale – che non è possibile se non attraverso forme di incontro, confronto, organizzazione dal basso – si riduce sempre piu’. Abbiamo una società disgregata, fatta di individui senza più vincoli, resi apatici e spaventati dalla televisione, che orientano la loro frustrazione verso i bersagli indicati dal dominio: i più deboli, i non conformisti, i diversi.
Quali centri, organizzazioni, campagne segnalerebbe a un giovane che volesse entrare in contatto con la nonviolenza organizzata oggi in Italia?
Mi piacerebbe poter dire: la scuola. Ma purtroppo non è cosi’. A scuola si dovrebbero imparare le cose essenziali della nonviolenza. Si dovrebbe imparare a comunicare, ad organizzarsi, a crescere insieme nella ricerca della verità, a far valere il proprio potere. Si impara invece l’ipocrisia, la genuflessione, la ripetizione vuota di nozioni, il tutti contro tutti. Il mio consiglio è di guardarsi intorno, partire dal locale, cercare di capire nella propria città quali sono le forme di dominio, e quali le forze che le contrastano: ed associarsi a quelle forze.
Come definirebbe la nonviolenza, e quali sono le sue caratteristiche fondamentali?
Da qualche parte ho scritto: “Nonviolenza è guardare il mondo dal punto di vista del debole, dello svantaggiato, dell’escluso, dello sconfitto. È assumere quello stesso sguardo, quella stessa sofferenza come propria. È rifiutare strenuamente qualsiasi giustificazione che possa essere addotta per la realtà della sofferenza umana”.
Dal mio punto di vista, esiste un nesso naturale ed essenziale tra nonviolenza ed anarchismo. Entrambi cercano una società di persone che abbiano un potere reale, senza gerarchie, senza dominio.
Quali rapporti vede tra nonviolenza e femminismo?
È noto che Gandhi ha imparato molto dalla lotta delle femministe in Inghilterra. Meno note sono le idee di Gandhi in fatto di rapporti tra i sessi. Per Gandhi le donne non devono lavorare, il loro posto è la casa; nè sono concepibili cose come la contraccezione o l’aborto. Su quest’ultimo punto, in particolare, mi sembra che sia difficile che la tradizione nonviolenta e quella femminista si incontrino. Dal mio punto di vista, che come detto è quello di chi è attento soprattutto alla zona di confine tra nonviolenza ed anarchismo, trovo poi fastidiosa una certa riscoperta dell’autorità da parte delle femministe italiane del gruppo di Diotima.
Quali rapporti vede tra nonviolenza ed ecologia?
Io penso che un aspetto centrale nella nonviolenza sia quella che chiamo “etica dell’attenzione”, vale a dire la considerazione delle conseguenze vicine e lontane delle nostre azioni. È importante, ogni volta che si fa qualcosa, chiedersi: di quale mondo favorisco la nascita, di quale mondo favorisco la morte con questa azione? È evidente, ad esempio, il dovere morale del vegetarianesimo, non solo perché la vita non umana ha valore, ma anche perché la sarcofagia ossessivo-compulsiva dei paesi industrializzati è causa diretta della morte per fame di milioni di persone nei paesi poveri.
Quali rapporti vede tra nonviolenza, impegno antirazzista e lotta per il riconoscimento dei diritti umani di tutti gli esseri umani?
Il punto di partenza di ogni riflessione nonviolenta dovrebbe essere l’analisi attenta della violenza. Bisogna guardarsi dall’errore di rifiutare la violenza prima di averla interrogata e compresa. Io ho l’impressione che vi sia qualche relazione tra la cosiddetta sacralità della persona umana e la violenza. Un dato di fatto è che in ogni società esistono gruppi di persone che vengono considerate meno sacre delle altre: i paria nell’India di Gandhi, i rom ed i clandestini in Italia. Diciamolo apertamente: i rom sono gli intoccabili italiani, ed il sistema di segregazione razziale dei rom è in tutto e per tutto simile alla segregazione dei paria. Perché questo accade? E’ possibile che la violenza si annidi nella stessa sacralità della persona. È come se il riconoscimento dell’altro come sacro richiedesse, al tempo stesso, la dissacrazione di alcuni, quasi come uno sfogo necessario.
Uscire dalla violenza, se così stanno le cose, vuol dire partire da li’: dalla dissacrazione. Non escludo che ciò possa condurre a rivedere radicalmente il concetto di sacralità della persona umana.
Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotta antimafia?
Un rapporto essenziale. Danilo Dolci ha mostrato che la mafia si combatte costruendo dal basso una realtà sociale diversa; mettendo la gente a discutere, a confrontarsi sui problemi comuni; creando le possibilità per una autentica democrazia. Combattere le mafie vuol dire combattere per una democrazia effettiva, cosa che in Italia – tra stragi di Stato, poteri occulti, corruzione, populismo mediatico eccetera – è sempre mancata. Ma sono due lotte, quella contro le mafie e quella per la democrazia, estremamente difficili: e di certo oggi in Italia mancano le energie sia per la prima che per la seconda cosa.
Quali rapporti vede tra nonviolenza e pacifismo?
Si dice comunemente che il pacifismo si limita a rifiutare la guerra, mentre la nonviolenza pratica metodi alternativi per far prevalere il bene e la giustizia. Il pacifismo sarebbe una posizione passiva, che finisce per favorire il prevalere della violenza. Può essere che sia cosi’, soprattutto in alcuni momenti storici, in cui fondamentale è la lotta. Ma bisogna tener conto di una cosa: il mondo è fatto anche di idee. Pensare in un certo modo, ed aiutare altri a pensare in un certo modo, vuol dire già trasformare il mondo, anche se non si digiuna, non si marcia, non si boicotta.
Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione filosofica?
Restiamo in tema di pensiero e trasformazione del mondo. Per Marx la filosofia ha sempre pensato il mondo, mentre bisogna cambiarlo. Anche per la filosofia della nonviolenza – e mi riferisco soprattutto a Capitini – si tratta non più di pensare, ma di trasformare la realtà; o meglio: di pensarla attraverso la prassi. Se Gandhi, come ho cercato di mostrare in uno studio sul suo pensiero, resta ancorato agli schemi della fondazione metafisica dell’etica (c’è Dio, dunque chi fa il bene finirà per vincere), Capitini segue la via interessantissima di una fondazione pratica della metafisica; cioè: io so che questo-ente-qui (questo uomo, questo animale, questo insetto) ha per me un valore assoluto, al punto che mi è impossibile ucciderlo; questo vuol dire che questa realtà, che ogni giorno uccide, schiaccia, umilia gli enti, è inaccettabile; io, partendo dall’atto di rispetto verso questo-ente-qui, mi apro ad un’altra realtà.
Una osservazione ancora. Gandhi chiamò il suo metodo satyagraha, una parola che condensa i tre concetti di forza (agraha), verità (satya) ed essere (sat). In Italia questo termine è tradotto con nonviolenza, una parola che ha una pregnanza semantica assolutamente non paragonabile a quella del termine adoperato da Gandhi. Sarebbe opportuno trovare un termine alternativo; ma quale? In un mio libro mi sono chiesto se non si possa tradurre satyagraha con filosofia. Filosofia è amore della conoscenza e della verità; e cos’altro è il satyagraha? La ricerca nonviolenta è una ricerca intrinsecamente filosofica, intesa come aspirazione alla verità (amore della sapienza), ma anche come approfondimento della logica morale (sapienza dell’amore). Ciò che è fondamentale è che la verità non diventi Verità, che l’aspirazione non porti al possesso – perché non c’è violenza più grande di quella di chi si ritiene in possesso della Verità.
Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione delle e sulle religioni?
Le religioni sono una brutta faccenda. Concepirsi come cristiano, musulmano, buddhista vuol dire porre dei limiti alla propria esperienza, alla comprensione del mondo, forse anche all’umanità. Naturalmente nelle religioni, in mezzo ai mali del dogmatismo, della superstizione, dei rituali ossessivo-compulsivi, della giustificazione ideologica delle differenze sociali c’è anche qualcosa di buono. Il punto è che è impossibile tenere solo il bene, senza uscire dalla religione. Si consideri la Bibbia: è piena di violenze, di assurdità, di atrocità, di cose oscene e scandalose. Che farne? È possibile tenere della Bibbia solo ciò che è in accordo con la nostra visione morale, e continuare ad essere ebrei o cristiani? Mi sembra difficile: io, almeno, non vi riuscirei. Meglio mi sembra non parlare più di religioni, e recuperare quel che di buono c’è nelle tradizioni religiose – penso al Discorso della montagna, o al Daridranarayana (Dio sotto forma di povero) dello hinduismo, o alla concezione della “bodhicitta” buddhista – in un’ottica laica. In questa direzione va, in Italia, la riflessione di Luigi Lombardi Vallauri, ed in questa direzione procede il pensiero di Aldo Capitini. Come ho cercato di mostrare studiando lo stesso Capitini, procedere in questa direzione vuol dire superare anche la distinzione tra fede ed ateismo. In sintesi, il meglio che la nonviolenza possa fare è lavorare per la distruzione delle religioni. Ed evitare di trasformarsi in religione essa stessa.
Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sull’educazione?
Questo è un tema molto importante per me. La storia dell’educazione è anche, se non principalmente, una storia di violenze: fisiche, psicologiche, culturali. L’educazione è stata per secoli la prassi sociale che ha mutilato delle creature per farle entrare docilmente nel recinto chiuso d’un ambiente sociale, di contesti spesso estremamente artefatti, privi di libertà, di gioia, di dignità. Ciò non appartiene al passato. Ancora oggi, alla luce del sole e con la convinzione di fare qualcosa di buono, i cosiddetti educatori programmano la loro attività: scrivono prima come vogliono che diventino le persone affidate loro, e specificano addirittura i tempi entro i quali prevedono che quelle persone diventino come loro hanno deciso. Se le cose non vanno come hanno previsto, ricorrono alla punizione. Che ciò sia violenza, non appare immediatamente evidente. Sfugge che nessuno ha il diritto, nemmeno con le migliori intenzioni, di programmare quel che dovrà diventare un altro essere umano.
Siamo talmente abituati a pensare in modo violento l’educazione, che al di fuori di questo progettare la vita altrui ci sembra che non sia possibile alcunché che sia caratterizzabile come educazione. E invece qualcosa c’e’. C’è la creazione, qui ed ora, di situazioni educative. Educare, non far in modo che qualcuno diventi come vogliamo, ma offrire situazioni umane nelle quali le persone possano star bene, crescere, sperimentare, comunicare. Educare vuol dire creare contesti sani. Basta una considerazione anche superficiale delle scuole che abbiamo, per accorgersi del loro devastante carattere diseducativo. Le scuole sono ambienti malati, in cui l’umanità soffre. Nelle chiacchiere infinite sulle riforme scolastiche, il problema reale non è mai stato neppure sfiorato. Si discute di indirizzi, di curricula, di soldi da investire o da risparmiare, di strumenti burocratici. Non si discute delle relazioni umane, della comunicazione, della libertà, della possibilità reale di esprimersi, di creare, di partecipare ad esperienze sociali reali. Quando si scopre che la nostra scuola è tra le peggiori d’Europa, c’è perfino chi chiede più durezza, più severità, più rigore: mentre è evidente, e viene notato anche dagli osservatori internazionali, che il limite strutturale della scuola italiana è la sua rigidità, il suo essere ancora fondata sulla struttura lezione-interrogazione, che non consente alcun apprendimento reale.
Lo sguardo nonviolento sull’educazione consente di superare alcuni miti consolidati, come quello del carattere asimmetrico della relazione educativa, e porta l’attenzione sul tema fondamentale dell’empowerment. Educare nell’ottica nonviolenta vuol dire aiutare le persone ad acquisire coscienza del proprio potere personale e della possibilità di accrescerlo attraverso la collaborazione con altri.
Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sul diritto e le leggi?
Le leggi da sempre sono fatte dai potenti, e spacciate prima per volontà di Dio e poi, quando ciò non è più stato possibile, come espressioni di una presunta volontà generale. Ancora oggi nel nostro parlamento abbiamo solo rappresentanti della classe borghese, eppure si pretende che le leggi valgano per tutti – e che il parlamento sia il parlamento italiano, e non il parlamento della borghesia italiana. Delle leggi fatte da soli rappresentanti della borghesia (per giunta spesso pessimi rappresentanti) non possono incarnare il bene o il giusto; quando accade, accade quasi per caso. Di qui il diritto e anche il dovere della disobbedienza. L’obiezione di coscienza, con la scoperta della fallibilità delle leggi, è una delle grandi conquiste dell’umanità. Comporta tuttavia un rischio, quello di fondare ancora una volta verticalmente la propria obiezione, di ricorrere a Dio per opporsi alle leggi dello Stato – vale a dire opporre ad una verità presunta una Verità indubitabile. C’è, in altri termini, il rischio di agire come detentori della Verità, più che come ricercatori. Ma è un rischio che viene superato agevolmente dalla discussione pubblica che segue all’atto di obiezione di coscienza. La coscienza dell’obiettore va intesa etimologicamente come cum-scientia, sospende l’obbedienza alla legge per aprire una discussione pubblica sul suo valore.
I movimenti nonviolenti presenti in Italia danno sovente un’impressione di marginalità, ininfluenza, inadeguatezza; è cosi’? E perché accade? E come potrebbero migliorare la qualità, la percezione e l’efficacia della loro azione?
L’Italia ha dato alla nonviolenza grandi maestri come Capitini, Dolci, don Milani, Lanza del Vasto, Balducci. Gli anni Cinquanta e Sessanta hanno visto il fiorire di esperienze straordinarie, tra le migliori manifestazioni di civiltà degli ultimi cento anni di vita politica del nostra disgraziato paese. Ma erano esperienze osteggiate in mille modi: Capitini era uno schedato politico, Dolci per i giudici italiani (quelli che applicano le leggi della borghesia italiana) nulla più che un “individuo con spiccata attitudine a delinquere”, don Milani è stato processato. Le forze reazionarie hanno cercato di soffocare sul nascere quelle espressioni di politica autentica. Si direbbe che vi sono riuscite. Ciò che accomuna questi grandi maestri della nonviolenza è la ricerca di strutture alternative a quelle del dominio – potremmo chiamarle contro-strutture. Penso ai Cos ed ai Cor di Capitini ed ai gruppi maieutici ed al Centro per lo sviluppo creativo di Dolci, strutture che si opponevano alla politica partitocratica e clientelare; o alla scuola di Barbiana, che si opponeva alla scuola della borghesia. Mi sembra che nei decenni successivi sia venuta a mancare la capacità di creare queste contro-strutture, di contestare in modo forte il dominio mostrando alternative praticabili. Si è creata una nonviolenza della testimonianza, centrata sulle manifestazioni più che sulle strutture.