Thich Nhat Hanh con Martin Luther King |
“In qualità di Premio Nobel per la Pace per l’anno 1964, ho il piacere di proporvi il nome di Thich Nhat Hanh per il premio del 1967. Non conosco personalmente nessuno che sia maggiormente meritevole del Premio Nobel per la Pace di questo gentile monaco buddhista del Vietnam”.
Così scrive il 24 gennaio 1967, in una lettera indirizzata al comitato per il Premio Nobel, Martin Luther King, il leader nonviolento dei diritti civili, che sarà ucciso a Memphis l’anno successivo. La proposta non fu accolta: nel 1967 il premio Nobel per la pace non è stato assegnato propri a causa della guerra in Vietnam. Oggi, a distanza di più di quarantacinque anni, la proposta viene ripresa da diversi gruppi in rete, che raccolgono firme per una petizione all’Istituto Nobel.
Ma chi è Thich Nhat Hanh? Un monaco minuto, dai modi estremamente gentili, che riesce con la sua sola presenza a trasmettere un senso di pace e di nobiltà spirituale. Non bisogna lasciarsi tuttavia ingannare dalla semplicità dei modi e dalla modestia della persona: quel piccolo monaco è anche una delle menti migliori del buddhismo contemporaneo, un filosofo che è riuscito a ripensare la millenaria tradizione di pensiero del dharma adattandolo alle esigenze del mondo attuale, un poeta sensibile, un delicato calligrafo. E’, soprattutto, l’uomo capace di attraversare la frontiera per andare a parlare con il nemico, ed insegnargli che non esistono nemici. Durante la guerra nel suo paese Nhat Hanh (semplicemente Thay, maestro, per i suoi discepoli) ha creato la School of Youth Social Service, una rete di attivisti nonviolenti dediti alla ricostruzione dei villaggi distrutti dalla guerra. La sua attività di sostegno sociale, che si poneva al di fuori degli schieramenti in guerra, gli costò l’esilio. Da anni vive in Francia, dove ha creato l’Ordine Tiep Hien (in italiano: Ordine dell’Interessere) e fondato presso Bordeaux Plum Village, un complesso di sette villaggi che accoglie monaci e laici che vogliano dedicarsi alla meditazione.
L’insegnamento di Thay, che appartiene alla tradizione del buddhismo zen, è centrato su una originale interpretazione di uno dei concetti centrali del buddhismo: quello di vacuità (śūnyatā). Tutte le cose, per il buddhismo, sono prive di una identità propria. Nulla è per sé, tutto è composto di altro. Questa concezione, che pare negativa, acquista in Thay una valenza positiva. Se nulla è per sé, allora vuol dire che le cose non sono, ma inter-sono. Di qui l’idea di Interessere, che è la traduzione della vacuità in un linguaggio comprensibile anche per i non buddhisti. Il mondo è una rete di implicazioni, di relazioni, di rimandi. In ogni cosa c’è dell’altro: un foglio di carta contiene, a ben vedere, una nuvola, poiché non esisterebbe senza l’albero, e l’albero senza la pioggia, e la pioggia senza la nuvola. Tutto è relazione. E questo, naturalmente, vale anche per gli esseri umani. Ognuno di noi è in relazione con gli altri, ed anche con coloro che sembrano nostri nemici: perfino con l’assassino. In una poesia Thay parla di una bambina violentata da un pirata (una tragedia tutt’altro che infrequente nel suo paese), e scrive:
Io sono la bambina dodicenne profuga su una barca,
che si getta in mare dopo essere stata violentata da un pirata.
E io sono il pirata, il mio cuore ancora incapace di vedere e di amare.
La consapevolezza dell’interesse porta alla compassione, a conquistare un punto di vista che non è solo quello della vittima, ma anche quello del carnefice; a comprendere che quest’ultimo è tale perché le condizioni di vita lo hanno portato lontano dal bene, ed è lui stesso la prima vittima del suo male. Una convinzione che ha spinto il vietnamita Nhat Hanh a tenere dei corsi per la riabilitazione dei veterani di guerra negli Stati Uniti: ad aiutare, cioè, le stesse persone che hanno massacrato il suo popolo.
E’ grazie a Thich Nhat Hanh se esiste oggi un “buddhismo impegnato”, ossia un buddhismo che non è più soltanto una pratica per la liberazione individuale dalla sofferenza, ma un fronte di lotta politica contro le sofferenze del mondo dovute all’ingiustizia, all’iniqua distribuzione delle risorse, allo sfruttamento, alla violenza. E poiché molte violenze sono dovute proprio alle religioni, il primo dei quattordici principi di base dell’Ordine Tien Hien così recita: “Consapevoli della sofferenza creata dal fanatismo e dall’intolleranza, siamo determinati a non idolatrare né ritenere vincolante alcuna dottrina, teoria o ideologia, neppure quelle buddhiste. Ci impegniamo a considerare gli insegnamenti buddhisti come strumenti che ci guidano e ci aiutano a imparare a guardare in profondità e a sviluppare comprensione e compassione. Non sono dottrine per cui combattere, uccidere o morire”. Non è una concezione nuova, per il buddhismo. Secondo un’immagine usata dal Buddha stesso, la dottrina buddhista non è che una zattera, ossia uno strumento utile. Il buddhista che si attaccasse al buddhismo sarebbe simile a colui che, attraversato il fiume con la zattera, si caricasse la zattera sulle spalle e se la portasse con sé.
Ho avuto modo di partecipare ad una meditazione camminata guidata da Thich Nhat Hanh a Napoli, nel marzo del 2008. L’inusuale corteo partì da piazza del Plebiscito e, con lentezza estrema, si snodò verso via Chiaia, attraversò il traffico, bloccandolo (“abbiate un po’ di compassione buddhistica anche per gli automobilisti”, disse un automobilista) e si concluse in villa comunale, dove uno scugnizzo commentò così la lunghezza del corteo: “Ma questa è una pace infinita”. L’ho chiamato corteo. Ma i cortei si fanno in genere per rivendicare qualcosa, sono manifestazioni in vista di uno scopo. Quel lento camminare nel mezzo della città, tenendosi per mano ed in silenzio, era qualcosa d’altro: la realizzazione, qui ed ora, di una situazione di pace; e la dimostrazione che ovunque – in famiglia, a scuola, nel chiuso di un carcere, nella miseria dei non-luoghi postmoderni – è possibile fermarsi e praticare l’attenzione e la compassione.
Articolo scritto per Stato Quotidiano.