La “logica” del leghista foggiano

Il signor Joseph Splendido lamenta la presunta omissione della nazionalità degli autori di reati sulla stampa locale e nazionale. “Perché nasconderlo quando si tratta di uno straniero a delinquere?” La risposta non è difficile, ed è sulla sua stessa pagina Facebook. Solo due giorni fa il leghista foggiano ha pubblicato la notizia di una rapina compiuta da una banca da una persona di etnia Rom. I suoi amici hanno prontamente commentato che “gli zingari sono la feccia della società” e che “la razza piu [sic] inaffidabile e [sic] quella dei rom: zingari si vendono anche le madri ma di che cosa stiamo parlando non ce [sic] gente piu [sic] bastarda”. Quando, nel novembre dello scorso anno, un incendio ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, sulla pagina del signor Splendido ho letto, con le lacrime agli occhi e vergognandomi profondamente per loro, questi commenti dei suoi amici: “Speriamo che bruciano anche loro”; “Io vi bruciavo vivi”; “Finalmente“; “Fate la pipì sopra così sapete dove andarla a fare”. Il signor Splendido non ha censurato nessuna di queste bestialità, che peraltro configurano il reato di istigazione all’odio razziale.
In sostanza il signor Splendido lamenta la mancanza di frattaglie sanguinanti da dare in pasto al suo branco di cani. Una lamentela ipocrita, perché Splendido sa bene che nell’Italia salviniana non si perde occasione, anche sui giornali, per dare addosso agli stranieri. Da leghista foggiano – chissà cosa si prova ad essere un ossimoro vivente – dovrebbe però riflettere su una cosa. Io vivo da cinque anni in un paesino sui colli della Montagnola senese. Poco più di duemila e cinquecento anime. Il tasso di stranieri è dell’11,50% circa, quasi tre volte quello di Foggia (4%). Ai quali bisogna aggiungere i numerosissimi immigrati meridionali, soprattutto siciliani, impegnati nel settore edilizio. Nel paese non si hanno notizie di reati compiuti da immigrati. Li trovo al mattino nel bus delle 7.25 che ci porta al lavoro a Siena. Da quando viviamo qui io e la mia compagna abbiamo una percezione di sicurezza tale da lasciare senza problemi le buste della spesa incustodite. E tuttavia nemmeno qui è il paradiso. Undici anni fa, nel 2008, c’è stata una rapina a mano armata in una gioielleria del paese, che finì con l’uccisione di uno dei rapinatori. Era una banda di napoletani. Due anni fa un’altra rapina, questa volta in banca. Il rapinatore, arrestato, era un pugliese residente a Grosseto, che durante le rapine fingeva di essere marocchino. Pugliese era anche l’autore di diverse rapine tra Siena e San Gimignano, compiute tra il 2015 e il 2016; un cerignolano nel 2016 ha fatto una rapina a Colle Val d’Elsa con pistole e kalashnikov, mentre era foggiano l’autore di una rapina del 2015 a Stacciano Scalo. Potrei continuare a lungo.
Una parte significativa degli atti di delinquenza nella zona in cui vivo sono compiuti da persone meridionali, molte delle quali pugliesi. Seguendo la logica del signor Splendido, i giornali dovrebbero enfatizzare la provenienza dei delinquenti. Quindi io al mattino, andando a scuola, ai Banchi di sopra dovrei imbattermi nello strillo della “Nazione”: “Foggiano assalta banca con kalashnikov”. E poi, una volta entrato in classe, affrontare gli sguardi sospettosi degli studenti.
Ecco: quando si chiede che venga sbattuta in prima pagina la provenienza di chi compie un reato, bisognerebbe ricordarsi che i foggiani continuano ad essere emigranti. E che alcuni di loro compiono reati esattamente come gli extracomunitari. E che la logica razzista per la quale se uno sbaglia sbagliano tutti – che nel caso degli extracomunitari giunge a picchi di follia pura: un etiope in quanto extracomunitario è corresponsabile di quello che ha fatto un ghanese, anche se Etiopia e Ghana sono due paesi lontanissimi – è una logica che, se applicata a noi stessi, ci porterebbe ad essere additati in molti luoghi come delinquenti della peggior specie, pur essendo persone perbene.
Ma forse sto pensando male del signor Splendido. E forse i suoi amici sono raffinati analisti sociali, che si nascondono dietro espressioni colorite perché di questi tempi fare gli intellettuali non va di moda. Forse il signor Splendido vuole che i giornalisti diano la possibilità ai lettori di ragionare sui rapporti tra reati e provenienza. In questo caso, insegnando sociologia, mi permetto di anticipare le conclusioni. Non esistono etnie peggiori di altre. Non esistono persone predisposte al crimine per il colore della pelle o per la provenienza. Non esistono dna criminali, nemmeno in senso culturale. Esistono le classi sociali e le dinamiche di classe. Esistono quelli in giacca e cravatta (benché spesso travestiti con le felpe) che ha i loro reati: ad esempio rubare allo Stato, ossia a tutti noi, quarantanove milioni di euro. Esistono poi i proletari ed i sottoproletari, che hanno reati diversi: più visibili, anche se spesso meno gravi. Ed esistono poi i sotto-sottoproletari. Sono gli equivalenti italiani dei paria indiani: persone letteralmente intoccabili come i rom o gli schiavi neri delle campagne foggiane, gente che subisce quotidianamente una impressionante disumanizzazione, persone spinte ai margini dell’umano, destinatari di una considerazione e di una cura di gran lunga inferiore a quella che ottengono i cani. Anche loro compiono reati. Non sono più gravi di quelli compiuti dalla gente in giacca e cravatta, né di quelli dei proletari. Sono reati dettati dalla disperazione, dall’esclusione sociale, dall’essere non più esseri umani, ma extracomunitari, clandestini, esseri sospesi tra l’umano e l’inumano, tra la vita e la morte. La responsabilità di questi reati, quali essi siano, è tutta sulle spalle di chi, piuttosto di lavorare per restituire a tutti dignità, riconoscimento e possibilità di vita, capitalizza l’odio sociale e razziale per il proprio vergognoso tornaconto elettorale.

L’Attacco, 26 giugno 2019.

Elogio della dismorfofobia

“Timore ossessivo d’essere o di diventare brutti, asimmetrici, deformi. Colpisce quasi esclusivamente giovinette di fattezze belle e regolarissime”, dice l’Enciclopedia Treccani. La parola viene dal greco: paura del brutto. Dismorfofobia. A dire il vero, più che di bruttezza in senso stretto si tratta di una difficoltà di venire a patti con la propria immagine. Non riconoscersi, e per questo, sì, trovarsi brutti. Non so quanto sia vera l’affermazione che il problema colpisce quasi esclusivamente belle ragazze. Non vedo per quale ragione dovrebbe soffrirne una ragazza bella più di una poco bella. E soprattutto perché dovrebbe soffrirne una donna più di un uomo. In ogni caso, chi scrive è dismorfofobico.
Ora, la cosa ha indubbiamente i suoi lati imbarazzanti, difficili o dolorosi. Il rinnovo periodico della carta d’identità, per dire, è un passaggio talmente impegnativo che dopo averlo superato si comincia a pensare con ansia al prossimo rinnovo, tra dieci anni. Ed ogni esibizione di un documento è una fitta al cuore. “Per ottenere il rimborso la preghiamo di compilare il modulo allegato e di rimandarcelo con copia del documento di identità.” Ma perché? Tenetevi pure il rimborso, grazie. Ma può essere perfino un problema guardarsi allo specchio al mattino. Soprattutto quando non si tratta del tuo specchio, che ti è diventato in qualche modo familiare, amico nella sua ostilità. Gli specchi degli alberghi – freddi, ostili, pronti a cogliere ogni particolare della tua estraneità a te stesso, capaci di restituirti le prove della tua alienazione con asettica ferocia – diventano prove iniziatiche. Come i finestrini del treno quando scende la notte.

La tua immagine, che cerchi di dimenticare, di lasciare da parte come un peso ingombrante, un bagaglio imbarazzante che vorresti dimenticare in una stazione, ti incalza, si riaffaccia approfittando di ogni spiraglio, di ogni frammento riflettente, quasi il mondo ci tenesse a ricordarti chi sei.
Ma dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva, diceva Hoelderlin. In questo caso il pericolo stesso è, per me, ciò che salva.
Sono fermamente convinto che voltare le spalle alla nostra società sia una pratica igienica, salutare, perfino salvifica. Il confronto con gli antichi, ma anche con quelli che respiravano solo un secolo fa, mi ha convinto che siamo con ogni probabilità nella società più stupida che abbia mai calcato il pianeta terra (per quanto vi siano poche notizie dei cosiddetti preistorici, che in realtà sono i protagonisti dei nove decimi della vita umana sulla terra). La stupidità è superficialità. E se la superficialità è un tratto umano costante, mi pare innegabile che oggi abbia raggiunto una perfezione prima inimmaginabile. Più che vivere, galleggiamo. scivoliamo sulle cose. E su noi stessi. Ed ecco: la cura della propria immagine, la sua riproduzione più o meno infinita, la sua arrogante imposizione all’altro mi sembra che occupino l’occhio del ciclone di banalità dal quale siamo agitati.
“Lathe biosas”, diceva il mio Epicuro. Vivi nascosto. Se c’è una massima filosofica assolutamente inattuale, è questa. Vivere nascosto? Perché mai? Nell’epoca del selfie, non c’è nulla di più insensato. E per chi l’epoca del selfie la rifiuta, per chi ne prova disgusto, non c’è prassi più rivoluzionaria. Attenzione: non si tratta di rifiutare la bellezza. Non si tratta di dire: ecco, non voglio essere bello, curato, attraente come voi. Un dismorfofobico ha un problema diverso dal sentirsi brutto. Non si riconosce. Non sente di essere lui l’immagine che vede, e questo gli provoca una sensazione dolorosa, qualcosa di non troppo diverso dal traumatico risveglio di Gregor Samsa. Ed è per questo che la dismorfofobia ha un che di rivoluzionario. La nostra civiltà si fonda sulla pretesa che le immagini, con il loro libero fluttuare, dicano la realtà. Che la rispecchino fedelmente. O meglio: che siano la realtà, tout court. La mia dismorfobia mi sottrae e a questa pretesa. Mi porta altrove. E mi consegna il diritto di essere, di sentirmi sempre al di là della rappresentazione che altri hanno di me: che vuol dire, più o meno, essere liberi.

L’Attacco, 23 maggio 2019.

La Chiesa omertosa

E’ stato condannato dalla corte d’Appello di Bari a vent’anni di carcere Gianni Trotta. Da sacerdote, ha violentato nove bambini, approfittando della sua condizione di sacerdote e di allenatore di una squadra di calcio in due paesini del Foggiano. Non si limitava alle violenze, don Gianni: gli atti venivano filmati e divulgati in Internet; a casa sua gli investigatori hanno trovato un vero centro di produzione di materiale pedopornografico. “La cosa più orribile che mi era mai capitata di vedere”, dice un investigatore.
Don Gianni, il delinquente, il pedofilo don Gianni, non è in realtà più don. La Chiesa lo ha ridotto allo stato laicale nel 2012, un provvedimento grave dal punto di vista religioso, che tuttavia ha lasciato libero un pedofilo. Perché l’uomo non è stato denunciato. La Chiesa locale sapeva che Trotta era un pedofilo, sapeva che avrebbe continuato a fare cose gravissime, sapeva che avrebbe distrutto la vita di bambini innocenti: ed ha taciuto. E l’uomo ha continuato a violentare altri bambini. La Chiesa avrebbe potuto salvarli; ha preferito salvare sé stessa. L’ex sacerdote passerà in carcere gran parte di quel che resta della sua vita. Gli altri, quelli che sapevano ed hanno preferito tacere, continueranno invece a pontificare sul bene e sul male, a considerarsi guide e pastori di anime, a riempirsi la bocca di Dio e Gesù Cristo e di Vangelo. Tanto le gente dimentica presto. Il sacerdote pedofilo – l’ennesimo – non fa notizia, non finisce sulle prime pagine dei giornali, e nonostante l’evidenza di un fenomeno sociale pericoloso e pervasivo, non crea allarme.

Nel suo libro “Sodoma” (Feltrinelli), nel quale documenta la diffusione dell’omosessualità nella Chiesa cattolica, comprese le più alte gerarchie, quelle più vicine al papa, il giornalista francese Frédéric Martel si chiede come si spieghi una così alta concentrazione di persone omosessuali in una istituzione pur apertamente omofoba. La risposta di Martel è che in passato, quando essere omosessuali significava subire un forte stigma sociale, entrare nella Chiesa offriva una via d’uscita a molti giovani: avrebbero potuto praticare l’omosessualità in un contesto riservato, nel quale ciò che conta è che si agisca con discrezione, senza fare scandalo. “Il sacerdozio – scrive Martel – è stato a lungo la via di fuga ideale per i giovani omosessuali. L’omosessualità è una delle chiavi della loro vocazione.” E questa, per Martel, è anche una delle ragioni della crisi delle vocazioni in una società in cui, nonostante l’omofobia della Chiesa, lo stigma sociale verso gli omosessuali si è di gran lunga attenuato.
Non c’è alcun problema se un sacerdote è omosessuale. E’ un problema solo per la Chiesa stessa: fino a quando continuerà nella sua lotta insensata e suicida contro l’omosessualità, anzi contro la sessualità stessa, costringerà migliaia di sacerdoti, di vescovi, di cardinali ad una penosa doppiezza. Considerando casi come quello di Trotta, tuttavia, non si può fare a meno di chiedersi se questo contesto rassicurante, questa discrezione spinta fino alla protezione di un criminale, costi quel che costi, non sia una soluzione appetibile anche per chi voglia praticare un crimine come la pedofilia con il minimo dei rischi. La Chiesa offre la possibilità di accedere all’infanzia e all’adolescenza, attraverso il catechismo, l’oratorio, le squadre di calcio, e al tempo stesso un ambiente omertoso, nel quale il massimo che si rischia è la riduzione allo stato laicale. Se le cose stanno così, la Chiesa non potrà liberarsi dalla pedofilia fino a quando non farà i conti apertamente, coraggiosamente, radicalmente con la sua sessuofobia e con la sua omofobia.

L’Attacco, 14 maggio 2019

I migranti e il silenzio della politica

Fa sorridere (amaramente) l’ingenuità mostrata dai lavoratori migranti che il 6 maggio manifestavano a Foggia per la dignità e i diritti: in uno dei loro cartelli si rivolgevano al sindaco Landella per chiedergli giustizia per il giovane gambiano morto nell’incendio della sua baracca di legno e lamiera. Avranno pensato che il sindaco è, come tale, il capo di una comunità, ed il capo di una comunità non può disinteressarsi delle violazioni dei diritti elementari che accadono nella sua città. Da Landella, naturalmente, solo silenzio. Ma null’altro che silenzio giunge anche dal principale sfidante di Landella, Pippo Cavaliere. Guardo e riguardo la sua pagina Facebook, che in campagna elettorale è per ogni candidato ormai il principale strumento di propaganda, ma nulla. Non una sola parola, non un link. Per il candidato di sinistra alle elezioni la manifestazione di centinaia di migranti semplicemente non è mai avvenuta. Né mi pare che altri si siano espressi.
Posso comprenderli. L’Italia è ormai un paese in cui il razzismo ha messo solide radici, e Foggia è anche più razzista della media italiana, benché abbia un numero di migranti decisamente inferiore alle città del centro-nord. Sotto elezioni è meglio non compromettersi con questa gente, si rischia di perdere voti. Ma a non compromettersi si rischia qualcosa di peggio: di vincere, ma di non differenziarsi affatto dall’avversario. Di essere diventati di destra, nel tentativo di sconfiggere la destra.

Uno degli argomenti di destra contro i migranti – uno dei pochi che usano quando provano ad argomentare, cosa che non va più molto di moda – è che i migranti sono manodopera a basso costo, che vengono qui solo per essere sfruttati, che l’immigrazione non è altro che racket di esseri umani. Che sia così, almeno a Foggia (o a Rosarno) è difficile negarlo. Ma la conclusione logica di questa premessa non è la negazione dell’immigrazione (che sarebbe, peraltro, la negazione di un fenomeno antico quanto la specie umana: e senza la quale, peraltro, la specie umana nemmeno esisterebbe, almeno non come è adesso), ma la lotta per i diritti dei lavoratori migranti. Se fosse un vero argomento, e non un pretesto, quelli di destra dovrebbero essere al fianco dei lavoratori africani che scendono in piazza per rivendicare i loro diritti, a cominciare da paga, contratto, alloggio decente e documenti. Solo in questo modo è possibile riportare legalità nelle campagne: e legalità è una delle parole di cui si riempiono la bocca i salviniani (salvo poi difendere a spada tratta il sottosegretario, già pregiudicato per bancarotta fraudolenta, accusato di corruzione).
Dietro il silenzio dei “politici” foggiani di fronte a quella manifestazione – un silenzio riempito dalle scomposte eruttazioni dei tanti frustrati da social network, degli infelici che vivono d’odio – c’è un duplice fallimento. Il fallimento, la miseria morale di una destra che si riempie la bocca dei valori cristiani tradizionali, ma non riesce a vedere nel nero che crepa in una baracca un essere umano; ed è un fallimento che prescinde dal successo elettorale. Chi costruisce il suo successo personale sull’odio e sul razzismo è un fallito come essere umano ed è un fallito come politico. Ed è il fallimento di una sinistra che per calcolo elettorale dimentica i fondamenti stessi di qualsiasi politica di sinistra: l’uguaglianza, la liberazione di tutti cercata, rivendicata, costruita faticosamente a partire da chi sta peggio.
Dietro il silenzio dei “politici” c’è il fallimento di una intera città, che tira a campare tra una partita di calcio e un panino in piazza (“un bilancio entusiasmante” per Libando, annuncia il sindaco Landella), senza davvero sapere dove sta andando – dove vuole andare.

L’Attacco, 9 maggio 2019

Cattivo gusto e dinamiche di classe

Vien quasi da difenderlo Feltri (e vi giuro: stavo per scrivere “il povero Feltri”). Fa una battuta si sfuggita, e vien giù il finimondo. E’ un po’, a dire il vero, come se di un genovese avesse detto che “è generoso, nonostante sia genovese”. A torto o a ragione, i foggiani non hanno fama di buon gusto nel vestire. Nella sua Ballata delle prugne secche Pulsatilla – la foggiana Valeria di Napoli – ricordava che “a Pisa, pacchiano si dice foggiano”. Spero ora che aver ricordato questa cosa non scateni una lotta contro i pisani e nuovi strali contro Pulsatilla, che da questo punto di vista ha già dato.
Vestono bene i foggiani? La questione è indecidibile, dal momento che nessuno ha il criterio oggettivo del buon gusto. Certo i negozi di alta moda non mancano, e certo sono parecchio frequentati. Ma c’è anche il mercato del venerdì, e al mercato del venerdì ci sono anche i banchi dei vestiti usati. Veste male chi compra cose usate? Ne dubito. Ci si può vestire benissimo anche spendendo poco: il buon gusto, fortunatamente, prescinde dal denaro. Ma temo che quelli che frequentano i negozi del centro non la pensino allo stesso modo. Ci sono, a Foggia, una quantità di termini offensivi per indicare una carta fascia della popolazione locale. Zanniërë, ad esempio. Non saprei dirne l’origine, credo che venga da zanne, ad indicare una qualche caratteristica animalesca del soggetto. Altri termini esprimono un certo pregiudizio antiantropologico: Mao Mao, ad esempio, o Cheyennë. Dalle parti di Foggia le tribù africane o indiane d’America non sono troppo apprezzate. Il foggiano elegante che reagisce con sdegno quando Feltri fa una battuta di sfuggita sui foggiani che vestono male non mancherà di mostrare disprezzo per ‘u zanniërë che gli passa accanto nella fatica quotidiana dello struscio per il corso, quasi usurpasse uno spazio buono, nel quale una borghesia volenterosa tenta di dare un tono alla città. Perché di questo si tratta, alla fine. Sempre. Dietro ogni pregiudizio ci sono dinamiche di classe. Il cattivo gusto è sempre quello dei poveri. I ricchi possono mettersi in testa anche un cappello a forma di merda (magari un po’ largo: “a cacata di vacca”, si dice a Foggia): tutti apprezzeranno l’originalità e lo stile. Foggiano è sinonimo di pacchiano perché Foggia, a dispetto della borghesia volenterosa di cui s’è detto, è nella percezione comune una città proletaria. Perfino un po’ sottoproletaria.

Diceva Paulo Freire che l’oppresso interiorizza il punto di vista dell’oppressore. Una città scivolata ai margini della festa del benessere in una società capitalistica, ossia priva di qualsiasi pietà al di là della retorica, diventa inevitabilmente oggetto di disprezzo e di derisione. E invece di interrogarsi sulle logiche escludenti, sulla crudeltà di quel tritacarne, come in un gioco di scatole cinesi riproduce al suo interno le stesse logiche escludenti, le stesse derisioni, lo stesso disprezzo. Il borghese disprezza ‘u zanniërë, il quale a sua volta disprezza lo straniero, l’ultimo arrivato, il paria assoluto. No, direi che il problema non è Feltri.

L’Attacco, 10 aprile 2019.

Scuola: la laicità difficile

Qualche mese fa ha fatto discutere la scelta del preside di un istituto comprensivo di Porto Tolle, nel cattolicissimo Veneto, di non consentire al vescovo di Chioggia di far visita alla sua scuola. L’argomento del dirigente era semplice: la scuola pubblica e statale è laica. La semplicità, sensatezza, evidenza dell’argomento naturalmente non sono state sufficienti ad evitare le polemiche, per lo più politiche: per certe forze conservatrici notizie del genere sono manna dal cielo.
Non si è fatto troppi problemi invece il dirigente dell’istituto “Ungaretti-Madre Teresa” di Manfredonia, che sulla homepage del sito pubblicizza con grande enfasi la visita di monsignor Moscone, nuovo vescovo della Diocesi. “Un pieno di emozioni questa mattina per alunni, docenti, personale e genitori”, si legge. E le foto fanno quasi tenerezza: sembrano uscite dagli anni Cinquanta, quando il Paese era fervidamente, unanimemente cattolico, i pochi anticonformisti, come i coniugi Bellandi di Prato – che si erano permessi di sposarsi solo civilmente – venivano pubblicamente umiliati e Dio, Patria e Famiglia era uno slogan che non faceva sorridere. Se non fosse per gli smartphone che spuntano qua e là, le foto sarebbero perfettamente vintage: il vescovo dall’aria bonaria, il preside compiaciuto, lo stemma episcopale in bella mostra, e soprattutto loro, i bambini. Col grembiulino azzurro, le bandierine, le mani sollevate per accompagnare chissà quale canto. Leggi tutto “Scuola: la laicità difficile”