Il Regno di Dio è in voi

Per me, come per molti (Gandhi tra questi), Il Regno di Dio è in voi di Tolstoj è uno dei libri da portare con sé nelle diverse stagioni della vita, uno di quei libri che invecchiano con noi e che portano i segni di molteplici, spesso sofferte letture.

Invecchiata con me è la vecchia edizione Manca (1991), dalla copertina rossa e un Tolstoj accigliato in copertina, con all’interno il biglietto da visita di Ornella Pompeo Faracovi, che non è più tra noi (che è nella compresenza, direbbe Capitini). Mi pareva che non vi fossero a disposizione altre edizioni e per questo ho pensato di ordinare i miei appunti di (ri)lettura e farne una nuova edizione con mia introduzione. Mi sembrava urgente rimettere in circolazione in un periodo di grave crisi della nonviolenza un libro che è oggi più attuale che mai, per l’analisi implacabile, impietosa del sistema di dominio politico-religioso della Russia zarista, che non è troppo diverso dal sistema fascista della Russia di Putin.

Il libro è ora disponibile in cartaceo e digitale nell’ambito del mio progetto libertario endehors. Ho detto che credevo che l’ultima edizione fosse quella di Manca del ’91. Vedo che è uscita intanto anche una edizione, sia cartacea che elettronica, presso l’editore goWare, con introduzione di Stefano Garzonio e uno scritto di Giuliano Procacci. Scegliete l’edizione che preferite: ma leggetelo.

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Peppe Sini, la nonviolenza e l’anello debole

Peppe Sini replica al mio La nonviolenza si è fermata, su “MicroMega”, protestando. Nel mio articolo ho scritto che lui, Sini, nell’intervento che ho preso in esame e da cui sono partito per ragionare della nonviolenza italiana, “evita accuratamente di parlare di Putin”. No, protesta Sini, questo non è vero. Perché già nella terza riga ha scritto che occorre “continuare a denunciare la criminale follia di chi la guerra ha scatenato”. Il problema è, appunto, che parla di chi la guerra ha scatenato, ma non fa il nome di Putin. Come se solo nominarlo fosse difficile. Mentre poco dopo dice:

Con l’azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei di mettere il veto ad ogni iniziativa della Nato, l’organizzazione terrorista e stragista di cui i nostri paesi tragicamente fanno parte: paralizzare immediatamente i criminali della Nato occorre, e successivamente procedere allo scioglimento della scellerata organizzazione.

La Nato dunque è scellerata, terrorista e stragista. Perché mai un lettore non dovrebbe pensare che è questa organizzazione criminale, nell’analisi di Sini, ad aver scatenato la guerra?

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Un anno di guerra

Un anno dopo l’inizio della guerra in Ucraina sono evidenti la catastrofe della Russia e la bancarotta del pacifismo.

Un anno di guerra contro l’Ucraina. Trecentosessantacinque giorni di stragi, distruzioni, sequestri di bambini ed altre atrocità. Un anno insanguinato per l’Europa e il mondo. Più di un secolo indietro per la Russia. Perché il danno che criminali come Putin e Kirill stanno facendo alla Russia è di gran lunga maggiore del danno che stanno facendo all’Ucraina.

Più di cento anni indietro. L’impressione è che la Russia, non riuscendo a fare i conti con il suo passato comunista, abbia deciso semplicemente di rimuoverlo. E di tornare, dunque, a quello che c’era prima. Seguendo il dibattito attuale in Russia – che ha, soprattutto nelle televisioni, tratti di vera e propria follia di massa – l’impressione è di ritrovarsi catapultati nella Russia di Dostoevskij. E di sentir parlare il suo idiota, quel principe Myskin che affermava: ’Bisogna che il nostro Cristo risplenda a difesa contro l’Occidente, un Cristo che noi abbiamo conservato e che loro non conoscono!” Il Cristianesimo ortodosso, la santità e la purezza della Russia contrapposti spiritualmente alla corruzione che viene dall’Occidente. Una spiritualità che naturalmente è destinata a degenerare nella più atroce violenza. Leggi tutto “Un anno di guerra”

Non c’è pace senza giustizia. Lettera aperta al Movimento Nonviolento

Carissimi,

come per molti della mia generazione, il 1989 fu per me un anno di profonda sofferenza: quella sofferenza che prelude al cambiamento. Le mie inquietudini adolescenziali avevano trovato un punto di equilibrio nel comunismo. Come era giusto che fosse: ero un ragazzino proletario, osservavo la società dal basso (letteralmente: vivevo in un basso), e avevo un bel po’ di rabbia. Ora scoprivo che l’alternativa comunista era fragile, anzi peggio: violenta. Avrei potuto, dovuto capirlo prima, ma ero un ragazzino di provincia, che appena allora si affacciava al mondo; ed altri, del resto, quella consapevolezza non l’hanno ancora raggiunta, a distanza di decenni.

Cosa c’è dopo il comunismo? Quale strada prendere? È stata la mia domanda pressante degli anni dell’Università. Cui ho dato due risposte. La prima era, ed è, l’anarchismo. Che non vuol dire buttare giù lo Stato o crogiolarsi in un ribellismo adolescenziale, ma essere consapevoli che nessun cambiamento sociale reale può giungere dai partiti e che bisogna lavorare nella società stessa, a livello di microfisica del potere, per dirla con Foucault: agire sulle relazioni di classe, ma anche su quelle interpersonali, di genere, generazionali. Cercare ovunque di passare dall’asimmetria del dominio alla pratica dell’uguaglianza. L’altra risposta era la nonviolenza. Che per me all’anarchismo era ed è intimamente legata. Se la società che abbiamo è violenta, contestarla, contrastarla, cercare una alternativa vuol dire rifiutare la violenza, cosa che implica anche il rigetto del mito di una soluzione violenta delle contraddizioni sociali.

Con queste idee è maturata la mia scelta dell’obiezione di coscienza. Ho letto Capitini, Gandhi, Lanza del Vasto, Danilo Dolci. Poi sono passato dalla semplice lettura allo studio sistematico. Ho pubblicato qualche libro: e sono cresciute in me le domande. Studiando Gandhi, ho cercato di mostrare il fondo magico del suo pensiero, il modo irrazionale in cui affronta il nodo centrale della nonviolenza, quello dell’efficacia. E come alternativa ho proposto – per lo più a me stesso – una nonviolenza disincantata, senza miti, individualistica e laica.

Tra le cose che ho imparato, in questi anni, è che non è bene affezionarsi troppo ai sistemi di idee. Cominciamo a riflettere perché abbiamo domande e problemi da risolvere. Nell’ansia di rispondere aderiamo a un sistema: diventiamo comunisti, anarchici, nonviolenti, o altro. Costruiamo la nostra identità all’interno di questi sistemi di idee. E alla fine la sola idea di abbandonarli ci provoca angoscia. Quei sistemi di idee, che erano un mezzo per rispondere ad alcune domande, diventano un fine. Vanno difesi di per sé, ad ogni costo. Difendendoli, difendiamo noi stessi, il nostro bisogno di essere qualcosa o qualcuno.

Ecco, in questo 2022 credo che dovrò liberarmi dell’abito della nonviolenza, come nel 1989 mi liberai di quello del comunismo. Continuerò a leggere e ad amare Gandhi, Danilo Dolci, e soprattutto Capitini, senza considerarmi nonviolento o amico della nonviolenza, esattamente come leggo ed amo Gramsci senza considerarmi comunista.

Ho letto, in questi giorni così difficili, molti slogan. Nel testo della vostra campagna Obiezione di coscienza alla guerra, ad esempio, leggo: “Per fermare la guerra bisogna non farla. Per cessare il fuoco bisogna non sparare”. È una uscita che offende l’intelligenza, come tante altre che è toccato leggere; e il fatto che a scrivere simili idiozie siano spesso persone di cui apprezzo da sempre l’intelligenza e la cultura è per me un segno chiaro del fatto che ci si aggrappa disperatamente a un sistema di idee, anche a costo di sacrificare la propria intelligenza e il senso critico.

C’è uno slogan che invece mi pare di non aver letto, in questi giorni. È qualcosa di più di uno slogan, a dire il vero. Mi pare l’essenza stessa della nonviolenza. Dice che “la pace è frutto della giustizia”. Opus iustitiae pax. L’origine è Isaia, 32, 17 (וְהָיָה מַעֲשֵׂה הַצְּדָקָה, שָׁלוֹם), dove però il verbo è al futuro: sarà la giustizia a fare la pace.

Io non so davvero quale idea di giustizia abbiate voi. A me pare evidente che il primo di tutti i diritti sia, per dirla con Victor Jara, quello di vivere in pace. Ed derecho de vivir en paz. Jara è stato vittima, insieme a Salvador Allende e a innumerevoli altri cileni, dell’imperialismo americano. Schifoso, schifosissimo. Come schifoso, schifosissimo è oggi l’imperialismo di Putin. La base della nonviolenza italiana è l’antifascismo. Come è possibile non accorgersi, oggi, che Putin è fascista? Come è possibile essere così distratti, da non vedere quello che è scritto nero su bianco, ad esempio nei libri di Dugin? Nel putinismo tornano a galla tutti gli elementi del nazifascismo che credevamo di aver espulso dalla storia: il rigetto del mondo moderno di Julius Evola, il tradizionalismo religioso e l’esaltazione del Medioevo, il principio di gerarchia e il culto della violenza; e ai deliri esoterici del nazismo corrispondono i deliri della nuova cronologia di Fomenko.

Sarei felice se gli ucraini scegliessero la via della nonviolenza. Non posso avere però la certezza che questa scelta consentirebbe al Paese di mantenere la propria libertà ed indipendenza. Non credo in Dio, non ho la fede nella Provvidenza; anche se fossi credente, del resto, rifletterei sul silenzio di Dio ad Auschwitz. Né credo che esistano leggi della storia. Nella storia può succedere di tutto, compreso il ritorno del nazismo. Soprattutto, non ho alcun diritto di criticare la resistenza armata degli ucraini. Perché non ci sono io, sotto le bombe, né la mia famiglia, né mio figlio; e so con assoluta certezza che per difendere la vita di mio figlio potrei uccidere. Il diritto di difendersi quando si è aggrediti è un diritto naturale che nemmeno Gandhi si è mai sognato di negare. Proponeva l’alternativa nonviolenta, ma preferiva di gran lunga un popolo che resiste in armi a un popolo che accetta l’oppressione senza reagire.

La questione centrale, oggi come ieri, è quella dell’efficacia. Che è anche la questione che separa e distingue il pacifismo dalla nonviolenza. Il pacifismo afferma il valore della pace e condanna la guerra. La nonviolenza va oltre: cerca mezzi efficaci per perseguire obiettivi politici. Ora, è evidente che non esistono, al momento, alternative efficaci alla resistenza armata in Ucraina. Mi spiace dirvelo, ma il vostro comunicato con il quale annunciate “due iniziative concrete” quali la citata campagna di obiezione alla guerra e “la presenza domenicale all’Angelus in Piazza San Pietro a Roma”, concludendo poi, soddisfatti, con un becero “fatti, non parole”, mi ha strappato un sorriso amaro. Mi è tornata in mente una citazione di Günther Anders che trovai in un libro di Christoph Türcke letto negli anni Novanta. Türcke contestava la convinzione che marciare per la pace significhi davvero fare qualcosa per la pace: “atteggiamento che ha dato occasione a Günther Anders di rilevare come, per quel che lo riguarda, stare in silenzio o mangiare ininterrottamente panini al prosciutto sia in sostanza la stessa cosa” (Violenza e tabù, Garzanti, Milano 1991, pp. 28-9). Non ero d’accordo, allora, né lo sono ora, ma davvero iniziative concrete come assistere all’Angelus non mi sembrano troppo diverse dal mangiare panini. (Peraltro, e per inciso, la scelta di far portare la croce ad una donna ucraina e ad una donna russa durante la Via Crucis rivela una strana concezione della riconciliazione. Che è cosa complessa e difficile, e richiede, intanto, che il conflitto sia terminato e che l’aggressore abbia ammesso le sue colpe e chieda perdono all’aggredito. Riconciliare simbolicamente aggressore ed aggredito mentre l’aggressione è ancora in corso è un insulto alla vittima.)

Non sono d’accordo con Türcke perché mi pare che trascuri una cosa che era invece chiara già a Tolstoj: il potere dell’opinione pubblica. Che è un potere esposto ad ogni manipolazione, e tuttavia resta un potere reale. Non è un caso che Putin investa molto, e da tanti anni, nella disinformazione e nella diffusione di fake news, così come non è un caso che la Cina operi nella direzione del soft power. So che un vasto movimento di opinione può non fermare la guerra, ma di certo ostacola i piani dell’aggressore.

Sono consapevole che non si può chiedere al piccolo Movimento Nonviolento italiano di risolvere la crisi ucraina. Ma questo potrebbe farlo: andare in piazza a dire che ci sono un aggressore e un aggredito e che l’aggressore deve cessare la sua violenza. Senza nessuna ambiguità. Basterebbe questo, davvero. Che è quello che i nonviolenti hanno fatto ieri, quando l’aggressore erano gli USA. Oggi che ad aggredire è la Russia, si invoca una complessità che è in realtà la desolante semplificazione di chi legge la storia del secondo decennio del terzo millennio con le categorie geopolitiche degli anni Novanta del secolo scorso. Basterebbe esprimere la propria condanna morale dell’aggressore, invece di una generica condanna della guerra, che mette vergognosamente sullo stesso piano l’occupazione, il massacro di civili, gli stupri e la disperata difesa degli ucraini.

Non invidio le granitiche certezze ostentate in questi giorni dagli amici nonviolenti (o dagli amici della nonviolenza). Satyagraha, lo sappiamo, è forza della Verità. Ma il termine agraha (आग्रह) in sanscrito ha diverse sfumature: indica una forte adesione a qualcosa, la fermezza, la determinazione, ma anche l’ostinazione ottusa. La nonviolenza è esposta a questo rischio: essere la fanatica adesione a una costellazione di valori e di idee che si considerano come Verità, con la maiuscola, e che in quanto tali sono sottratti a qualsiasi discussione critica. Con il risultato che quella complessità che si invoca nella considerazione di un fatto storico viene poi rigettata con sdegno quando riguarda la nonviolenza stessa e la sua storia (non è complessa anche la storia della liberazione dell’India dal dominio inglese?). Un movimento che si ritiene detentore della Verità e che è incapace di qualsiasi autocritica, un movimento che non può essere messo in crisi da nulla, non è un movimento politico: è religione. E non sono sicuro che ci sia bisogno di aggiungere alle tante religioni prodotte dalla bizzarra fantasia umana anche la religione della nonviolenza.

La prassi che manca

La nonviolenza è prassi. Non è una teoria o un insieme di considerazioni edificanti sulla bellezza della pace, dell’amore, dell’armonia. È una via alternativa alla guerra per combattere l’ingiustizia e la sopraffazione. Questo vuol dire che, come la guerra, la sua validità va considerata concretamente: o è efficace, almeno in qualche misura, o non è. Una semplice rivendicazione dei valori della pace, senza alcuna indicazione concreta dei modi per ottenerla, è pacifismo, non nonviolenza.

Ho letto in questi giorni tutto, credo, ciò che hanno scritto sulla guerra in Ucraina i protagonisti della nonviolenza italiana. Alcuni di loro li considero compagni di strada, persone dalle quali ho imparato e imparo molto ogni giorno. In questo caso, ho però l’impressione di una crisi profonda, che non si ha il coraggio di confessare nemmeno a sé stessi. Perché leggo e rileggo, ma non trovo la cosa fondamentale: la prassi. O meglio: una prassi credibile. Trovo invece pratiche ipotetiche per soggetti evanescenti.

Ieri è comparso sul Fatto Quotidiano un articolo di Pasquale Pugliese, del Movimento Nonviolento, e Giorgio Beretta, della Rete Italiana Pace Disarmo, il cui titolo lascia ben sperare: Ucraina, etica della responsabilità e nonviolenza: ecco cosa fare di fronte alla crisi. E invece è emblematico della crisi di cui dicevo. Dopo aver stigmatizzato il pacifismo, che protesta contro la guerre “senza la costruzione per tempo di alternative credibili e praticabili”, gli autori spiegano che la nonviolenza è, appunto, la ricerca di queste alternative. E tuttavia, incredibilmente, alla questione concreta di cosa fare in Ucraina dedicano una decina di righe in conclusione. Nulla più. Una decina di righe nelle quali avanzano due proposte. La prima è: “sostenere attivamente tutti coloro che – all’interno dei due fronti contrapposti – si muovono con l’etica della responsabilità e la forza della nonviolenza: gli obiettori di coscienza, i disertori, i resistenti alla guerra e i dissidenti alla logica bellica i quali stanno pagando in prima persona e a caro prezzo le loro azioni”. La seconda è “imparare da questi errori e intraprendere già da oggi la strada del disarmo e della nonviolenza anziché una nuova folle corsa agli armamenti”. Partiamo da questo secondo punto. Non si tratta, è chiaro, di una proposta per aiutare l’Ucraina. Ma soprattutto, chi considerasse quello che sta accadendo ne trarrebbe le conclusioni esattamente opposte. L’Ucraina ha consegnato nel ‘94 tutto il suo arsenale di armi atomiche alla Russia, ottenendone in cambio l’impegno di non aggressione. Non aiutare oggi l’Ucraina significa una cosa precisa: che ogni Paese, se non vuole condividerne la sorte, farà bene a dotarsi si armi nucleari, in modo da dissuadere eventuali aggressioni; e che il disarmo nucleare è una ingenuità che viene pagata cara.

Quanto alla prima proposta, è da discutere in primo luogo l’equiparazione dei disertori dei due schieramenti. Siamo cresciuti con la retorica del disertore, che aveva qualche senso perché nel nostro immaginario il disertore era chi rifiuta una guerra di aggressore. Abbiamo cantato tutti Le déserteur di Boris Vian, nella versione di Ivano Fossati. “E a tutti griderò / di non partire più / e di non obbedire / per andare a morire / per non importa chi.” Al tempo stesso, cantavamo Bella ciao ed esaltavamo la lotta partigiana. A molti non piace che si paragoni la resistenza ucraina a quella italiana. A me sfugge la ragione, ma non è questo il punto. Di fatto, mettendo insieme i disertori ucraini e quelli russi Pugliese e Beretta stanno dicendo che le due cose, l’aggressione e la resistenza, sono la stessa cosa. E questo è falso, e direi anche eticamente inaccettabile. No, non sono la stessa cosa.

Ma consideriamo i soli obiettori di coscienza e disertori ucraini. Pugliese e Beretta sanno bene, immagino, quale sia la situazione dell’obiezione di coscienza in Russia. Il rapporto 2021 dell’European Bureau for Conscientious Objection, uscito proprio in questi giorni, denuncia la repressione di organizzazioni come Citizen Army Law, accusata di essere agente straniero, e Soldiers’ Mothers, soppressa 1; è appena il caso di ricordare la chiusura da parte di Putin di Memorial, la più importante organizzazione russa per i diritti umani. Sarebbe molto bello se vi fosse in Russia un rifiuto di massa del servizio militare, anche considerate le terribili condizioni dei militari sovietici, documentate da Anna Politkovskaja in La Russia di Putin (Adelphi); ma questo movimento non c’è. Allo stato attuale, non c’è nessuna speranza che il movimento degli obiettori russi, gravemente perseguitato, possa essere efficace per far cessare la guerra o anche solo per ostacolarla.

Che fare, dunque? Rispondere onestamente a questa domanda non vuol dire immaginare una prassi ipotetica. Se Zelensky ordinasse di arrendersi e avviasse una campagna di resistenza nonviolenta e di disobbedienza civile, forse nel lungo periodo la Russia sarebbe costretta a riconoscere nuovamente la libertà e l’autonomia dell’Ucraina. Forse. Ma può anche essere che questa stessa resistenza sia repressa nel sangue, o che si logori con il tempo. La storia è il campo della complessità, e usare il paradigma della resistenza gandhiana agli inglesi, considerandolo valido per ogni contesto e per ogni epoca, è una semplificazione. Soprattutto, quel se è null’altro che fantasticheria. Chiedersi cosa fare in Ucraina significa indicare soggetti e prassi concrete. A me pare che manchino sia i primi che le seconde. Sarei molto felice se qualcuno mi dimostrasse che non così.

[1]  European Bureau for Conscientious Objection, Annual Report Conscientious Objection to Military Service in Europe 2021, Brussels, 21 march 2022, pp. 52-54.

Quale alternativa nonviolenta?

Luigi Manconi, che solo qualche settimana fa era a sinistra l’alternativa etica alla oscena candidatura di Silvio Berlusconi alla presidenza della Repubblica, è ora al centro delle polemiche per aver sostenuto su Repubblica (Perché la resistenza armata è etica, 8 marzo 2021) il diritto di resistenza del popolo ucraino, per giunta evocando la resistenza italiana. A stretto giro di posta è arrivata la reazione di Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento, e di Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi.

Valpiana comincia il suo intervento citando Gandhi: “la causa della libertà diventa una beffa se il prezzo che si deve pagare per la sua vittoria è la completa distruzione di coloro che devono godere della libertà”. Da studioso di Gandhi, non cito mai un testo senza la precisa indicazione della fonte. Questo perché quella gandhiana è una riflessione in situazione, che si sviluppa in costante rapporto con gli eventi storici, dai quali non può essere astratta. Ma si tratta anche di una riflessione che prende le mosse da alcuni principi di base, ben chiari e piuttosto stabili nel tempo. Uno dei quali è che occorre lottare contro l’oppressione. Senza questo principio la nonviolenza gandhiana semplicemente non sarebbe nata. Gandhi avrebbe accettato in Sudafrica la condizione cui erano ridotti gli indiani e in India la sottomissione agli inglesi. Il passo citato da Valpiana sembra dire il contrario. Sembra dire che è meglio sottomettersi, arrendersi, accettare l’oppressione, pur di salvare vite umane. Non è questo il pensiero gandhiano. È chiaro che possono esserci situazioni nelle quali il prezzo da pagare per la libertà è troppo alto. Ma è una cosa che occorre valutare caso per caso; e per questo sono fondamentali il contesto storico e il preciso riferimento di quella affermazione.

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