Il poliziotto e l’insegnante

All’età di diciotto anni ho fatto il concorso in Polizia. Ricordo un viaggio in treno di notte, nel corridoio, una mattina al foro romano e un pomeriggio all’hotel Ergife a mettere crocette su un foglio – mi si chiedeva tra l’altro, ricordo, cos’è l’echidna – cercando di non addormentarmi. Lo superai. E per qualche giorno, dunque, mi chiesi se quella non fosse la mia via. Una uscita assolutamente onorevole per uno della mia classe sociale; e del resto il mio professore di musica a lungo aveva cercato di convincermi a lasciare la scuola, evidentemente così poco efficace con me, per fare il poliziotto, un lavoro che, in difetto di qualità intellettuali, avrebbe potuto mettere a buon frutto le mie qualità fisiche.

Decisi di no, alla fine. Avevo cominciato l’università e i primi due esami erano andati molto bene. Forse qualche qualità intellettuale c’era.

Ho ripensato a quel bivio in questi giorni. Alcuni studenti manganellati dai poliziotti in una manifestazione pacifica. Una cosa che ha indignato tutti gli insegnanti. E nei comunicati delle scuole emerge una certa visione della scuola come alternativa radicale alla violenza: il luogo in cui ci si educa al dialogo, alla nonviolenza, al confronto costruttivo, ai valori democratici: eccetera.

Ora, sarà per colpa di quel bivio, ma mi capita spesso di pensare che io e il poliziotto che avrei potuto essere procediamo in parallelo, se non proprio fianco a fianco. È colpa anche, a dire il vero, di Althusser e della sua teoria degli Apparati Ideologici di Stato. Mi capita di chiedermi se, oltre a lavorare entrambi per lo Stato, non si faccia entrambi, in fondo, la stessa cosa: difendere, puntellare, giustificare lo stato di cose esistente. L’assetto sociale, le stratificazioni di classe, le differenze di status, le intermittenze del riconoscimento. Per dirla con Galtung, che è venuto a mancare qualche giorno fa: la violenza strutturale. E, per aggiungere Galtung ad Althusser, siamo sicuri di non avere a che fare, in quanto insegnanti, con quella violenza culturale che giustifica e fonda sia la violenza strutturale che quella fisica?

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La controrivoluzione del merito di Luca Ricolfi

Morta la meritocrazia, ritorna il merito. Si potrebbe sintetizzare così La rivoluzione del merito di Luca Ricolfi (Rizzoli, Milano 2023). La meritocrazia è, per Ricolfi, una ideologia, e come ogni ideologia ha i suoi limiti concettuali e le sue contraddizioni pratiche. Cosa c’è dietro il merito? Almeno tre fattori: l’ambiente socio-economico, la dotazione genetica e lo sforzo personale. Ora, è evidente che i primi due fattori non comportano alcun merito reale e derivano dalla semplice fortuna. Quanto al terzo, si può considerare una qualità non diversa dalle altre, e come le altre indipendente da noi. Alcuni hanno una grande forza di volontà, senza che averla si possa considerare ragione di merito (come non lo è essere belli o intelligenti). In una società organizzata secondo l’ideologia meritocratica ognuno riceve dalla società solo ciò che gli spetta in base ai suoi soli meriti; il problema però è come isolare questo merito individuale da fattori come le doti naturali e l’origine sociale. Per neutralizzare quest’ultima, ad esempio, bisognerebbe imporre un’altissima tassa di successione o, addirittura, togliere ai genitori la responsabilità dell’educazione dei figli affinché tutti, educati dallo Stato, abbiano lo stesso livello culturale di partenza. In altri termini, l’ideologia meritocratica o è irrealizzabile o è realizzabile in società dai netti caratteri distopici.

Per Ricolfi si può e si deve rinunciare alla ideologia del merito senza rinunciare al merito stesso. E si può fare – mossa singolare per un sociologo – ricorrendo al senso comune, per il quale il merito è legato soprattutto allo sforzo individuale. Si tratta dunque di intervenire affinché lo sforzo individuale dei capaci, benché poveri, possa consentire loro di emergere. Ricolfi pone l’enfasi su questo sostegno sociale al percorso di elevazione sociale del povero, più che sul contrasto al vantaggio di chi proviene da un ambiente sociale privilegiato, cosa che gli sembra condurre inevitabilmente alla distopia. Leggi tutto “La controrivoluzione del merito di Luca Ricolfi”

La tombola a scuola (e Manzoni)

Per qualcuno è solo uno sgradevole ricordo d’infanzia. Per altri rappresenta ancora una minaccia, un tassello nel quadro depressivo delle feste comandate. Non so chi abbia inventato la tombola. Un nemico dell’umanità, immagino. Qualcuno che, infastidito da qualunque espressione di vivacità umana, si sia prefisso lo scopo di instaurare uno stato di placida noia, di quieta indifferenza, di apatico trasognamento; una esperienza priva anche della sfumatura mistica, o pseudo-mistica, del rosario.

Succede, a scuola, di accorgersi che si sta facendo – non ce la faccio a scrivere: giocando a – tombola. D’un colpo fissi lo sguardo su uno studente, poi sulla sua compagna di banco, ed ecco: l’espressione vuota della catatonia da tombola. Ma non è, dirà qualcuno, semplicemente la condizione normale a scuola? La scuola non è una disperante, accanita, pluriennale tombola?

Per quanto sia molto critico verso la scuola, non me la sento di dirlo. Non tutto è tombola. Accadono momenti di conoscenza, perfino a scuola. Accadono momenti di comunicazione profonda. Perfino di educazione comune. E tuttavia la tombola c’è. E tutto spinge verso di essa, a cominciare dalla folle asetticità – no: squallore – dell’ambiente, dal bianco dei muri, appena richiamato a qualche utilità dalla scritta “Giulia ti amo”. Leggi tutto “La tombola a scuola (e Manzoni)”

Re-istituire la scuola

Gustav Igler, On the Eselbank

Ivana Margarese mi ha intervistato per “Morel. Voci dall’isola”. È il secondo tassello di una indagine sulla scuola avviata con una conversazione con Sabina Minuto.

Cosa significa per te essere un insegnante oggi?

Vuol dire porsi la domanda, in primo luogo. E vuol dire porsela insieme: ai propri studenti e ai propri colleghi. Cosa facciamo tutti, chiusi in un’aula, un giorno dopo l’altro? Perché veniamo qui? Perché stare in un’aula è meglio che star fuori a fare altro?
La scuola è immediatamente percepita come una cosa buona. Dove non c’è si esige che vi sia. Dove c’è delinquenza, dove c’è mafia, si propone di fare più scuola.
“La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”, diceva Gesualdo Bufalino. La scuola è un bene attraverso il quale ci si propone di combattere tutti o quasi i mali sociali.
Quando si mette piede in un’aula scolastica le cose appaiono in tutt’altra luce. Non c’è un mondo in ansiosa attesa della redenzione attraverso l’istruzione. C’è invece spesso un mondo che si ribella all’istruzione, rifiuta il ruolo del docente e non riconosce l’istituzione. Ed è quello che accade nelle aree cosiddette a rischio, nelle periferie, nei luoghi in cui si fanno più manifeste, e dolorose, le contraddizioni di una società nella quale le disuguaglianze sono venute crescendo negli anni, e non per qualche fatalità, ma per una precisa scelta politica.
Ma queste, certo, sono situazioni estreme. La normalità è un’altra. La normalità è trovare classi nelle quali gli studenti sono scolarizzati: riconoscono l’importanza della scuola, dello studio, dell’affermazione sociale, e dunque il ruolo del docente. Il quale però, se è appena attento, si accorgerà che l’istituzione piega e comprime spesso in quella condizione che Tolstoj chiamava “stato scolastico dell’anima” o, nella migliore delle ipotesi, fa adagiare lo studente in una sorta di meccanicismo che lo porta, da bravo operaio, a fare tutto ciò che il sistema richiede per conquistarsi la paga del voto.
Insomma: insegnare vuol dire fare i conti con la mancanza di senso. È evidente che la scuola, nonostante le aspettative che la società ancora ripone in essa, è una istituzione in crisi. Ma non lo è per qualche deviazione sociale che ci ha portati a non riconoscere più le buone cose di un tempo, come l’autorità del docente e il valore dello studio. Lo è perché è una istituzione che sconta antiche fragilità strutturali: prima fra tutte quella che le viene dall’essere fondata su relazioni verticali, e dunque inautentiche.
Insegnare con qualche consapevolezza vuol dire, oggi, sapersi fermare. Rendersi conto che il nonsenso, non tematizzato, cresce giorno dopo giorno e sfocia in un malessere sempre più profondo e sempre più difficile da affrontare. Un malessere che vediamo sui volti e nei corpi dei nostri studenti, ma che aleggia anche nelle sale docenti, si insinua nei discorsi preconfezionati tra colleghi, sboccia in un sospiro improvviso, eppure da tutti immediatamente compreso.
Come in una relazione malata è importante fermarsi a parlare della relazione, così a scuola è importante oggi fare metascuola: ragionare – ripeto: con gli studenti e i docenti; meglio ancora se tutti insieme – sulla scuola. Pensarla nuovamente insieme. Re-istituirla.

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Progettazione didattica condivisa

La scuola è una istituzione: che vuol dire, tra l’altro, un ambiente in cui si entra e si trova una routine già pronta. I docenti insegnano, gli studenti studiano. Nessuno mette in discussione come si insegna e come si studia.

Questa proposta, rivolta alla mia quarta del prossimo anno, prevede che all’inizio dell’anno scolastico ci si fermi per decidere insieme cosa studiare, come farlo e come valutare. Che si progetti insieme il lavoro, stabilendo insieme metodi, contenuti, pratiche.

Questa è una bozza. Ogni contributo critico è ben accetto.

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Come insegnare filosofia

Prendete il manuale di filosofia. Apritelo. Toccate la carta. Saggiatene la consistenza. Si chiama grammatura. Ora fate una ricerca su quella carta. Che tipo di carta è, dove viene prodotta e come e quanto guadagnano gli operai che la producono.

Tornate al libro di testo. Guardate nel colophon dove è stato stampato. Non sapete cos’è un colophon? Ve lo dico io. Dopo però chiamate la tipografia e chiedete come viene stampato il libro. Le tecniche, i diversi compiti e quanto guadagnano gli operai.

Poi tornate al libro. Vedete che c’è un editore. Cercate informazioni sull’editore. Poi contattatelo. Chiedete come funziona il lavoro di un editore, chi fa cosa e quanto guadagna.

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