Un’altra intervista


Marco Ambrosini e Marco Graziotti: Nella storia del Novecento la nonviolenza ha caratterizzato importanti esperienze, dalle lotte condotte da Gandhi dapprima in Sudafrica e successivamente in India, alle esperienze di resistenza nonviolenta contro il nazifascismo, alle lotte di Martin Luther King contro il razzismo, fino alla lotta di Aung San Suu Kyi. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza alla storia degli ultimi cento anni? 
Antonio Vigilante: In un mio libro su Gandhi ho evocato due immagini: quella dello studente che ferma il carro armato in piazza Tiananmen piazzandosi davanti ad esso, e quella di Rachel Corrie, la pacifista americana che invece è stata travolta da un bulldozer mentre cercava di impedire che gli israeliani distruggessero delle case di palestinesi a Rafah. Chi parla di nonviolenza usa spesso toni trionfalistici, usando espressioni come “forza delle nonviolenza”. C’è anche una certa tendenza a ipotizzare delle leggi della storia, sostenendo che la violenza rivoluzionaria conduce inevitabilmente ad altra violenza, e che solo la nonviolenza può cambiare radicalmente le cose. Io penso che il contributo dei movimenti nonviolenti sia stato e sia straordinario ed indichi al mondo intero una via praticabile, razionale, sensata per affrontare i problemi comuni. Non credo però nella sua infallibilita’, nè nella sua inevitabilita’. La nonviolenza non deve diventare una dogma, né degenerare nella retorica e nello slogan. Ci sono vittorie della nonviolenza, ma anche sconfitte. Un solo esempio: Danilo Dolci riuscì ad ottenere, grazie ad una imponente pressione nonviolenta, la costruzione della diga sullo Jato, un’opera pubblica che considerava indispensabile per affrontare la disoccupazione nelle campagne e combattere la mafia, che si arricchiva con il monopolio delle risorse idriche. Ma la mafia si infiltro’ nell’appalto per la costruzione della diga, e l’acqua della stessa fu adoperata per le necessita’ di Palermo più che per quelle delle campagne. Ancora oggi, a distanza di decenni, la gente della zona lamenta l’abbandono della diga, con la meta’ dell’acqua che si disperde per la mancata manutenzione delle tubature. Non andò meglio la lotta per il riconoscimento dei diritti della popolazione terremotata della Valle del Belice, che vide impegnato Dolci e, in modo anche piu’ radicale, Lorenzo Barbera. Lo Stato oppose al dolore della gente di quella zona una beffarda indifferenza. L’ultima grande iniziativa di Dolci, la creazione del centro educativo di Mirto, non ebbe miglior sorte. Dopo l’inaugurazione, ci si trovo’ di fronte ad un problema strutturale: la strada che conduceva al centro era malmessa, ed attraversava un ponte che rischiava di crollare. I semplici lavori di sistemazione di quella strada si protrassero per un decennio, mandando in crisi il lavoro educativo. Ecco, quel ponticello pericolante – “Il ponte screpolato” è il titolo di un’opera di Dolci – mi sembra una buona immagine per descrivere la situazione della nonviolenza. 
Marco Ambrosini e Marco Graziotti: La riflessione nonviolenta si è intrecciata con varie tradizioni del pensiero politico, ha apportato contributi fondamentali, ed ha costituito e costituisce una delle esperienze maggiori della filosofia politica odierna. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza al pensiero politico? 
Antonio Vigilante: Per come la interpreto io, la nonviolenza è molto prossima all’anarchismo. Vi sono due aspetti della nonviolenza: la sua opposizione alla violenza ed alla guerra come metodo per la soluzione dei conflitti tra paesi o all’interno di uno stesso paese, e la costruzione di una societa’ liberata dalle diverse forme di violenza (fisica, culturale, strutturale). Questo secondo aspetto mi interessa di più, per quanto consideri importantissimo combattere il militarismo e lavorare affinché si diffonda l’idea che dell’esercito è possibile fare a meno, liberando risorse economiche da impiegare per l’istruzione o la sanita’ (come ha fatto il Costarica gia’ nel ‘49). La nonviolenza italiana dà un contributo che considero importante al ripensamento del potere. Per Capitini e Dolci si tratta di passare dal potere-su di pochi (che Dolci chiama dominio) al potere-di, che deve appartenere a tutti. Una societa’ è violenta quando ad alcuni sono concesse possibilita’ che ad altri sono negate; e quando alcuni possono limitare le possibilita’ di altri. Potere è possibilita’ di fare. In una societa’ democratica, tutti possiedono la medesima liberta’ e possibilita’ di fare, di realizzare se stessi, di accedere alle risorse, di essere riconosciuti. Non è questa la societa’ in cui viviamo, democratica solo di nome, ma che di fatto mantiene fortissime disparita’ sociali, e condanna sempre piu’ soggetti all’impotenza. Per cercare il potere di tutti occorrono strutture che siano alternative a quelle gerarchiche, di dominio. Strutture come i Cos di Capitini o i gruppi maieutici di Danilo Dolci, che per il loro valore di opposizione sarebbe meglio chiamare contro-strutture. La sperimentazione di queste contro-strutture, e la riflessione che le accompagna e le fonda, mi sembra il maggior contributo della nonviolenza al pensiero politico. 
Marco Ambrosini e Marco Graziotti: La riflessione nonviolenta si è intrecciata anche con la ricerca e la riflessione sociologica, dando contributi rilevantissimi. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza al pensiero sociologico e alla ricerca sociale? 
Antonio Vigilante: Come ho accennato, sto attualmente lavorando ad uno studio su Danilo Dolci. Per via delle sue grandi inchieste degli anni Cinquanta, Dolci è stato definito un sociologo; non pochi pero’ hanno obiettato che una simile definizione non è del tutto adeguata, perchè un sociologo è uno studioso che cerca di interpretare scientificamente la realta’ sociale, non di cambiarla. Ma è davvero solo questo un sociologo? Quale è il compito delle scienze sociali? La conoscenza è vera solo se si mette al servizio della trasformazione sociale, se aiuta gli uomini e le donne a cercare un mondo migliore. Oltre ad offrire alla riflessione ed all’analisi sociologica nuovi fatti, nuove strutture da considerare, la nonviolenza è caratterizzata, mi sembra, soprattutto da una diversa concezione dell’intellettuale e dello scienziato sociale, che è si’ un tecnico, ma un tecnico al servizio della comunita’, in dialogo con la gente, capace di interpretarne i bisogni e di fornire gli strumenti per esercitare il potere. Lo scienziato sociale ha tre possibilita’: mettersi al servizio di chi comanda, chiudersi nelle universita’ oppure aprirsi alla comunita’ e dialogare con la gente. è emblematico il caso dei pedagogisti. Alcuni si sono messi al servizio del governo e cercano di dare giustificazioni pedagogiche ad una pseudo-riforma che è in realta’ uno smantellamento della scuola pubblica; altri dall’alto delle loro cattedre universitarie lanciano strali tanto polemici quanto sterili, poichè chi governa non riconosce alcuna autorevolezza al sapere ed ai suoi detentori (o presunti detentori) all’interno delle universita’. Ma dove sono i pedagogisti capaci di comunicare con la gente? Perchè non aiutano nei quartieri di periferia, nelle cosiddette zone a rischio, i genitori ed i figli a comprendersi? Perchè non aiutano la comunita’ ad attivare autoanalisi? Perchè non si fanno promotori di cambiamento sociale, invece di limitarsi a scrivere saggi condensando cose lette in altri saggi, senza alcun contatto reale con qualsiasi esperienza realmente educativa? 
Marco Ambrosini e Marco Graziotti: La riflessione e le esperienze nonviolente hanno potentemente investito anche l’economia sia come realta’ strutturale sia come relativo campo del sapere. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza al pensiero economico? 
Antonio Vigilante: C’è oggi un anticapitalismo diffuso, che vede uniti ecologisti, persone di sinistra, femministe, fautori della decrescita, qualche cattolico. I nonviolenti – o gli amici della nonviolenza, per dirla con Capitini – si ritrovano in questo schieramento tanto ampio quanto un po’ vago. Ho l’impressione che in questo campo non vi sia una grande radicalita’. Si pensa che il capitalismo sia il male, ma quanto alle alternative, ci si limita a suggerire il cambiamento di certi aspetti dello stile di vita. Sia chiaro: cambiare alcune abitudini è essenziale, e certo la societa’ e l’economia dipendono anche dalle nostre scelte quotidiane. Ma non è cosi’ che si abbattera’ il capitalismo; e non sono nemmeno sicuro che esso possa implodere da solo, come sostiene Galtung. I maestri della nonviolenza, da Tolstoj a Gandhi ed a Capitini, hanno in comune una visione socialistica, che non è riducibile al marxismo poichè tiene conto anche dei bisogni post-materialistici, ma che nemmeno si puo’ relativizzare e considerare secondaria. Come pensare una societa’ non capitalistica che non sia la replica del totalitarismo comunistico? Rispondere a questa domanda è una delle principali sfide attuali della teoria della nonviolenza. E, ancora, credo che la risposta possa essere cercata esplorando la prossimita’ tra nonviolenza ed anarchismo, una concezione politica che da sempre unisce all’opposizione al capitalismo il rispetto piu’ rigoroso della liberta’ individuale. 
Marco Ambrosini e Marco Graziotti: La teoria-prassi nonviolenta ha recentemente avuto uno svolgimento importantissimo nel campo del diritto e specificamente del diritto penale, con l’esperienza sudafricana della “Commissione per la verita’ e la riconciliazione” e con le numerose altre iniziative e successive teorizzazioni che ad essa si sono ispirate. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza al pensiero giuridico e alla pratica del diritto
Antonio Vigilante: Capitini usava l’espressione “chiudere in un giudizio”, per indicare una pratica irrispettosa della realta’ sempre aperta che è un essere umano. Era uno dei suoi motivi di opposizione alla Chiesa cattolica, poichè non poteva accettare che un qualcuno venisse dannato in eterno – chiuso appunto in un giudizio, senza possibilita’ di cambiamento, di crescita. Pensando la compresenza, Capitini ha cercato di pensare una unita’ intima di tutti coloro che vivono e sono vissuti, aperta e viva nell’esperienza del valore; ed è una unita’ che comprende anche coloro che operano il male. Ci si puo’ chiedere come mai. La risposta è, mi sembra, nel fatto che separarsi da qualcuno, escluderlo, anche in base alla ragione apparentemente ottima che è uno che opera il male, vuol dire essere gia’ nel male. Il bene è essenzialmente inclusivo. Se si condivide questa visione dell’uomo come realta’ costantemente aperta, allora non si puo’ che considerare inaccettabile l’attuale sistema del diritto penale – che, non dimentichiamolo, funziona secondo criteri classisti, se non altro perché le leggi sono fatte da un parlamento nel quale non si trovano che rappresentanti della classe borghese. Di questi tempi la gente, sotto il martellamento televisivo, principale strumento del fascismo di ritorno, si sta incattivendo: si sente ovunque minacciata da criminali (anche se i reati sono in diminuzione da diversi anni); una volta che un criminale vero o presunto finisce in galera, per lui è la morte civile. E spesso non solo civile. Nelle nostre carceri i detenuti si suicidano a decine per via delle condizioni inaccettabili legate al sovraffollamento e ad altre negazioni dei diritti. Una strage silenziosa, invisibile, taciuta dalle televisioni e quindi inesistente. Bisogna lavorare affinché in Italia il detenuto torni ad essere un uomo. Almeno questo. 
(Gennaio 2011)

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