Se la psico-fuffa entra in ospedale

Con un certo orgoglio l’Azienda Ospedaliero Universitaria Ospedali Riuniti di Foggia rende noto che dall’8 giugno al 29 luglio si terrà il corso “Armonie Interiori: sulle tracce del sé quantico”, iniziativa promossa dal direttore sanitario dottor Antonio Battista. Rivolto a medici ed infermieri, il corso – “fortemente rivoluzionario nell’ambito della medicina ufficiale” – tratterà temi come la “medicina quantistica”, il “corpo come sistema energetico integrato”, il “lavaggio e riequilibrio energetico attraverso la pratica meditativa”. A formare il personale sanitario su temi così alti sarà la dottoressa Carmen Di Muro. Autrice, apprendo, di un libro dal titolo Essere è amore, nella cui quarta di copertina si può leggere:

Il vero motore è la grande luce interiore contenuta in ognuno di noi, una forza vibrante di intensità frequenziale altissima, da cui tutto parte e da cui tutto prende forma, che ci collega alla fonte della creazione e permette che noi stessi, attraverso il nostro pensiero, attraverso le nostre azioni, possiamo dar vita al reale che ci circonda e che ci appare ancora così misterioso da non poter essere compreso.

Desideroso di saperne di più su questa luce interiore, cerco su YouTube. In un video la dottoressa ci spiega che abbiamo un’anima (ma immagino che si debba scrivere Anima) che è “puro amore, vibrazione, la vibrazione di fondo più forte dell’universo” e che esiste una legge universale, la legge di attrazione, che ci porta ad attrarre il positivo che c’è nell’universo quando siamo positivi, ed il negativo quando siamo negativi. Per essere felici basta sintonizzarsi con le giuste “fonti di emittenza” (sic). Da un altro video apprendiamo che dentro di noi c’è una scintilla divina che ci fa diventare chiara la nostra missione – perché ognuno ha una missione. Un terzo video completa il quadro. Ci insegna, la dottoressa, che la nostra Anima è pura energia e che comunica con noi attraverso il cuore grazie ad una certa “vibrazione prima” che è presente in tutto l’universo. Queste cose riesce a dire in circa un minuto. Il resto, confesso, non sono riuscito a sentirlo.
Ora, ognuno è libero di credere in quello che gli pare, che si tratti dell’Anima, delle vibrazioni, dello ying e dello yang, dell’aura, dei chakra, del prana e dell’apana, e così via. Una cosa però dev’essere chiara: tutte queste convinzioni appartengono alla religione, e non alla scienza. Vero è che la psicologia ha esplorato spesso la zona di confine tra l’una e l’altra, e che autori come Jung hanno fatto ricorso a categorie e termini religiosi come quello, appunto, di Anima (ed Animus), mentre altri, come il nostro Assagioli, si sono interrogati sulle pratiche spirituali orientali ed occidentali. Ma in questi casi, ed in altri, lo studio è stato condotto con un rigore analitico che ad alcuni critici della scientificità della psicoanalisi appare ancora insufficiente, e che tuttavia è lontano anni luce dalla disinvoltura d’una dottoressa Di Muro, con la sua psico-quantistica. La quale è, peraltro, in ottima compagnia. L’interesse crescente per le faccende interiori, di cui sarebbe interessante approfondire il legame con il sistema socio-economico, per saggiarne le motivazioni reali, spinge molta gente verso lo scaffale dei libri di psicologia. Molta gente che, spesso, non ha la preparazione necessaria per leggere Freud o Adler, e nemmeno la pazienza per cominciare dall’abc della psicologia scientifica, e grazie alla quale si apre un nuovo mercato, affine a quello, tutt’altro che in crisi, della New Age. Ed allora si dà loro in pasto una psicologia per creduloni.
Riconoscere questa pseudo-psicologia, questa psico-fuffa, non è difficile. Un primo indizio sono i toni trionfalistici. Il povero Freud aveva molti dubbi sulla possibilità di guarire realmente con la psicoanalisi. Gli pseudo-psicologi non hanno dubbi: basta comprare il loro libro per trasformare interamente la propria vita e trovare la felicità con il minimo sforzo. Il secondo indizio è, appunto, l’uso disinvolto di categorie che appartengono alla religione, e molto spesso alle religioni orientali. Il terzo indizio è il narcisismo. Per la psico-fuffa ognuno di noi è al centro dell’universo, o quasi; ognuno è un essere meraviglioso, speciale – una creatura di luce o qualcosa del genere. Un quarto indizio è un uso dei risultati della scienza non meno disinvolto di quello delle categorie religiose. Quale sia il vero senso delle ultime scoperte della fisica è una questione che fa tremare i polsi ai maggiori fisici viventi, ma uno psico-fuffologo non ha dubbi, e potrà spiegarti senza alcuna difficoltà il rapporto tra i quanti ed il tuo benessere psicofisico e la tua felicità. Come fa, appunto, la dottoressa Di Muro. Tutto questo, dicevo, può piacere, ed ognuno è libero di leggere le sciocchezze che preferisce. Ma se queste cose vengono insegnate in un luogo che dovrebbe essere messo sotto il segno della scienza e della ragione, allora c’è qualche problema. Ed anche abbastanza serio. Non amo gridare allo scandalo, ma è assolutamente inaccettabile che medici e infermieri, persone che dovrebbero, anzi che devono avere una formazione scientifica, e che lavorano in un campo delicatissimo, con persone che soffrono, si formino ricorrendo a teorie pseudo-scientifiche.
Peraltro, che medici ed infermieri (ma anche docenti e studenti) possano trarre giovamento dallo studio e dalla pratica della meditazione, è un’affermazione che mi guardo bene dal contestare. Ma si tratta di capire quale meditazione, e quali concezioni si veicolano attraverso la pratica. La meditazione vipassana esiste da duemila e cinquecento anni. Fa parte della pratica buddhista, ma è fatta di esercizi che si possono praticare anche senza avere alcuna fede religiosa, meno che mai buddhista. Esercizi sulla consapevolezza del respiro, delle sensazioni, degli stati mentali. In occidente la vipassana è nota in ambito scientifico come mindfulness. La sua sperimentazione risale alla fine degli anni Settanta, quando il medico Jon-Kabat Zinn ha cominciato ad usarla presso la Clinica per la Riduzione dello Stress da lui fondata presso la Massachusetts Medical School. C’è un’ampia letteratura scientifica sull’efficacia della mindufulness nella cura della depressione, nella riduzione dell’ansia e dello stress, nella prevenzione degli attacchi di panico e nella cura di altre problematiche psicologiche. Se quello dell’Azienda Ospedaliera di Foggia fosse un corso sulla mindfulness, non starei ora scrivendo questo articolo.
Esiste in questo paese, oggi, un attacco alla scienza ed alla mentalità scientifica senza precedenti. C’è un esercito di fanatici dell’omeopatia, delle cure alternative, dei rimedi miracolosi contro il cancro, della New Age, dello sciamanesimo e così via che ritiene che la mentalità scientifica vada abbattuta per sostituirla con teorie olistiche, cure miracolose naturalmente occultate dalla scienza ufficiale, antichi rimedi tramandati dalla Tradizione, gemme sacre, fiori dal profumo salvifico, eccetera. Un nuovo attacco che si aggiunge a quello, mai sopito, della Chiesa cattolica, con la sua passione per l’irrazionale e la superstizione, il sangue di San Gennaro e le sacre particole. Fino a quando questo esercito resterà fuori dai luoghi in cui si trasmette e si pratica la cultura scientifica – le scuole, le università, gli ospedali – si può essere relativamente tranquilli. Ma fatti come quello di Foggia, al quale altri si potrebbero aggiungere (anche riguardanti la scuola), dimostrano che si stanno aprendo delle brecce pericolose.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 11 giugno 2015.

Perché è moralmente doveroso non mangiare carne

Sono vegetariano dall’età di sedici o diciassette anni. Erano gli anni Ottanta, ed il vegetarianesimo non era propriamente di moda. Per quello che riesco a ricordare, a spingermi verso quella scelta furono le mie letture di filosofia indiana: la Bhagavadgita, Aurobindo, cose così. A convertirmi al vegetarianesimo è stata, cioè, una motivazione che oggi sembra essere del tutto tramontata: non etica, ma ascetica. Non mangiare carne come forma di rinuncia, di controllo sul proprio corpo e sui propri desideri. Con il tempo questa prima spinta ascetica si è arricchita di motivazioni etiche – risparmiare la vita degli animali, che è dotata di valore – e perfino estetiche (il disgusto per i corpi squartati, per la loro esibizione nelle macellerie, per il tetro allestimento di pezzi di corpi nei piatti). Tra le motivazioni non è mai comparsa quella salutista, che per molti è determinante: sia perché ho l’abitudine di avere convinzioni fondate su conoscenze certe, e non ho conoscenze che mi consentano di affermare con certezza che una dieta vegetariana o vegana è più salutare di una dieta che comprenda la carne, sia perché, per dirla tutta, non mi sono curato mai troppo della mia salute. Ultime sono arrivate le motivazioni politiche, di cui vorrei parlare qui. 

In filosofia morale si distinguono due tipi di azioni: quelle doverose e quelle supererogatorie. Le prime sono quelle che ci si aspetta che tutti compiano; e chi non le compie è colpito dal biasimo (e in qualche caso dalla condanna penale). Le azioni supererogatorie sono invece azioni moralmente ammirevoli, ma che vanno però al di là di quello che si può ragionevolmente chiedere ad una persona media. E’ doveroso pagare le tasse, mentre è un’azione supererogatoria sacrificare la propria vita per il bene di persone sconosciute. Chi lo fa ottiene l’ammirazione di tutti, ma è chiaro che si è trattato di una sua libera scelta, che non obbliga gli altri. La vita del santo si svolge tutta a questo livello, ma è chiaro che i santi vanno venerati, più che imitati. Il problema che vorrei porre è: il vegetarianesimo ed il veganismo che tipo di scelte sono? Sono scelte moralmente doverose o supererogatorie? Ognuno è moralmente tenuto ad essere vegetariano, o è un sacrificio che possiamo lasciare a chi vuole realizzare un suo ideale di perfezione morale? Sono intimamente persuaso, come molti, del valore della vita animale. Se riuscissi a dimostrare al di là di ogni dubbio che la vita animale ha valore, allora la domanda avrebbe una risposta semplice. Se la vita animale ha valore, sopprimerla è un delitto, e dunque il vegetarianesimo/veganismo è moralmente doveroso. Purtroppo, non sono in grado di dimostrare il valore della vita animale. Lo intuisco, ma non so dimostrarlo. Il ragionamento più solido in favore del valore della vita animale mi sembra quello antichissimo del Dhammapada buddhista. Che dice (par. 129): ogni essere vivente ha paura della violenza e della morte e cerca la felicità; per questo, non bisogna uccidere né permettere che altri uccidano. L’animale come me vuole vivere, mostra una volontà di vita, un sì alla vita, che non è diverso dal mio, e che merita rispetto. Ma non sono sicuro di riuscire a difendere questo argomento dalle obiezioni. Mi si potrebbe far notare, ad esempio, che è quella stessa volontà di vita che spinge l’animale, per sopravvivere, a distruggere altre vite. Ed io stesso, quando coltivo l’orto, mi trovo a distruggere esseri viventi che ho arbitrariamente classificato come “erbacce” per far spazio ad altre piante, che soddisfano il mio gusto estetico o il mio palato. Ho parlato di una ragione politica del vegetarianesimo. Una cosa che non sapevo quando sono diventato vegetariano è che essere vegetariani è un modo per affrontare la fame nel mondo. La “fame nel mondo” è, con Auschwitz e l’atomica, uno dei grandi temi umanitari della scuola degli anni Ottanta. Ciclicamente eravamo messi al cospetto di immagini di bambini africani denutriti, per prendere coscienza del nostro benessere e dell’ingiustizia mondiale. Pare che abbia funzionato, almeno con me. Sono pienamente consapevole dell’ingiustizia che è nel nostro benessere, e del legame esistente tra il nostro benessere e la miseria di gran parte del mondo. Il nostro benessere si manifesta, oltre che con uno stile di vita insostenibile (ad esempio l’uso dell’automobile), con un’alimentazione carnea. I paesi industrializzati mangiano una quantità di carne che nessun popolo nella storia ha mai consumato. Per quanto, come ho detto, sia poco in grado di valutare le affermazioni in questo campo, mi pare evidente che i risultati di questo tipo di alimentazione per la salute siano tutt’altro che positivi. Obesità e malattie cardiovascolari sono veri flagelli nei paesi ricchi, e sono ovviamente legati allo stile alimentare. 
Ma il punto è un altro. Il punto è che questo stile alimentare toglie letteralmente il pane di bocca ai poveri. Per produrre una proteina animale occorre consumare una grande quantità di proteine vegetali. E’ un processo ad imbuto, nel quale da un lato di inseriscono i cereali che potrebbero sfamare il mondo intero, e dall’altro fuoriescono le proteine animali che alimentano (e superalimentano) solo il mondo ricco. Se gli allevamenti animali scomparissero, o fossero fortemente ridotti, ci sarebbe terra sufficiente per coltivare cereali ed altri alimenti vegetali sufficienti per dare da mangiare a tutto il pianeta. 
Torniamo dunque alla nostra questione. E’ un principio moralmente condiviso che un’azione che provochi un danno ad un altro essere umano è un’azione moralmente deplorevole, soprattutto se il danno è grave e l’azione è evitabile. Il fatto che questo altro sia lontano non diminuisce la gravità dell’azione. Se io per gioco schiaccio un tasto che fa partire un missile che uccide mille persone in Cina, il mio è un atto immorale. Il fatto che io non veda i mille cinesi – o che i cinesi siano, appunto, cinesi – non rende meno grave la mia azione. Diversa sarebbe la questione se l’atto di uccidere mille cinesi fosse indispensabile per la sopravvivenza mia o dei miei cari o della mia città o del mio popolo. E’ una questione difficile, che però qui non ci riguarda, dal momento che mangiare carne è un atto assolutamente evitabile, senza alcuna grave conseguenza per la salvezza e l’incolumità di chi vi rinuncia. Se dunque la mia azione di mangiare carne è legata alla mancanza di risorse alimentari in grado di sfamare tutti, è per me moralmente doveroso rinunciare alla carne. Si possono fare due obiezioni a questo ragionamento. Qualcuno potrebbe cinicamente obiettare che non gliene importa nulla della vita del bambino etiope, che per lui sono degne di valore solo la vita sua, dei suoi cari e di chi gli è vicino, e che gli altri possono morire. Purtroppo non ho una risposta a questa obiezione. Dovrei dimostrare che la vita umana – di ogni essere umano – ha valore, ma non sono in grado di dimostrarlo, così come non sono in grado di dimostrare il valore della vita animale. Mi pare in generale che sia estremante difficile dimostrare un valore. E’ per questo che quando si parla di valori spesso si giunge alla rissa. Fortunatamente, ho ragione di ritenere che un tale cinismo sia ormai poco diffuso. Molto più diffusa è l’ipocrisia di chi afferma il valore di ogni vita umana solo teoricamente, e solo se non gli costa nulla. La seconda obiezione è la seguente: capisco tutto, sono d’accordo, ma a me la carne piace, e quindi la mangio lo stesso. Non prenderei in considerazione questa obiezione, evidentemente rozza, se non avessi notato che è molto frequente, ed anche in persone tutt’altro che ignoranti. In questo caso la risposta mi sembra abbastanza facile. Immaginiamo che passi una belle ragazza. Mi piace, vorrei possederla. Il mio gusto mi spinge verso di lei. Ho dunque il diritto di fare quello che voglio, o il gusto deve cedere al dovere? E’ evidente che porre il gusto come criterio di scelta del bene e del male porta a conclusioni assurde e socialmente inaccettabili. 
Se quanto detto non è sbagliato, è dunque moralmente doveroso per chiunque viva in un paese ricco mangiare meno carne o non mangiarne affatto. O aggiungere un nuovo senso di colpa ai tanti che affollano la sua coscienza.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 27 maggio 2015.

Cambiare la scuola dal basso: quattro pratiche

Non ritengo che sia in atto la distruzione della scuola pubblica, come temono quelli che sono contrari alla riforma denominata, un po’ pomposamente, la Buona Scuola, così come non mi pare che essa possa cambiare significativamente la scuola pubblica. Mi convincerò che è in atto una vera riforma della scuola italiana quando qualcuno proibirà per legge la lezione frontale e il setting attuale con banchi e sedie in fila; fino ad allora, considererò qualsiasi riforma come un aggiustamento – in senso migliorativo o peggiorativo – che non intacca la sostanza della scuola italiana.

In questo articolo vorrei presentare quattro pratiche che possono cambiare profondamente la scuola italiana, intervenendo non su aspetti marginali, ma sul suo cuore in crisi. Quattro pratiche dal basso, con le quali docenti e studenti potrebbero riprendere in mano la scuola pubblica e trasformarla senza aspettare decreti e riforme dell’alto. Prima però vorrei dire ancora qualcosa su ciò che non va nella scuola. Come ho già provato a spiegare in un articolo comparso su questa stessa testata, ritengo che la crisi della scuola italiana (e non solo italiana) sia principalmente una crisi di senso. Perché veniamo a scuola? Perché facciamo scuola? Perché gli studenti impiegano tante ore della loro giornata seduti ad un banco? La risposta a queste domande è oggi sempre più difficile. Una volta il senso della scuola era estrinseco: si studiava per ottenere un diploma da spendere nel mondo del lavoro. Poi è giunta la scuola di massa, con l’inflazione di diplomi e lauree. E allora, perché stiamo a scuola? Per ottenere un diploma che ci consentirà di iscriverci all’università ed ottenere una laurea grazie alla quale potremo aspirare ad un lavoro precario e malpagato? No, la risposta non può essere questa. La risposta dev’essere: perché stare a scuola è sensato; perché a scuola facciamo cose importanti; perché stare a scuola è perfino bello.

E’ evidente che quasi nessuno studente, cui si chiedesse che ne pensa della scuola, risponderebbe che stare a scuola è una cosa sensata, importante e bella. C’è qualcosa che non va. Noi docenti non riusciamo a fare una scuola bella e sensata. E’ solo parzialmente colpa nostra. Non ci riusciamo perché abbiamo ereditato schemi professionali che non funzionano più, e non siamo in un’epoca ed in un contesto sociale granché aperto alle sperimentazioni. Non abbiamo, per dirla tutta, lo slancio necessario per toglierci l’abito vecchio ed ormai liso e provarne uno nuovo. E tuttavia occorre provarci, se non vogliamo che il nonsenso della nostra pratica scolastica quotidiana cresca fino a paralizzarci.

La prima pratica che propongo è la maieutica reciproca. E’ un metodo creato quasi per caso nella Sicilia degli anni Cinquanta da Danilo Dolci, finalizzato allo sviluppo comunitario. Il grande sociologo ed educatore mise in cerchio contadini e pescatori per discutere della situazione locale. Come si può cambiare? Che si può fare? Ognuno diceva la sua, ognuno contribuiva alla soluzione del problema. Ognuno era maieuta dell’altro: la verità non veniva fuori da sé stessi, ma dalla discussione di tutti. Dolci si spese generosamente, negli ultimi anni della sua vita, per diffondere la pratica della maieutica reciproca nelle scuole italiane. Incontrò centinaia di docenti, tenne seminari maieutici in decine di scuole. Era fermamente convinto che quella pratica potesse aiutare a guarire una scuola malata di incomunicabilità. Distingueva, Dolci, il trasmettere, che è unidirezionale, dal comunicare, che è circolare: e riteneva che la scuola avesse il problema di essere trasmissiva, e non comunicativa. Oggi i docenti che praticano la maieutica reciproca in Italia sono pochissimi. Eppure si tratta di una pratica che dà risultati straordinari. Gli studenti prendono la parola, ragionano, e quel che è più importante ragionano insieme. Imparano a confrontare i punti di vista, ad arricchirsi reciprocamente, a scontrarsi anche. Non sono più destinatari passivi della trasmissione di un sapere preconfezionato, ma co-costruttori di un sapere condiviso. E sensato, perché rappresenta la risposta ad una domanda.

La seconda pratica che propongo è quella del service learning, o aprendizaje servicio solidario. La prima espressione è adoperata negli Stati Uniti, la seconda nei paesi dell’America Latina. C’è qualche differenza, perché pedagogicamente il service learning fa riferimento soprattutto a John Dewey ed alla tradizione americana di impegno comunitario non privo però di individualismo, mentre l’aprendizaje servicio solidario si ispira alla pedagogia di Paulo Freire, con la sua passione per la liberazione degli oppressi. Ma l’idea di fondo è la stessa: l’apprendimento che avviene a scuola dev’essere collegato, in modo strutturale e non estemporaneo, a qualche forma di servizio in favore della comunità. Non si tratta di volontariato, perché nel volontariato manca, in genere, il raccordo con lo studio curriculare. Si tratta invece di un modo diverso di concepire lo studio scolastico. La comunità locale ha i suoi problemi, la scuola ha i suoi saperi e le sue pratiche. In che modo questi saperi e queste pratiche possono incontrare i problemi della comunità locale? Quale contributo possono dare gli studenti al miglioramento del quartiere, del paese, della città? L’apprendimento-servizio va al cuore del problema del nonsenso scolastico. Perché studiare? Perché il mio studio può servire a rendere migliore, qui ed ora, la vita di tutti.

La terza pratica che propongo si chiama Student Voice, e per quello che ne so è quasi sconosciuta in Italia, mentre è molto diffusa in molti paesi. Nelle scuole italiane la partecipazione attiva degli studenti ha raggiunto i minimi storici. Strumenti come le assemblee di classe e di istituto si sono ormai svuotati di significato; in molte scuole le assemblee di istituto nemmeno si fanno, in altre durano mezz’ora, e poi tutti a casa. Gli studenti sembrano assolutamente disinteressati alla gestione della scuola, e se da un lato si lamentano di tutte le cose che non vanno, dall’altra non sembrano disposti a muovere un dito per migliorarle (salvo poi scioperare o chiedere l’occupazione). Con l’espressione Student Voice si indicano tutte quelle pratiche con le quali si cerca di ascoltare, appunto, la voce degli studenti, e di fare in modo che sia una voce che ha un suo peso reale nella comunità scolastica. Gli studenti hanno l’impressione che la loro voce non si ascoltata da nessuno: ed in effetti in ambito scolastico subiscono spesso quella che in psicologia si chiama disconferma. Come dire: chi sei tu per parlare? E’ importante che ogni scuola trovi i modi migliori per ridare voce agli studenti. L’empowerment, il conferimento di potere, dovrebbe essere considerato uno degli scopi del lavoro scolastico. Per farlo naturalmente occorre un profondo cambio di mentalità. Chi pensa alla relazione educativa come ad una relazione di dominio non potrà aiutare gli studenti a prendere la parola ed a percepirsi come soggetti attivi di cambiamento. Ma chi pensa alla relazione educativa come una relazione di dominio dovrebbe essere emarginato a scuola, sperando che la specie cui appartiene si estingua al più presto.

Per l’ultima pratica prendo a prestito un’espressione del già citato Paulo Freire: circoli di cultura. E’ una proposta che riguarda i docenti. Noi docenti ci incontriamo periodicamente nei consigli di classe, nei collegi dei docenti, nelle riunioni di dipartimento. L’eccesso di riunioni è una delle cose di cui ci lamentiamo. Eppure in nessuna di queste riunioni abbiamo l’opportunità di riflettere realmente sul nostro lavoro. Discutiamo dell’andamento didattico-disciplinare degli studenti, della gestione della scuola, della programmazione annuale ed individuale. Ma perché facciamo scuola? E’ una domanda di fronte alla quale spesso siamo soli. I circoli di cultura creati da Freire erano dei luoghi dialogici per la formazione degli adulti. Dei circoli di cultura di docenti potrebbero essere le strutture adeguate per l’auto-formazione e l’auto-aggiornamento, per lo scambio di pratiche, per l’arricchimento culturale reciproco, ma anche per riconquistare quello slancio collettivo, quella voglia di smettere il vestito vecchio e provare il nuovo – anche a costo di restare nudi per qualche tempo – senza la quale non ci sarà che la sempre più stanca ripetizione di ciò che da gran tempo ha perso il suo senso. C’è una cosa che accomuna queste pratiche. Anzi due. La prima è che non costano nulla (anche l’apprendimento-servizio, che negli Stati Uniti è finanziato dal governo, si può fare investendo le sole risorse umane della scuola). La seconda è che riguardano i rapporti, la relazioni umane. Sono fermamente convinto che il punto nevralgico sul quale agire sia questo. La scuola è malata di rapporti falsi, inautentici, asimmetrici, che non fanno crescere. Fino a quando studenti e docenti non diventeranno membri di una comunità di ricerca, aperta al mondo esterno, non si avrà nessuna buona scuola.

Per approfondire
Sul Danilo Dolci e la maieutica reciproca rimando al mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, Edizioni del Rosone, Foggia 2012 (si può scaricare qui: http://educazionedemocratica.org/?page_id=2010) ed al libro di Francesco Cappello Seminare domande. La sperimentazione della maieutica di Danilo Dolci nella scuola, EMI, Bologna 2011. Sul service learning si veda: M. N. Tapia, Educazione e solidarietà. La pedagogia dell’apprendimento-servizio, Città Nuova, Roma 2011 e A. Vigilante, Il service learning: come integrare apprendimento ed impegno sociale, in Educazione Democratica, n. 7, gennaio 2014 (http://educazionedemocratica.org/?p=2777). Su Student Voice: Aa. Vv., Student Voice. Prospettive internazionali e pratiche emergenti in Italia, a cura di V. Grion e A. Cook-Sather, Guerini e Associati, Milano 2013.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 5 maggio 2015.

Risposte sulla scuola

Andrea Gilardoni ha avuto la bontà di replicare con un suo articolo al mio La crisi culturale della scuola italiana, “ennesimo articolo negativo sulla scuola italiana in un periodo in cui le scelte del governo potrebbero risultare decisive per il nostro futuro” – come se il governo non aspettasse che il mio articolo per bistrattare la scuola, ed eventuali provvedimenti negativi dovessero essere messi sul mio conto. Avrei apprezzato maggiormente la sua replica, devo dire, se si fosse limitato a discutere le mie tesi, evitando osservazioni antipatiche sulla mia persona (e paradossalmente facendomi al contempo la lezione sul galateo della discussione). Spero che non me ne vorrà se nella mia controreplica mi limiterò agli argomenti. 
Vediamo dunque le critiche punto per punto. 
Primo punto. “A scuola si insegna il pensiero critico e lo si esercita (quasi sempre)”, afferma Gilardoni. Non aggiunge altro. Una affermazione apodittica: prendere o lasciare. Al terzo punto aggiunge: “i metodi didattici sono infinitamente differenziati”. Le due affermazioni vanno discusse insieme, perché la mia tesi è che nella scuola italiana non si insegna il pensiero critico prevalentemente per il ricorso assolutamente preponderante alla lezione frontale. Una scuola nella quale il docente parla, ripetendo in modo più o meno fedele quello che c’è scritto nel libro di testo, e gli studenti a casa studiano il libro, magari integrandolo con gli appunti presi a lezione, per prepararsi all’interrogazione, durante la quale ripeteranno quello che dice il libro e quello che ha detto il docente, non è una scuola che abitua e forma al pensiero critico. Mancano due cose. La prima è la ricerca autonoma, anche se guidata dal docente, del sapere. Lo studente è passivo, riceve un sapere già confezionato, che bisogna digerire così com’è. La seconda è la riflessione comune sulle cose studiate: il momento in cui le informazioni acquisite vengono passate al vaglio, appunto, della critica. Per fare queste due cose occorrono metodologie diverse dalla lezione frontale. 
Ma in base a cosa posso dire che la scuola italiana è ancora fondata sulla lezione frontale? Su cosa si basa il mio giudizio sulla scuola italiana? Su quattro cose: 
Uno. La mia esperienza di docente. Insegno da più di quindici anni; ed ho insegnato alla scuola media, agli istituti tecnici, ai licei, ai professionali, sia al sud che al centro-nord. La mia esperienza naturalmente non è assoluta – nessuna esperienza lo è. Ma è vasta. Certo più vasta di quella di chi ha sempre insegnato in un liceo. O di chi parla di scuola senza aver mai insegnato. 
Due. Il confronto con i colleghi di ogni parte d’Italia, sia fisicamente che in rete. Confronto che raramente mi ha aperto spiragli su modi di fare scuola diversi da quello tradizionale della lezione. 
Tre. La considerazione del setting. Per fare scuola in modo diverso occorre una diversa organizzazione dello spazio scolastico. Occorrono tavolini al posto ei banchi, spazi aperti, niente cattedre. Basta entrare in una qualsiasi scuola italiana per constatare che invece nel nostro paese il setting scolastico prevede una cattedra che fronteggia file di banchi. Un setting che era considerato superato da Dewey già alla fine dell’Ottocento, e che è funzionale alla lezione frontale. Non manca qualche coraggioso tentativo di riorganizzazione degli spazi, come quello del “Majorana” di Brindisi; ma si tratta di iniziative isolate e sporadiche. 
Quattro. La lettura di buona parte dei libri sulla scuola scritti dai docenti italiani. Si tratta di un filone letterario che, a quanto pare, tira parecchio e non conosce crisi. E l’immagine che ne emerge della scuola, anche quando si tratta di libri piene di romanticherie, non è propriamente quella di una scuola metodologicamente all’avanguardia. Faccio qualche esempio. I libri più discussi ed apprezzati in sala docenti degli ultimi anni sono senza alcun dubbio quelli di Paola Mastrocola. Il suo ultimo libro sulla scuola – Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare (Guanda, Modena 2011) – sostiene la tesi che chi non vuole studiare farebbe bene a starsene a casa. Ora, che cosa vuol dire scuola? Semplice: “l’insegnante spiega, l’allievo studia, l’insegnante interroga e l’allievo ripete”. Tutto qui [1]. Mi pare che non ce ne sia molto, qui, di pensiero critico. Un libro recente di grande successo – ad un livello diverso – è quello di Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per una erotica dell’insegnamento (Einaudi, Torino 2014). “Un insegnamento degno di questo nome non inquadra, non uniforma, non produce scolari, ma sa animare il desiderio di sapere. Per questa ragione ogni insegnamento che sia tale muove l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto in cui consiste in ultima istanza il fenomeno che in psicoanalisi chiamiamo ‘transfert'”, scrive Recalcati. Ed ha molta ragione, così come ha ragione nel considerare il docente non come colui che possiede un sapere o una verità, ma come colui che li ricerca. Ma cosa fare, in concreto, a scuola? Qui finiscono, sembra, le competenze di Recalcati, che non va al di là dell’evocazione di una lezione appassionata ed appassionante – ma pur sempre lezione. Immagino l’obiezione: una lezione appassionante non è sufficiente a stimolare il pensiero critico? A me pare che faccia venire in primo piano soprattutto la figura del docente. Può essere che molti studenti si appassionino e si mettano a studiare seriamente la sua disciplina, così come può essere che si innamorino del docente e cerchino di scimmiottarlo. Per usare il lessico psicoanalitico di Recalcati, in questo caso, attraverso la lezione, il docente diventa un oggetto erotico. Per presentarsi davvero agli studenti come colui che cerca il sapere, e non come colui che lo possiede, dovrebbe rinunciare alla lezione e mettersi realmente a fare ricerca insieme ai suoi studenti. Socrate non faceva lezione. Interrogava e cercava insieme. Un terzo esempio è Cosa significa insegnare? della filosofa Eleonora De Conciliis (Cronopio, Napoli 2014). Anche qui si leggono cose sensatissime su come dovrebbe essere la scuola. Per l’autrice l’insegnante ha in primo luogo il dovere di dire la verità e di insegnare a sospettare dello stesso sapere che trasmette: “‘v’insegno questo perché c’è un’istituzione che mi costringe, ma al tempo stesso vi dico come storicamente si è giunti a questa costrizione’”. Il paradosso di questa posizione appare evidente però quando si legge, poco più avanti: “l’insegnante parresiasta può fabbricare soggetti autonomi in grado di non farsi fregare da un mediocre pastore o dalle forme mediatico-populistiche assunte dall’economia politica”. Si fabbricano cose, non persone. Si formano soggetti autonomi coinvolgendoli nel processo di formazione e nella ricerca comune degli aspetti problematici del sapere tradizionale. Anche qui, invece, non si va oltre la lezione, dal punto di vista metodologico. Sia in Recalcati che in De Conciliis la scuola ha ancora al centro il docente che parla. Lo studente appare sullo sfondo, come un soggetto passivo, che si lascia innamorare del sapere o “fabbricare” dal docente demiurgo. 
Punto secondo. A scuola non si trasmette solo la cultura italiana ed europea, come sostengo io, ma anche quella extraueropea, sostiene Gilardoni. Qui si fa presto: basta dare uno sguardo alle Indicazioni nazionali, quelli che una volta si chiamavano programmi. Autori raccomandati al secondo biennio di filosofia del classico: presocratici, sofisti, Socrate, Platone, Aristotele, scuole ellenistiche, Agostino eccetera. Non un solo pensatore orientale. Storia dell’arte: “Nel corso del secondo biennio si affronterà lo studio della produzione artistica dalle sue origini nell’area mediterranea alla fine del XVIII secolo”. E così via, per le altre discipline e le altre tipologie di scuola. Mi dica Gilardoni, se mi sono distratto, in quale tipologia di scuola, e nell’ambito di quale disciplina, viene raccomandato lo studio di Nagarjuna, o di Chuang-tzu, o del Mahabharata, o del Genji Monogatari
Quarto punto. “Il precariato intellettuale non è faccenda che riguardi la scuola, dove i pochi precari esistenti sono comunque pagati tutto l’anno e, probabilmente, a breve saranno anche tutti assunti”, scrive Gilardoni. Mi piacerebbe condividere il suo ottimismo; ma non è questo il punto. Nel mio articolo sostenevo che oggi è difficile motivare gli studenti allo studio dicendo loro che studiare serve ad affermarsi nella vita, perché questa affermazione è semplicemente falsa. Oggi esistono persone con più di una laurea, che sono disoccupate o precariamente occupate. Spero che Gilardoni non voglia negare questo fatto evidente. 
Quinto e sesto punto. “La scuola forma anche i nuovi docenti, e lo fa quasi sempre bene, meglio dell’Università”. Non me ne voglia Gilardoni, ma questa affermazione mi ha fatto sorridere. Il cosiddetto anno di prova è stata una delle maggiori buffonate della mia carriera scolastica. Una sorta di pro-forma, con lezioni online dai contenuti molto discutibili ed un esame-farsa finale. La valutazione finale dell’anno di prova dovrebbe essere rigorosissima, e fermare quei docenti che non sono adatti all’insegnamento. Può essere che sia male informato, ma non sono a conoscenza, invece, di casi di docenti che siano stati licenziati per non aver superato l’esame finale dell’anno di prova. 
Settimo punto. “L’alternanza scuola-lavoro, sempre più capillare, è la negazione della presunta scissione tra i due mondi affermata nell’articolo”. L’alternanza scuola-lavoro è una realtà soprattutto negli istituto professionali. Ma quello che contestavo nel mio articolo è il fatto che la scuola italiana riproduce e giustifica la rigida separazione e gerarchizzazione tra sapere intellettuale e sapere manuale-professionale. Ora, gli studenti liceali potranno anche impegnarsi in un lavoro intellettuale, ad esempio presso un museo o una biblioteca: la realtà non cambierà di una virgola. 
Ottavo e decimo punto. “Il servizio sociale è prassi comune in tutte le scuole, dal volontariato organizzato dalla scuola al riconoscimento di quello già praticato in privato”. Confondere volontariato e service learning significa non conoscere il service learning. Anche questo è un segno della scarsa disponibilità al cambiamento ed alla sperimentazione di molti docenti italiani: qualsiasi proposta innovativa viene ricondotta, in men che non si dica e prima ancora di averla compresa, a qualche pratica consolidata, per giungere alla trionfante conclusione: “Ma noi questo lo facciamo già”. “Se poi si vuole proprio usare il modello statunitense (ma perché proprio quello, con tutti quelli, di gran lunga migliori, che ci sono?), si ricordi che quando la valutazione è internazionale, gli Stati Uniti non fanno proprio una bellissima figura”, aggiunge Gilardoni. Proporre il service learning non vuol dire affatto proporre un modello americano. Il service learning è diffuso praticamente in tutto il mondo, ed è una realtà importante in America Latina, dove si ispira alla pedagogia critica di Paul Freire. Esistono numerosi studi sui risultati positivi dell’introduzione del service learning su diversi aspetti: miglioramento dal punto di vista disciplinare, maggiore frequenza, maggiore partecipazione, migliori risultati in diverse discipline, e così via [2]. Se i risultati di un sistema scolastico che fa ricorso al service learning non sono i più brillanti nel confronto con gli altri paesi, bisognerebbe chiedersi quasi sarebbero i risultati senza il service learning (al di là del fatto che la metodologia è efficace su dimensioni fondamentali, come la formazione etica, politica ed alla cittadinanza, generalmente trascurate quando si valuta a livello internazionale l’efficacia di un sistema scolastico). 
Nono punto. “La separazione classista è una bufala, mentre invece conta la cultura dei genitori”, dice Gilardoni. Ma è esattamente quello che sostengo io, e che evidenziano numerose analisi del sistema scolastico italiano: la scelta della scuola secondaria, e la scelta di continuare all’università, riflettono la situazione di partenza della famiglia. Coloro che hanno genitori diplomati o laureati frequentano i licei, gli altri vanno ai professionali. Ed all’università vanno soprattutto quelli che hanno genitori a loro volta laureati. Il che vuol dire che la scuola italiana non fa che riprodurre e confermare le differenze di classe esistenti nella società.
Le critiche di Gilardoni, che mi hanno costretto ad una replica lunga, puntigliosa e probabilmente molto noiosa, non hanno sfiorato nemmeno il tema centrale del mio articolo, che è nella domande: che tipo di cultura si fa oggi a scuola? che senso ha oggi insegnare? possiamo insegnare oggi come venti anni fa? Nei libri citati di Recalcati e di De Conciliis ci sono delle risposte a queste domande meritevoli di considerazione. La mia risposta è che la scuola può riconquistare significato soltanto se docenti e studenti conquistano il senso della cultura come ricerca, lotta e costruzione comune di un mondo migliore, superando l’individualismo insito tanto nella concezione della cultura come formazione personale, quanto nella promessa di affermazione sociale e lavorativa. Si tratta, né più né meno, di quel “sortire insieme” di cui parlava Don Lorenzo Milani. 
Note 
[1] Rimando alla mia recensione su Educazione Democratica, n. 2, giugno 2011
[2] Si veda A. Vigilante, Il service learning: come integrare apprendimento ed impegno sociale, in Educazione Democratica, n. 7, gennaio 2014
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 7 marzo 2015.

Ripartire dai Rom

Durante la puntata di ieri (2 marzo) di Presa Diretta, una bravissima Dijana Pavlovic ha ricordato la tragedia delle sterilizzazioni di donne Rom in Svizzera dagli anni venti fino al 1974. Una storia che pochi conoscono, e che rappresenta la continuazione, nel cuore dell’Europa e in quello che si considera un paese civile, del Porrajmos, lo sterminio nazista dei Rom. Erano parole, quelle di Dijana, che meritavano di essere seguite dal silenzio: dalla riflessione, dal rispetto. Sono state seguite, invece, dall’ennesima manifestazione di razzismo. Il leghista Buonanno, uno dei rappresentanti più pittoreschi del movimento, dopo aver rovesciato contro i Rom le solite accuse, ha concluso: “Gli zingari sono la feccia della società”. Ed il pubblico ha applaudito. Chiunque dia addosso ai Rom, nel nostro paese, può essere sicuro di ricevere applausi: e di ottenere voti. Nei confronti dei Rom è in atto nel nostro paese una calunnia continua, sistematica e pericolosissima, che passa principalmente attraverso la disinformazione pseudo-giornalistica. E’ significativo il caso di qualche giorno fa: due ragazze Rom portate in questura a Siena sostanzialmente solo perché Rom, e denunciare per il possesso di tre cacciaviti. Il comunicato della Questura di Siena, ripreso dai giornali, era così titolato: “Fermate dalla Polizia due ladre con arnesi da scasso”. Un titolo che lascia intendere che le due ragazze siano state fermate per aver rubato, e non per il possesso di strumenti che, nella interpretazione della polizia, potevano servire per rubare (evidentemente, non si può fare a meno di notare, alcuni oggetti cambiano di funzione se posseduti dai Rom). E’ risaputo che molte persone si fermano alla lettura dei titoli: e quell’articolo, come tanti, avrà confermato il lettore medio nei suoi Molto conta, nell’alimentare l’odio, l’assurda convinzione che le donne Rom rapiscano i bambini. Una convinzione fondata sul nulla, ma che si alimenta costantemente grazie a pseudo-notizie giornalistiche. Per una donna Rom è molto facile finire in galera con l’accusa di aver tentato di rapire un bambino. Basta che gli si avvicini, magari solo per fargli una carezza. O anche meno. Nel 2007 a Maria Feraru, una donna Rom di 45 anni madre di otto figli, di cui uno malato di poliomielite, bastò il fatto di trovarsi casualmente vicino ad un bambino, sulla spiaggia di Isola delle Femmine, perché scattasse contro di lei l’accusa di volerlo rapire e finisse in galera. E può ritenersi fortunata, perché il processo nel suo caso ha consentito di accertare la verità. «Il gesto compiuto dalla nomade sulla spiaggia se posto in essere da una qualunque altro bagnante sarebbe stato interpretato quale manifestazione delle più varie intenzioni: dalla coccola verso il bambino, al tentativo di fermarlo mentre correva verso la strada”, ha ammesso il giudice. Una madre di otto figli è stata messa in galera per la sola colpa di non aver mantenuto una distanza di sicurezza tra sé e il bambino, evidentemente nemmeno per colpa sua, poiché era stato il bambino a correre verso di lei. In quanti avranno letto la notizia della sua scarcerazione? Quanti di quelli che, leggendo la notizia del suo arresto, si sono rafforzati nei loro pregiudizi, sono stati poi adeguatamente informati dell’innocenza della donna, ed aiutati a riflettere sulla gravità della cosa? 
Le donne Rom non rubano i bambini. Si può dire che non rubino in generale? Se si rispondesse alle infamanti accuse contro i Rom affermando che tutti i Rom sono onesti, si direbbe evidentemente il falso. Esattamente come si direbbe il falso se si sostenesse che sono onesti tutti i foggiani, o i napoletani, o i torinesi; o, ancora, che lo sono tutti gli onorevoli, compresi gli invasati ziganofobi leghisti. E’ una questione di percentuale, si dirà. Vero. E di percezione sociale, bisogna aggiungere. 
La nostra società è stratificata: ci sono i ricchissimi, i ricchi, la gente che se la cava, la gente che non ce la fa. I ricchissimi e i ricchi, quelli che stanno in alto, hanno molti poteri. Tra gli altri, il potere di far passare inosservati i loro reati. E di depenalizzare reati che, per la loro natura, causano danni profondi alla società. I ricchi sono per natura rispettabili; può essere che subiscano qualche processo, ma molto raramente finiscono in carcere. Le carceri invece sono piene di quelli che stanno in basso, i cui reati sono evidentemente imperdonabili. Detto in altri termini: in Italia, come altrove, c’è una giustizia di classe. 
Una giustizia che non è affatto uguale per tutti, come pretende; e ciò è uno scandalo, ed il fatto che di questo scandalo non si parli è uno scandalo anche maggiore. 
C’è ragione di ritenere che la commissione di reati sia più frequente ai due estremi della società: in alto e in basso. In alto, per la forza corruttrice del denaro e del potere e la facilità di farla franca, di cui ho appena detto. In basso, per necessità e disperazione, per mancanza di denaro e di lavoro, perché non si vede altra via per ottenere accesso alle risorse. 
Ora, consideriamo i Rom. Della ziganofobia fa parte la convinzione che essi siano naturalmente portati al furto ed alla delinquenza, e che rappresentino nel nostro paese un corpo estraneo, che è bene estirpare. Quest’ultima convinzione è errata non meno della prima. Una percentuale significativa di Rom – più del 60% – è in possesso della cittadinanza italiana. Sono italiani, con i diritti ed i doveri di tutti gli italiani. Quanto ai loro comportamenti delinquenziali, ammettendo che siano significativi, proviamo a darne una lettura diversa da quella etnica. La posizione dei Rom nella società italiana è di totale esclusione. In una immaginaria piramide, occuperebbero la base. Non sorprende che su di loro si scarichino tutte le tensioni della società. I Rom rappresentano una minoranza etnica sottoproletaria. Di queste due caratteristiche – l’essere minoranza etnica e l’essere sottoproletariato – vorrei evidenziare la seconda. Proviamo a interpretare i Rom come sottoproletariato. In quest’ottica, i loro reati acquistano un significato diverso. E’ noto che presso il sottoproletariato la frequenza di alcuni crimini è maggiore che in altre classi sociali. I sottoproletari rubano, violentano, estorcono eccetera molto più di altre classi sociali. Un confronto tra sottoproletariato Rom e sottoproletariato italiano sembra essere, da questo punto di vista, a tutto vantaggio del primo. I Rom non hanno creato vaste organizzazioni criminali come la camorra o la ‘ndrangheta, non hanno mai costretto negozi a chiudere per via del racket, non si sono mai infiltrati negli appalti. Al confronto con i criminali italiani, sono dei dilettanti. La loro è una sorta di delinquenza di sussistenza, disorganizzata, che non incide significativamente sul tessuto economico della comunità, a differenza delle grandi organizzazioni criminali italiane. 
Ogni gruppo sociale costretto ai margini e ridotto all’impotenza tenta, con gli strumenti che ha, di ottenere le risorse che gli occorrono. In una società che funzioni, nessun gruppo sociale deve far ricorso a strumenti violenti per la propria sussistenza. La società italiana è molto lontana dall’essere una società che funzioni. E’ una società fortemente diseguale, nella quale la ricchezza ed il potere sono concentrati nelle mani di pochi e la mobilità sociale è bloccata. In uno scenario simile, le attività delinquenziali dei gruppi marginali non possono che essere interpretate come segnali riguardanti il malfunzionamento dell’intero sistema.
Gli zingari sono la feccia della società, ha detto Buonanno. La feccia rappresenta lo scarto di una lavorazione, quel che resta di una trasformazione. In enologia, non è infrequente che la feccia venga chiamata “la mamma del vino”. Il cambiamento di cui abbiamo bisogno consiste nel riconoscere nella madre Rom che finisce in galera solo perché si è avvicinata a un bambino – anzi, solo perché un bambino le si è avvicinato – “la mamma della società“: quel residuo delle nostre logiche violente, discriminanti, omicide che occorre guardare in faccia e prendere per mano per cambiare la nostra società, prima che sia troppo tardi.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali.

La crisi culturale della scuola italiana

La qualità di un sistema scolastico è data da quattro cose: qualità della cultura, qualità delle relazioni umane, qualità dell’apertura alla società, qualità strutturale. Un sistema scolastico che funziona è un sistema nel quale la cultura è viva, piena di senso, tale da appassionare, le relazioni umane sono reciprocamente arricchenti e prive di violenza e di ipocrisia, le scuole non sono chiuse in sé ma partecipano alla vita sociale, alla quale offrono un loro contributo, e le strutture sono tali da rispecchiare l’importanza del lavoro che si svolge in esse. 
In questo articolo vorrei soffermarmi sul primo punto: la qualità della cultura nella scuola italiana. Ritengo che una delle ragioni della crisi della scuola italiana vada cercata nella crisi culturale, nel fatto cioè che a scuola non si fa – non si fa più o non si è mai fatta: se ne potrebbe discutere – cultura autentica. I docenti italiani si autorappresentano come coloro che formano le nuove generazioni al pensiero critico. Non c’è molto di vero in questa autorappresentazione. Per la sua stessa struttura, perfino per il setting delle aule, la scuola favorisce più il pensiero convergente ed il conformismo che il pensiero critico. Lo studente a scuola per lo più impara, spesso a memoria, le cose dette a lezione dal docente, che a loro volta rispecchiano quanto è scritto nel manuale, e lo ripete durante l’interrogazione. E’ lo schema dominante, ed è uno schema che ha poco a che fare con una vera formazione intellettuale. Lo schema è talmente consolidato, che molti docenti si chiedono sinceramente cos’altro si potrebbe fare. Fare scuola è fare lezione. Il docente parla, gli studenti ascoltano ed assimilano. Poi ripetono. 
Soffermiamoci ancora un attimo sulla figura del docente. Che si autorappresenti come formatore di coscienze critiche, mentre lavora in una istituzione conformistica, è cosa comprensibile. Il suo prestigio sociale ha subito un calo verticale negli anni, lo stipendio lascia a desiderare, spesso la sua stessa situazione lavorativa è precaria: a più di quarant’anni insegue ancora una supplenza, ed è spaventato da ogni annunciata riforma scolastica (ed ogni governo ne annuncia una). E’ comprensibile che rivendichi il suo fondamentale ruolo sociale. La sua frustrazione aumenterebbe, se si soffermasse a considerare il modo in cui è stato selezionato. Ad un docente in Italia non si chiede se non di saper insegnare la sua disciplina; che sappia anche far ricerca nel suo campo disciplinare è superfluo. In altri termini, il docente è uno che non produce cultura, ma la trasmette. Se scrivesse un libro, quel libro non avrebbe alcun peso sul suo curriculum; e la stessa cosa varrebbe se ne scrivesse dieci. Si giunge a questo curioso paradosso: un docente di scuola secondaria che superasse l’abilitazione per l’insegnamento universitario sarebbe adatto, appunto, ad insegnare all’università, ma questo non gli darebbe comunque alcun vantaggio nella scuola secondaria: non sarebbe titolo preferenziale, ad esempio, se volesse ottenere un passaggio di cattedra sulla disciplina per la quale è abilitato all’insegnamento universitario. Lo Stato stabilisce che puoi insegnare filosofia all’università, ma questo non ti avvantaggia per insegnare filosofia al liceo. Sono due mondi a parte, privi di qualsiasi punto di contatto. 
Una scuola che intendesse formare al pensiero critico dovrebbe avere docenti capaci loro stessi di pensiero critico: vale a dire docenti ricercatori. Il contatto tra scuola ed università dovrebbe essere costante e la produzione intellettuale dei docenti valorizzata anche economicamente. E’ significativo che le periodiche proposte di differenziazione dello stipendio dei docenti in base alle loro funzioni non considerino la produzione intellettuale. Non si vuole che guadagni di più il docente che scrive libri; meglio premiare quello che fa più progetti, quale che sia la loro utilità. 
Il docente che trasmette una pseudo-cultura condensata nei libri di testo è il primo aspetto della crisi della cultura scolastica italiana. Il secondo aspetto è la crisi di senso. Perché si studia? Che senso ha la cultura? A che serve? Alla domanda il docente-trasmettitore risponde con una certa sicurezza, almeno se è un docente liceale. Si studia per farsi una cultura personale, ossia per diventare persone migliori (perché è fuori discussione che il colto sia una persona migliore dell’incolto); e al tempo stesso così facendo si diventa persone affermate, che trovano un posto nella società. La risposta non convince per diverse ragioni. La prima è che è sempre meno vero che studiare serve a conquistarsi un posto nella società. Esiste oggi un nuovo proletariato intellettuale, super-formato, che insegue lavori precari a vita – un nuovo proletariato di cui spesso lo stesso docente fa parte. D’altra parte, la cultura scolastica non è che una parte – ed una piccola parte – della cultura reale, e non è da escludere che la cultura vera, quella viva, si trovi al di fuori delle aule scolastiche. Ma il punto decisivo è un altro. La concezione della cultura come formazione individuale pecca, appunto, di individualismo. Questo soggetto che passa anni ed anni a curare sé stesso, per di più in un contesto competitivo (perché la scuola è competizione), riuscirà poi a diventare un membro responsabile della società? Chi e quando gli ha insegnato a lavorare insieme agli altri per il bene comune? Quella che manca alla scuola italiana è la concezione della cultura come servizio: studiare non perché così divento migliore, né perché questo mi permetterà di far carriera, ma perché studiando posso dare il mio contributo al bene comune. Il mio studio ha senso solo se lo metto al servizio della società. Nelle scuole americane esiste una pratica, il service learning, che è la concretizzazione di questa percezione dello studio e della cultura. Gli studenti devono impegnarsi in attività in favore della comunità, legate al loro studio curriculare. L’aula scolastica non è un mondo chiuso, ma un luogo nel quale si studia la soluzione per i problemi della comunità locale. Il metodo è diffuso anche nei paesi latino-americani, come aprendizaje servicio, e si sta diffondendo anche in Europa. In Italia niente, o quasi. 
La cultura scolastica italiana risente anche della separazione, propria della tradizione occidentale, tra sapere intellettuale e sapere manuale e professionale. Una separazione che naturalmente si intreccia con le differenze di classe. Il sapere intellettuale è riservato ai figli delle classi borghesi, che frequentano il liceo classico e scientifico, mentre il sapere manuale e professionale è riservato ai figli del proletariato. La separazione classista nella scuola italiana funziona in modo infallibile. Ed è una separazione che impoverisce tutti: i professionali, sempre più squalificati, alle prese con carenze strutturali e problemi disciplinari, e gli stessi licei, condannati ad un sapere libresco che non trova alcuno sbocco in un fare, e finisce per avvitarsi su sé stesso. Non c’è grande pedagogista degli ultimi secoli che non abbia evidenziato il valore formativo del lavoro e della professione, e tuttavia la separazione tra le due culture resta quale segno distintivo della cultura scolastica italiana – riflesso di una società nella quale differenze sociali e di distribuzione della ricchezza e delle risorse sono più marcate che altrove in Europa, e la mobilità sociale è bloccata. 
La pseudo-cultura scolastica, libresca e astratta, senza contatto con un fare, è anche una cultura provinciale, miope, asfittica. E’ la cultura occidentale, con in primo piano quella italiana. Mica poco, si dirà. Poco, invece; pochissimo in una società globalizzata. E’ un pezzettino di cultura occidentale che nulla sa e nulla vuole saperne delle culture altre, sicura di sé e della propria superiorità. Il liceale si inorgoglisce per l’Iliade, ma nulla sa del Mahabharata; lo conoscerà, forse, uscendo da scuola, se è una persona curiosa; o forse non lo conoscerà mai, ritenendo che al di fuori dell’Europa non si sia scritto nulla di significativo. Dalla scuola italiana si esce con la convinzione che la civiltà europea sia la civiltà per eccellenza, che la Grecia abbia insegnato la democrazia al mondo, ed altre sciocchezze simili. Il resto non esiste, e merita al più una nota a margine, una digressione curiosa. La scuola italiana è strutturalmente non attrezzata per comprendere l’altro, al di là delle dichiarazioni di principio sull’interculturalità e l’accoglienza del diverso. Non lo è, perché è penosamente monoculturale, priva di curiosità per tutto ciò che è al di fuori dei sacri confini dell’Europa. La lezione, ancora onnipresente nella scuola italiana – e l’introduzione di LIM, computer e tablet non la mette realmente in discussione – è la metodologia perfettamente adeguata a questa pseudo-cultura, insieme al suo correlato materiale, il libro di testo. Rinunciare a queste due cose, o ripensarle profondamente, è il primo passo necessario per riappropriarsi di una cultura sensata. 
La verticalità del rapporto docente-studente va spezzata in favore della orizzontalità della comunità che apprende e che è in rapporto aperto e vivo con le diverse comunità che sono fuori dalla scuola. Fin dalle prime classi della scuola primaria, il bambino va abituato non a interiorizzate quello che è scritto in un libro, ma a cercare attivamente la conoscenza, a costruirla, a discuterla. Si tratta di passare da una scuola nella quale l’insegnante, unico soggetto (più o meno) attivo, imprime segni nella mente dell’alunno, ad una scuola nella quale docenti e studenti, membri di una stessa comunità di ricerca, imprimono insieme segni nella più ampia realtà sociale.
Articolo per Gli Stati Generali, 22 febbraio 2015.

Tolstoj, Kierkegaard e il crocifisso nelle aule dello Stato

In un paese che è stato governato per quasi cinquant’anni da un partito legato alla Chiesa – e governato male: con la corruzione, le stragi, la collusione con la mafia – non sorprende che dei docenti finiscano nei guai per aver staccato il crocifisso dalle pareti dell’aula. Succede a Trieste, dove Davide Zotti, docente di filosofia al Liceo “Carducci”, ha rimosso il crocifisso perché offeso da alcune dichiarazioni del cardinale Ruini sugli omosessuali. E succede a Terni, dove Franco Coppoli, docente di italiano e storia presso un Istitito tecnico, ha staccato il crocifisso dalla sua aula per rivendicare la laicità ed inclusività della scuola. Il primo ha subito il provvedimento disciplinare della censura, il secondo è stato sospeso dall’insegnamento per un mese. 
Le ragioni laiche per le quali il crocifisso non dovrebbe trovarsi in un’aula scolastica sono ben note e ben solide: perché il crocifisso è un simbolo religioso, ed un’aula non è un luogo in cui si facciano pratiche religiose, ma un ambiente di studio; perché il crocifisso è il simbolo di una religione, anzi di una sola confessione religiosa; perché la presenza del simbolo di una confessione religiosa è simbolo di chiusura verso chiunque sia di altra religione, o di nessuna religione. Ragioni ben solide che tuttavia sono destinate a restare inascoltate, poiché non hanno dalla loro la forza della maggioranza: ed è noto che, nella storia e nella vita civile, il prevalere di una ragione sull’altra è legato più alla forza della maggioranza che alla sua solidità. Un corollario di questa tesi è che, poiché la maggioranza, in Italia più che altrove, è spesso stupida, le buone ragioni sono per lo più ragioni sconfitte. 
Vorrei provare a spendere qualche parola per spiegare per quale ragione la presenza del crocifisso, oltre che offendere la laicità, offende la religione stessa. Lo farò ricorrendo a due pensatori tra i più religiosamente profondi dell’Ottocento: Lev Tolstoj e Soren Kierkegaard. Come molti sapranno, Tolstoj non è stato solo lo straordinario scrittore di Guerra e pace e Anna Karenina, ma anche l’appassionato ricercatore di una nuova etica e di una nuova religione, fondate sul principio della non resistenza al male e su una interpretazione radicale del Vangelo. In realtà non è così scontato che lo sappiano in molti, se si considera che il capolavoro del Tolstoj pensatore, Il Regno di Dio è in voi, è stato tradotto in italiano una sola volta nel 1894, ed ha poi avuto rare riedizioni di scarsa diffusione. Il suo pensiero, che gli valse la scomunica della Chiesa ortodossa, è tanto semplice quanto rivoluzionario. L’insegnamento del Vangelo è tutto concentrato nel Sermone della Montagna: la legge dell’amore, che afferma l’eguaglianza e la fratellanza di tutti gli esseri umani. Seguire questa legge, seguirla in modo non ipocrita né retorico, vuol dire cambiare radicalmente la propria vita e lottare per una società diversa: perché “il nostro ordinamento sociale è fondato, non come vorrebbero darlo ad intendere uomini interessati all’attuale ordine di cose, su basi giuridiche, ma sulla violenza più grossolana, sull’assassinio e sul supplizio” (L. Tolstoj, Il Regno di Dio è in voi, Bocca, Roma 1894, p. 304). E vuol dire, anche, lottare contro le chiese, poiché esse sono strutture di dominio fondate sul pervertimento del messaggio evangelico. Il Cristo esige un’etica purissima ed annuncia una società – il Regno – all’altezza di quest’etica; le chiese sostituiscono ad una tale etica una quantità di pratiche superstizione, ed intanto giustificano le violenze ed oppressioni dei forti sui deboli. Per Tolstoj la scelta è tra il Sermone della Montagna e il Simbolo della Fede. Tra il cristianesimo autentico, che è rivoluzionario ed esige una società senza oppressione, ed uno pseudo-cristianesimo che serve ad alimentare un clero che appartiene alla classe dei privilegiati. 
A conclusioni non troppo diverse era giunto in Danimarca una quarantina di anni prima Soren Kierkegaard, negli articoli pubblicati sulla rivista L’Ora, da lui stesso fondata. Se Tolstoj attaccherà la chiesa ortodossa, Kierkegaard attaccava quella luterana. Cosa vuol dire essere cristiani in Danimarca? Cosa diventa il cristianesimo, in uno stato in cui tutti sono cristiani? Il Cristo ha mostrato una via difficile, che esige decisione e sacrificio; ma ecco che essere cristiani è ora la cosa più semplice del mondo. E’ importante che essere cristiani sia facile, perché così saranno in tanti ad essere cristiani; ed è importante che i cristiani siano tanti, perché il loro numero serve a giustificare il potere degli ecclesiastici ed i loro stipendi statali. Se si volesse scientemente pervertire il cristianesimo, per Kierkegaard nulla sarebbe meglio che scegliere delle persone stipendiate dallo Stato per diffonderlo: esattamente quello che accade. Questo cristianesimo facile, agevole, che non richiede alcun sacrificio e che consiste, in buona sostanza, nell’essere bravi cittadini borghesi, è in realtà “una pura commedia di cristianesimo” (S. Kierkegaard, L’ora. Atto di accusa al cristianesimo nel regno di Danimarca, Newton Compton, Roma 1977, p. 76). Una tale cristianità si rende colpevole della più grave offesa che possa essere fatta a Dio: trattarlo come un idiota (ivi, pp. 38 e 54). 
Tanto per Tolstoj quanto per Kierkegaard il cristianesimo autentico e lo stato sono inconciliabili. “Il cristianesimo nel suo vero significato distrugge lo stato”, scrive il primo (Il Regno di Dio è in voi, cit., p. 254). Per il filosofo danese è piuttosto l’abbraccio mortale dello stato che distrugge il cristianesimo. La questione del rapporto tra cristianesimo ed il potere è non semplice. Nel Vangelo ci sono insegnamenti che sono autenticamente rivoluzionari, che se praticati fino in fondo hanno una reale valenza sovversiva: il Sermone della Montagna e l’etica della non resistenza al male. Ma Gesù è anche colui che invita gli ebrei, oppressi dai Romani, a pagar loro le tasse: perché questa e non altra, alla fine, è l’indicazione che viene dal “date a Cesare quel che è di Cesare”. Non è probabilmente azzardato ritenere che Gesù sia stato crocifisso proprio per questa affermazione, poiché secondo la concezione ebraica il messia è colui che difende il popolo ebraico dai suoi nemici e lotta per la sua liberazione. Da questo punto di vista, era effettivamente più messia lo zelota Barabba. In Paolo di Tarso l’accettazione dei poteri costituiti è anche più marcata. “Ogni persona si sottometta alle autorità che le sono superiori. Non esiste infatti autorità se non proviene da Dio; ora le autorità attuali sono state stabilite e ordinate da Dio. Di modo che, chi si ribella all’autorità, si contrappone a un ordine stabilito da Dio”, si legge nella Lettera ai Romani (13, 1-2). In Paolo c’è anche l’accettazione piena della schiavitù e l’invito rivolto agli schiavi ad obbedire ai loro padroni non solo perché sono padroni, ma perché così vuole Dio (Efesini, 6, 5-9). 
Queste prese di posizione furono decisive per l’affermazione del cristianesimo. Se avesse messo in discussione le autorità costituite ed una istituzione fondamentale del mondo antico come la schiavitù, il cristianesimo sarebbe stato spazzato via dalla storia, esattamente come è avvenuto al manicheismo. E’ grazie a questa accettazione dell’autorità – anzi, a questa giustificazione religiosa del potere romano – che il cristianesimo nel giro di pochi secoli è diventato la religione ufficiale dell’Impero romano, perseguitando tutte le altre religioni, a cominciare dal paganesimo. Se questa interpretazione non è sbagliata, le ragioni dell’affermazione del cristianesimo sono le stesse della crocifissione del Cristo (e della sua non messianità secondo gli ebrei). Il crocifisso alle pareti delle aule scolastiche e dei tribunali è il risultato di questa antica alleanza tra la Chiesa e lo Stato, della secolare giustificazione ecclesiastica delle disuguaglianze sociali, di quella ideologia religiosa che è servita per secoli a tenere al loro posto gli oppressi. 
Ora, qualcuno può legittimamente ritenere che il cristianesimo sia questo, e non altro. Che sia una religione d’ordine, che sta con i poteri costituiti, che si esalta nell’abbraccio con lo Stato. Ed i cui simboli è giusto che siano presenti nei luoghi dello Stato. Tolstoj e Kierkegaard (e molti altri: in modi molto diversi l’uno dall’altro Ernesto Balducci e Ferdinando Tartaglia, ad esempio, per restare in Italia) ritengono che al contrario il vero cristianesimo, quello insegnato dal vangelo, sia una religione rivoluzionaria, che contesta ordini e poteri costituiti, che trascende lo Stato con le sue miserie perché mira ad un assetto diverso, ad una piena fraternità e ad una compiuta giustizia, non nell’altro mondo ma già in questo. Se il cristianesimo è questo, allora mettere il crocifisso nelle aule dello Stato è una bestemmia: vuol dire costringere la potenza del messaggio evangelico nei miseri limiti dello Stato, la dirompente irragionevolezza del Sermone della Montagna e del principio della non resistenza al male nel cerchio borghese della legalità, ridurre il suo slancio etico alla ragionevolezza borghese del giudice e del maestro di scuola. Il fatto che siano ben pochi i cristiani che chiedono la rimozione dei crocifissi dai luoghi dello Stato dimostra che questo cristianesimo altro, questo cristianesimo inquieto ed inquietante, in lotta con il mondo perché “il mondo intero giace nel maligno” (1 Giovanni, 5, 19), è una luce che sta diventando sempre più fioca, ed è quasi prossima a spegnersi del tutto nel mondo industrializzato.

Articolo per Gli Stati Generali, 16 febbraio 2015.

Soggetti pericolosi

Stai passeggiando per una città d’arte, quando vieni avvicinato dalla polizia. Vogliono sapere che ci fai da quelle parti. Domanda strana: quella città, proprio perché è una città d’arte, è piena di gente che viene da ogni parte del mondo; e proprio a te vengono a chiedere che ci fai? Alla domanda, dunque, rispondi con un volto incredulo: e non è la risposta che a polizia si aspettava. E allora ti portano in Questura. 
Detto così, sembra l’inizio di un racconto kafkiano. Tutto acquista un senso, evidentemente, se si specifica che le protagoniste di questa vicenda sono di etnia Rom. Due ragazze Rom di di 21 e 26 anni, informa la polizia di Siena, sono state fermate nei pressi della Fortezza Medicea e, poiché “non hanno saputo giustificare la loro presenza nella nostra città”, sono state accompagnate in Questura. Evidentemente questa cosa di non saper giustificare la propria presenza da qualche parte dev’essere grave. Può essere che i poliziotti si siano offesi, perché le due ragazze non si sono lasciate andare ad elogi della città di Santa Caterina, delle sue bellezze e del cuore grande che ti apre, come assicura la scritta su porta Camollia. Alla ricerca d’una risposta, si sono messi a rovistare nell’automobile delle due ragazze, nella quale hanno trovato qualcosa di terribile: dei cacciavite. I quali, notoriamente, non sono aggeggi che servono per stringere le viti, e che come altri aggeggi di ferramenta possono tornare utili quando si è alla guida di un’automobile, ma attrezzi da scasso. Dal controllo emerge anche che l’automobile ha l’assicurazione scaduta. Brutta cosa, per la quale l’automobile è stata sequestrata e la proprietaria multata. Provvedimento doveroso e giusto. Ma come si giustifica l’ulteriore denuncia e il provvedimento di allontanamento da Siena per tre anni? “A seguito degli accertamenti svolti dalla Polizia Anticrimine della Questura, sono state infatti, ritenute persone pericolose per la sicurezza pubblica, anche perché entrambe non avevano alcun legame con il territorio, né svolgevano attività lavorativa nella nostra città”, si legge nel comunicato della Questura. 
Ragioniamo. Queste due ragazze sono state allontanate perché ritenute pericolose dal momento che “non avevano alcun legame con il territorio“. E allora? Hanno qualche legame con il territorio le decine e decine di giapponesi, tedeschi, inglesi che ogni giorno invadono le strade e le piazze di Siena? Per visitare una città, occorre avere un legame con quella città, oppure lavorarci? Può essere che ci siamo distratti: chi e quando ha stabilito che la libertà di circolazione può essere limitata dalla polizia se manca il “legame con il territorio”? Da chi e quando è stato stabilito che ci si può spostare solo verso luoghi con i quali abbiamo legami? Quando abbiamo perso la libertà di andare dove ci pare? Le due ragazze, definite senz’altro “ladre” nel comunicato della Questura, erano “probabilmente intenzionate a commettere furti in abitazione”. Che novità è questa, di punire qualcuno in base alle sue intenzioni? O meglio: in base a quelle che la polizia ritiene essere le sue intenzioni? Non per quello che ha fatto, ma per quello che vorrebbe o potrebbe fare? Chi e quando ha stabilito che si può essere destinatari di un provvedimento di allontanamento non se si possiede un’arma, anche non da fuoco, ma per il possesso di qualcosa che potrebbe servire, anche in modo improprio, per compiere un crimine? Quando e come abbiamo perso la libertà di andarcene dove ci pare senza dar conto a nessuno, e di portare dei cacciavite nell’automobile? 
Non l’abbiamo persa, in realtà. Possiamo andare dove ci pare, anche a Siena, se ci aggrada. Sostare alla Fortezza Medicea, andare al mercato alla Lizza, prendere il caffè da Nannini. Nessuno ci chiederà mai nulla. Possiamo tenere nel bagagliaio dell’automobile cacciavite, il cric e tutta la ferramenta che ci pare. Non siamo soggetti sospetti, noi. Non dobbiamo giustificare la nostra presenza da nessuna parte. 
Non siamo Rom, noialtri.
Articolo per Gli Stati Generali.