Perché non sono patriottico: lettera a una studentessa

Cara *, qualche giorno fa mi hai fatto osservare, con tono di rimprovero, che non sono patriottico. Una osservazione che mi ha spiazzato un po’: come docente credo di dover essere preparato, di dovermi aggiornare, di dover fare il possibile per insegnare bene, cose così. Non mi sono mai posto il problema se un docente debba anche essere patriottico. Vediamo di capirlo insieme. Ti rispondo pubblicamente perché pubblico è il mio lavoro: ogni cosa che faccio o dico in aula è per me lavoro politico e sociale, per il quale devo rispondere a te, ma anche alla più ampia collettività che mi affida l’istruzione e l’educazione di più di un centinaio di ragazzi.
Sul fatto che io non sia patriottico hai perfettamente ragione. Non lo sono per niente. Mi irrita, anzi, tutta la retorica che accompagna il concetto, la parola di patria. Non sono patriottico, soprattutto, perché è un atteggiamento che mi pare in contrasto insanabile con uno dei valori per me fondamentali: la giustizia. Che, per come la vedo io, non è separabile da un’altra cosa: l’equanimità. Per essere giusti occorre riuscire a vedere l’altro come sé. Una cosa che diventa difficile, perfino impossibile quando ci sono un noi e un loro, quando si tracciano confini che prima o poi diventano trincee.

Sappiamo tutti che l’egoismo è un male. E sappiamo anche che esiste una cosa diversa dall’egoismo, che invece è un bene: l’amore di sé. Se non amiamo noi stessi non possiamo nemmeno amare gli altri. L’egoista, invece, è incapace tanto di amare gli altri quanto di amare se stesso. Dietro la sua arroganza, dietro la sua violenza c’è una terribile fragilità. Ora, a me pare che il patriottismo sia una sorta di egoismo in grande. E che sia possibile, anzi necessario un amore di sé in grande. Possiamo chiamarlo amore per il proprio paese, semplicemente.
Mi sembra che nessuna immagine possa esprimere il modo in cui io vedo questo amore meglio di quella dei cerchi concentrici, usata da Gandhi. Come saprai, Gandhi era un nazionalista; una delle sue idee fondamentali è espressa dalla parola swadeshi, che indica il servizio reso al proprio popolo. Per Gandhi questa predilezione non era però escludente: il popolo indiano è inserito nel più ampio contesto dell’umanità, non è un cerchio chiuso, ma un cerchio compreso in cerchi più grandi, ai quali partecipa. Ora, sono convinto che un docente debba amare il proprio paese in questo senso. E che questo amore debba guidare la sua pratica di insegnamento. Una scuola democratica lavora per costruire una società aperta, capace di dialogo e di scambio, curiosa e attenta a cogliere e rispettare la differenza non meno che a cogliere e rispettare la propria identità. Ma lavorare in questa direzione vuol dire anche avere uno sguardo lucido sul male. Gandhi avrebbe reso un pessimo servizio al suo paese, se avesse mancato di denunciare lo scandalo dei matrimoni tra bambini, il fanatismo religioso, il disprezzo verso gli intoccabili, eccetera. Amava il suo paese, e per questo non poteva fare a meno di metterne a nudo i mali. Perché una ferita non vista non viene curata, e una ferita non curata va in cancrena e uccide.
Tra le ragioni per le quali ti sembro poco patriottico c’è il fatto che, come mi hai fatto notare, a lezione parlo di cose come i crimini compiuti dagli italiani in guerra e il nostro colonialismo. Dici che anche altri paesi hanno fatto guerre con i crimini che comportano, e che noi italiani abbiamo fatto e facciamo anche molte cose buone. Naturalmente sono d’accordo su questo secondo punto; non concordo con il primo, sia perché non tutti i paesi sono uguali, e ci sono colonizzatori e colonizzati – né posso mettere su uno stesso piano, in guerra, la Germania nazista e l’Inghilterra, pur venendo da una città che è stata quasi rasa al suolo dai bombardamenti inglesi – sia perché io non sono né inglese né tedesco, ma italiano, ed è giusto che mi preoccupi di quello che abbiamo fatto noi, che hanno fatto anche persone della mia famiglia, come mio nonno che è stato mandato in Etiopia ad uccidere gente inerme o mio zio che è morto congelato in Russia. Affinché non accada di nuovo, come si dice. Non sono troppo convinto, a dire il vero, che chi non studia la storia sia condannato a ripeterla (i fascisti studiavano la storia romana proprio per ripeterla), ma non credo nemmeno che tacere sulla vergogne del colonialismo italiano sia il modo migliore per aiutare gli italiani – e segnatamente i giovani – ad avere una coscienza esatta del proprio passato, e dunque del presente che da quel passato proviene. E lo stesso vale per gli altri mali.
L’Italia è un paese meraviglioso. Ma è anche un paese profondamente ferito. E’ un paese che ha la mafia, la camorra, la ndrangheta, la sacra corona unita, piaghe terribili che non riusciamo a combattere. Tutte cose alle quali solo con molta fatica e vincendo molte resistenze si è riuscito a dare un nome (ancora oggi vi sono città strozzate dalla mafia nelle quali parlare di mafia è tabù). E’ un paese che è stato spesso governato da gente collusa con quelle forze criminali e mafiose. E’ un paese in cui la corruzione è diffusa a tutti i livelli della vita sociale e del mondo economico, senza che vi siano le energie per ribellarsi e scrollarsela di dosso. E’ un paese che ha deciso di non investire in istruzione e cultura, con i risultati che tu e io verifichiamo ogni giorno: scuole che vanno avanti con enormi problemi strutturali, e quando va bene è un’aula che manca e bisogna inventarsi da qualche parte, quando va male è un tetto che crolla travolgendo qualche studente. E’ un paese in cui una evasione fiscale da capogiro non scandalizza nessuno, mentre si dà la caccia all’immigrato.
Tutti questi problemi possono essere affrontati solo se li si vede con assoluta chiarezza. Solo se ne siamo consapevoli ogni giorno, ogni minuto. E’ una consapevolezza triste, dolorosa, ma necessaria. Getta un’ombra sulla luce del Rinascimento, nella quale vorremmo che tutti ci vedessero, ma è l’unica via che abbiamo per sperare nella possibilità di un Rinascimento futuro.

Gli Stati Generali, 26 febbraio 2019.

La libertà di culto non vale per i satanisti?

Qualche giorno fa, a margine della risibile polemicuccia italiota riguardo le presunte invocazioni a Satana al festival di Sanremo, con immancabile presa di posizione del ministro dell’Interno, mi son chiesto sul mio profilo Facebook: “Ma esattamente perché le sette sataniche dovrebbero essere un problema? Non è grave che un ministro attacchi pubblicamente gli appartenenti ad una credenza religiosa? Che sarebbe successo se avesse detto che i protestanti, gli ebrei o i neocatecumenali sono un problema da combattere? Perché in questo paese non è possibile essere satanisti?”.
Il mio post ha inquietato assai alcuni bravi senesi, che improvvisandosi piccoli inquisitori di provincia hanno gridato allo scandalo per le mie parole di gravità inaudita, incompatibili con il mio ruolo di docente nel liceo cittadino. Quelle parole, dicono, dimostrano che il sottoscritto non può avere “le qualità morali richieste per un ruolo delicato come il suo quale quello di formare le giovani menti“. Per questi Torquemada in sedicesimo io avrei violato l’articolo 415 del Codice Penale: “Altrimenti, quando un domani troveremo tombe sfregiate, cadaveri vilipesi, animali trucidati per le strade, non vi lamentate”.
Non è naturalmente il caso di difendersi da questa accuse deliranti. Ci sarebbe da scrivere qualcosa su un certo ambiente provinciale che si scandalizza ogni tre per due, per il quale tutto ciò che esce dalla sacra triade Dio-Patria-Famiglia è eresia e fa sudare le mani e tremare le gambe, ma magari un’altra volta. Voglio scrivere due o tre cose sulla faccenda del satanismo e della libertà religiosa, che davvero mi sta a cuore.
Dunque: non hanno i satanisti diritto di seguire le loro credenze? Non è il satanismo un credo come un altro? La libertà di culto deve trovare un limite preciso nel solo satanismo?

Vediamo intanto la Costituzione. L’articolo 19 dice che “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume“. Ora, il concetto di “buon costume”, che qui costituisce unica possibile restrizione dell’altrimenti illimitata libertà religiosa, è estremamente controverso. Lo era molto meno quando la Costituzione è stata scritta, e nel Paese c’era un sentire comune, un modo di vita condiviso, un sistema pacifico di costumi e di usanze. Come pensare una cosa come il “buon costume” in una società complessa, nella quale si sono moltiplicati i culti religiosi, le credenze, le usanze, le scelte di vita? Dove esiste il criterio condiviso, unanime per stabilire quale costume è buono e quale no? Una lettura restrittiva dell’articolo riconduce il buon costume alla sola sfera sessuale, per cui bisognerebbe vietare tutti quei culti che prevedano pratiche sessuali promiscue e contrarie al comune senso del pudore. Ma, se è comprensibile che si vietino ipotetiche pratiche religiose a carattere sessuale in pubblico, cosa dire di pratiche private? Si può impedire ad adulti consenzienti di praticare sesso in privato attribuendogli un significato religioso? Se lo facessimo, saremmo ai tempi di Suor Giulia di Marco. Era il Seicento, e c’era davvero l’Inquisizione. Una interpretazione più ampia, e condivisibile, fa rientrare nei cattivi costumi le pratiche violente. E sarei abbastanza d’accordo. Poiché la sensibilità nei confronti della violenza sta crescendo, mi pare che si possa accettare il principio di vietare tutte le pratiche religiose a carattere violento. Ma non sono sicuro che una tale interpretazione estensiva colpirebbe (solo) i satanisti. Che dire, ad esempio, del rito del sabato santo a Nocera Terinese? Non è contro il buon costume colpirsi le gambe fino a farne fuoriuscire copiosamente il sangue, imbrattando le strade lungo le quali sfila la processione? Non è uno spettacolo terribile per i bambini? Bisogna poi considerare che l’evoluzione del senso comune porta molte persone ad avere orrore di ogni forma di violenza verso gli animali. Che dire allora delle tante feste del patrono durante le quali gli animali sono esposti, maltrattati, usati per divertimento, spesso rimettendoci la vita? Non sono riti contrari al buon costume?
Si dirà: ma i satanisti sono brutta gente; ci sono stati satanisti che hanno compiuto cose terribili. Vero. Come è vero che mentre scrivo si sta svolgendo in Vaticano un summit sulla pedofilia dei sacerdoti cattolici. Come è vero che non era un satanista, ma un predicatore cristiano il reverendo Jim Jones, responsabile della morte di 909 suoi seguaci. E potrei continuare con una lunga, lunghissima lista di crimini e di criminali.
Si dirà, ancora: ma il satanismo predica l’odio. Non necessariamente, in realtà; e non diversamente da molte religioni. Ma soprattutto occorre fare un discorso più complesso. La figura di Satana è legata a doppio filo alla spaventosa violenza che l’Occidente ha compiuto nei secoli nei confronti di diversi soggetti: gli ebrei, i non cristiani, le donne, i neri, eccetera. Se si analizza ognuna di queste forme della violenza occidentale, si scopre che la vittima è associata in qualche modo a Satana, e che ciò giustifica la sua soppressione. L’ebreo è satanico, e per questo può essere ucciso. La donna è satanica, e per questo può essere accusata di stregoneria e uccisa, non prima di aver abusato di lei sessualmente. I neri sono satanici: non è forse il nero il colore del Diavolo? E dunque la schiavitù non è un peccato.
Insomma: il cristianesimo predica l’amore, ma indica anche un Nemico terribile, assoluto. Ed è in nome di questo nemico che la religione dell’amore può praticare l’odio e la violenza più atroci. Basta che qualcuno sia associato o associabile al Nemico, per diventare oggetto di odio. E’ la stessa logica che conduce queste brave persone ad invitare “chi di dovere, a fare gli accertamenti del caso”. Perché il professore di liceo che invita al rispetto rigoroso della libertà religiosa ha osato parlare di Satana, e dunque è oltre il cerchio della rispettabilità. Lo si può associare ad ogni nefandezza, come “animali trucidati per le strade”. Una immagine, peraltro, evocata in modo davvero maldestro in una città come Siena, in cui non più di qualche mese fa un cavallo si è schiantato in piazza in un palio in onore della Madonna, morendo poco dopo.
Immagine: William Blake, Satan Smiting Job with Sore Boils, 1826.

La scuola e il vuoto

Le parole del ministro Bussetti sulle scuole del sud – “Vi dovete impegnare forte. Questo ci vuole. Lavoro, impegno, sacrificio” – sono una bestialità ed offendono lo straordinario lavoro quotidiano di migliaia di docenti meridionali. Bisogna dire però che la domanda del giornalista cui rispondevano è non meno bestiale: “Cosa arriverà di più qui al sud per recuperare il gap con le scuole del nord? Più fondi?”. Un giornalista che peraltro non aveva ascoltato, a quanto pare, quello che Bussetti aveva detto solo qualche secondo prima, e cioè che non esistono scuole del nord e scuole del sud, ma solo scuole italiane. Con buone ragioni. Ho insegnato per più di dieci anni in scuole del sud, dalle medie ai professionali e ai licei, e da qualche anno insegno in Toscana. Dove ho trovato scuole che hanno problemi gravissimi e che si trovano a fronteggiare problemi di forte disagio sociale senza avere i fondi necessari per acquistare anche quel minimo di strumentazione informatica richiesta dalla svolta digitale della scuola italiana.
Ma quella domanda rappresenta una bestialità soprattutto perché riduce i complessi problemi della scuola ad una semplice questione di fondi. Che la scuola abbia bisogno di investimenti è ovvio. Investimenti sulle strutture, che cadono a pezzi; investimenti sulla valorizzazione dei docenti, che sono malpagati e sempre meno socialmente apprezzati; investimenti nella sperimentazione educativa e didattica. Ma è ingenuo e superficiale ritenere che basti dare più soldi alle scuole per superare i numerosi gap del nostro paese, e non solo del sud.

La principale piaga italiana, nel campo dell’istruzione, è l’abbandono scolastico. Al di sotto dei 25 anni il 17,25% dei giovani hanno abbandonato la scuola prima di conseguire il diploma; siamo il penultimo paese nell’area OCSE. E l’abbandono scolastico è un sintomo di disagio sociale. Abbandona la scuola il ragazzino che non ci crede, alla favola bella che se ti impegni e studi e prendi una laurea poi otterrai un lavoro che ti consentirà di fare una vita come si deve; e non ci crede perché ha spesso dei docenti precari, che nonostante la laurea faticano a tirare avanti e pagare il mutuo, e perché conosce chi sta anche peggio: ragazzi con una laurea che sbarcano il lunario con lavoretti precari, quotidianamente umiliati da una società che non sa cosa farsene della loro preparazione e della loro passione. Ma abbandona la scuola anche, e più spesso, il ragazzino che non riesce a trovare una mediazione tra il suo mondo culturale e quello scolastico. Quando insegnavo italiano nelle scuole medie di Foggia mi capitavano studenti per i quali la lingua quotidiana era il dialetto. L’italiano una lingua straniera, ed estranei, ostili tutti i valori sui quali è centrata la scuola. Non basterebbe far le scuole d’oro per superare un gap di questo tipo, che è culturale. Bisognerebbe, piuttosto, cambiare la scuola. Da tempo diversi pedagogisti, inascoltati quando non derisi, cercano di attirare l’attenzione sulla questione dei compiti a casa, ad esempio. Un bambino seguito a casa da un genitore analfabeta è un bambino che in un momento essenziale della sua formazione, quello dell’applicazione delle conoscenze, è lasciato solo. Mentre altri bambini vengono seguiti, lui, che non ha che sé stesso, resta inevitabilmente indietro. Se è la famiglia a dover completare il lavoro della scuola, anche sul piano strettamente didattico, allora la differenza tra una famiglia colta e una famiglia di analfabeti diventa decisiva. Fatale. E’ uno dei meccanismi che fanno della scuola italiana una delle meno efficaci nel contrasto della disuguaglianza sociale. Un altro è la lezione frontale, che resta la base solida e indiscussa della scuola italiana, che può funzionare bene, forse, in condizioni di normalità, ma che in contesti difficili non può che lasciare il campo a metodologie più attive e coinvolgenti.
Più che di soldi, insomma, bisognerebbe discutere di che tipo di scuola vogliamo, di quale tipo di didattica e di educazione, e ovviamente (perché sempre di questo si tratta, quando parliamo di scuola) di quale società vogliamo. Ed è qui che appare evidente il vuoto di Bussetti. Il governo Renzi aveva provato a dare una direzione alla scuola. Una scuola centrata sulle tecnologie informatiche (con l’introduzione dell’animatore digitale, una figura di sistema, ma non pagata), sull’alternanza scuola lavoro, sul protagonismo dei dirigenti, sulla valorizzazione dei docenti più bravi o presunti tali. Una visione fortemente discutibile, ma pur sempre una visione. Il governo attuale non ha alcuna idea di scuola e di educazione, a meno che non si vogliano elevare al rango di idea le penose volgarità di Salvini sugli schiaffi educativi.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 10 febbraio 2019.

Massimo Cacciari e la lumpenfobia

Ho seguito oggi il convegno La discriminazione razziale fra diritto, etica e scienza presso l’Università di Siena. Mentre la sessione mattutina aveva un carattere tecnico giuridico, quella pomeridiana, su Politiche razziali, verità scientifica ed etica della dignità umana, comprendeva relazioni del genetista Telmo Pievani, del filosofo Massimo Cacciari e del giornalista Gad Lerner.
Non essendo né giurista, né scienziato, scrivo a caldo due righe sulla relazione di Massimo Cacciari. Il cui discorso per comodità sintetizzo nei seguenti punti:
1) Il razzismo è una ideologia. Qualsiasi dimostrazione scientifica sull’inesistenza della razza (sulla quale verteva il bell’intervento di Telmo Pievani) non coglie il punto. Ad una ideologia razzista bisogna contrapporre una ideologia antirazzista.
2) Questa ideologia antirazzista deve partire dalla dignità umana, che la nostra civiltà europea ha elaborato più di qualsiasi altra, sia nell’Illuminismo che nella tradizione teologica cristiana.
3) La dignità dell’uomo consiste nella sua possibilità di essere causa sui, nel suo non essere determinato dalla natura, ma di potersi scegliere liberamente.
4) Se la dignità umana consiste in questo, allora ogni volta che si chiude qualcuno in una definizione (tu sei questo) si sta offendendo la sua dignità. Ma il razzismo consiste appunto nel ridurre qualcuno alla sua presunta razza.
5) La libertà non è solo un diritto, ma un dovere. Io devo essere libero, devo corrispondere alla mia dignità.
6) La libertà non comporta alcun solipsismo. Io sono libero, ma presto scopro che non posso essere libero se non grazie e attraverso gli altri. Dunque non posso riconoscere la mia libertà senza riconoscere al contempo la libertà altrui.
Vediamo questi punti. Lasciamo per ora da parte il punto 1), e vediamo il punto

2) Le affermazioni sul primato dell’Europa o dell’Occidente in questo o quello celano pigrizia intellettuale, quando non sono espressione di semplice sciovinismo eurocentrico. Per dirne solo una: se la dignità dell’uomo consiste nella possibilità di essere, di prender forma liberamente, essa è già nel buddhismo, cinque secoli prima dell’era cristiana. Poiché esattamente come l’uomo di Pico, l’uomo buddhista può diventare di volta in volta animale o dio (letteralmente), o liberarsi del tutto dalle forme. Solo chi ignora (chi vuole ignorare) che la storia dell’Europa è stata una storia terribilmente violenta – una storia di violenza dell’europeo sull’europeo (le guerre di religione), ma soprattutto di violenza dell’europeo sull’altro (le crociate, lo schiavismo eccetera) – può ancora rivendicare per l’Europa la scoperta della dignità umana. Una dignità che evidentemente non è riuscita ad arginare l’orrore.
3) Che l’uomo possa essere causa sui, che possa essere realmente libero, è una affermazione che buona parte della tradizione filosofica occidentale – e non certo la peggiore – nega. In questa definizione, l’uomo è colto nella sua differenza dall’animale. Se l’animale può essere solo quello che la natura ha stabilito, l’uomo può scegliere di essere quel che vuole. Ora, questa operazione, che è in effetti tipica dell’Occidente, è pericolosa. Se la dignità dell’uomo consiste nell’essere diverso dall’animale, se ne deduce che l’animale non ha dignità. E se la dignità è ciò che dà valore, che rende una vita degna di rispetto, allora l’animale può non essere rispettato. E’ una operazione pericolosa, dicevo, perché storicamente è accaduto, e può sempre accadere, che la linea di separazione tra uomo e animale venga spostata, in modo da includere l’uomo stesso. Nel conflitto l’altro uomo è degradato ad animale: e se l’animale è l’essere non degno di rispetto, allora l’uomo animalizzato può essere ucciso. E’ quello che accade ordinariamente in guerra. Più che ribadire l’eccezionalità dell’uomo, bisognerebbe piuttosto attaccare la linea di separazione, che finisce per essere la linea che separa il sacro dal massacrabile. La stessa libertà umana, del resto, può essere usata come un argomento per giustificare il massacro. Per approfondire questa affermazione passiamo al punto
5) Dice Cacciari che la libertà non è un diritto, ma un dovere. Tu devi essere libero. E se uno non lo è? Il fatto che l’essere umano sia libero diventa presto un’aggravante verso di lui. La predilezione verso gli animali di molte persone che esprimono per il resto il più feroce razzismo ha qui la sua origine. L’animale, poiché non è libero, è sempre innocente.  Quando il nostro cane azzanna la rondine caduta dal nido, un po’ ci dispiace, ma presto ci diciamo che è la sua natura, e non può farci nulla. Non così l’essere umano. Lo straniero che ci figuriamo come feroce ha scelto la sua ferocia, non è stato sospinto da forze più grandi di lui. E’ noto il meccanismo delle attribuzioni: quando un reato è compiuto da un soggetto verso il quale si prova simpatia sociale, ad esempio un pensionato, si enfatizza la costrizione: ha dovuto rubare perché povero; quando si tratta di uno straniero l’attribuzione è interna: è lui che ha scelto di delinquere. Oppure scatta il dispositivo opposto: lo straniero viene sospinto al di là della linea di confine. Come essere umano potrebbe essere libero, ma lui ha rinunciato alla libertà, è venuto meno a quello che Cacciari considera un dovere, e per questo non ha più alcuna dignità umana. E’ come un animale, anzi peggio di un animale, perché l’animale non ha mai avuto la possibilità di essere libero, mentre lui l’aveva, e vi ha rinunciato.
4) L’uomo può prendere la forma che desidera, dice Pico della Mirandola. Non è proprio così, perché esistono i condizionamenti sociali, economici, culturali, ed anche un genetista avrebbe un nel po’ da dire. Ma può, certo, prendere alcune forme, in modo libero o meno che sia. Ora, una volta che ha preso una forma, quella forma non è definitiva, può sempre diventare altro, e al tempo stesso quella forma, pur provvisoria, lo definisce. Questo vuol dire che se da un lato chiudere qualcuno in una definizione è una violenza, può essere una violenza non minore rifiutarsi di considerare la definizione che qualcuno dà di sé. Un ateo potrebbe diventare credente, ma fino a quando resta ateo, pretende di essere riconosciuto non come essere umano in generale, ma come essere umano che non crede in Dio. Una moderna democrazia non è un patto sociale tra essenze umane proteiformi, ma tra individui che hanno assunto una identità per la quale chiedono riconoscimento. E non riconoscere questa identità circoscritta – provvisoria, magari: ma reale fino a quando c’è – significa violare i diritti umani.
6) Questo è, mi perdoni Cacciari, un teorema che ignora bellamente la complessità della realtà umana e sociale. Non occorre scomodare né Simmel né Freud per constatare che in società la mia libertà è fortemente contrastata, quando non negata. Se vivessi da solo la mia possibilità di azione, il mio potere, sarebbe limitato (e libertà e potere sono intimamente legati), ma anche vivere in società richiede una dolorosa rinuncia delle mie possibilità e pulsioni, a cominciare da quelle sessuali. Soprattutto, il teorema mette sul tavolo una moltitudine di individui, tra i quali immagina un patto sociale razionale. Ma questo patto finisce per istituire un individuo di secondo grado, che è il gruppo. Posso sentire che il mio gruppo è fondamentale per la mia libertà, ma un gruppo si costituisce in contrapposizione e spesso in conflitto con gli altri gruppi. In caso di carenza di risorse, l’individuo libero, investito di dignità, non si percepisce come un umano in generale, ma come il membro di un gruppo che (realmente o, più spesso, in modo immaginario) è danneggiato dall’azione di uno o più gruppi diversi. E quando ciò accade il gruppo diventa violento. Pronto al massacro, non senza prima una degradazione dell’altro ad animale.
La relazione di Cacciari mi sembra una espressione di un bias particolarmente diffuso tra i filosofi, consistente nel ritenere che i problemi storici, sociali, economici si possano risolvere con qualche trovata teorica più o meno edificante, conciliando le cose a livello ideale, quando non retorico. Senza uno straccio di dato sociologico, la questione del razzismo si risolve fin troppo facilmente. E naturalmente tutto resta come prima fuori dalle aule universitarie.
L’intervento di Cacciari era iniziato con uno spunto di grande interesse, purtroppo non sviluppato: il razzismo come discorso funzionale al potere. In origine c’è il dominio di un gruppo sull’altro; la distinzione di razza tra il primo gruppo e il secondo serve a giustificare questo dominio. Il bianco ariano domina il nero indigeno. E’ esattamente quello che sta accadendo oggi, ed è la ragione per la quale, se è importante ricordare che le razze geneticamente non esistono, qualsiasi discorso scientifico rischia di lasciare il tempo che trova. Il nuovo razzismo ha poco a che fare con la genetica. L’altro disprezzato, degradato, odiato, lasciato affogare non è connotato dall’appartenenza a una razza in senso genetico. Il gruppo cui appartiene è quello dei marginali. E’ per questa ragione che il nuovo razzismo può essere filosemita, e al tempo stesso esultare per il pazzo che butta via le coperte al clochard. Il razzismo è, oggi, lumpenfobia, se mi si passa il neologismo E’ odio dello straccione, del sottoproletario, di chi è sporco, che sia straniero o italiano. Il lumpen è un essere umano reale, non virtualizzabile; perché mi pare che questo nuovo razzismo sia, tra le altre cose, un effetto indesiderato di decenni di riproposizione televisiva di un mondo lindo, luccicante, perfetto, kitsch nel senso di Kundera, presentato come unico orizzonte umano desiderabile (e, sia detto per inciso, anche per questo immagini come quella di Aylan morto sulla spiaggia rischiano di essere controproducenti). E’ qualcosa che richiede molto più di qualche rassicurante considerazione sulla presunta natura umana.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 17 gennaio 2019.

Lettera aperta a un leghista foggiano

Gentile Joseph Splendido,

fino a qualche giorno fa ignoravo la sua esistenza; ieri l’altro mi sono imbattuto per caso nel suo profilo Facebook. C’era un video dell’incendio che qualche giorno fa ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, uno dei luoghi in cui una concezione feudale dei rapporti di lavoro – Fabrizio Gatti parlava semplicemente di schiavitù – costringe a vivere i lavoratori africani delle campagne della Capitanata. Baracche di lamiera e legno che spesso vanno a fuoco, come è successo lo scorso anno al Gran Ghetto di Rignano, dove sono morti tra le fiamme due braccianti del Mali, mentre ad agosto dodici braccianti hanno perso la vita mentre tornavano dal lavoro in uno dei tanti furgoni privi dei requisiti minimi di sicurezza con i quali il caporalato gestisce gli spostamenti dei lavoratori-schiavi. L’incendio dell’altro giorno ha fatto diversi feriti, alcuni gravi. Sul suo profilo lei ha commentato così: “La nostra Puglia continua a subire l’onta dell’illegalità e dell’immigrazione clandestina”. Ha ragione. E’ motivo di vergogna che esistano clandestini, e che siano costretti a vivere in baracche che vanno a fuoco. Ho qualche dubbio però sul fatto che si tratti di qualcosa che la Puglia subisce. Ma vorrei parlarle di un’altra cosa. Continue reading “Lettera aperta a un leghista foggiano”

L’ENI, l’Africa e noi

African Metropolis è la grande mostra che il MAXXI  di Roma dedica alla nuova arte africana. Un evento in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e con la partnership dell’Eni, che all’interno della mostra ha creato un suo spazio espositivo, DATAFRICA, con installazioni che presentano semplici dati sul continente, senza alcuna immagine. Un percorso interattivo tra cifre, mappe, diagrammi, che è accompagnato da una narrazione tranquillizzante. Nella pagina del sito dell’Eni dedicata all’evento è messa in bella mostra una citazione tratta dal Corriere della Sera: “Da parecchi anni noi investiamo in 14 Paesi africani, dall’Angola alla Nigeria passando per Congo e Mozambico, con l’obiettivo di affiancare all’attività estrattiva programmi di sostegno delle economie e delle comunità locali: centrali elettriche, impianti eolici, solare fotovoltaico per dare energia alle famiglie e alle imprese di vari Paesi. Ma anche investimenti in agricoltura e in riforestazione.”  A parlare è l’amministratore delegato Claudio Descalzi. Una narrazione che l’ENI ha, naturalmente, i mezzi economici per diffondere sulla stampa, compreso l’acquisto di un vistoso spazio pubblicitario sulla presente testata. Ma è una narrazione vera?

Consideriamo alcuni dati che con ogni probabilità mancano nel percorso del MAXXI.

161 su 180. E’ il posto che, secondo Trasparency International, il Congo francese occupa a livello mondiale nella classifica dei paesi con maggiore corruzione percepita.

15 milioni di euro. E’ la cifra irrisoria che, secondo un’inchiesta dell’Espresso, l’Eni avrebbe speso per acquistare, nel corrottissimo Congo francese, il Marine XI, un enorme giacimento petrolifero sottomarino. L’operazione sarebbe avvenuta attraverso un complesso sistema di società offshore.

1,3 miliardi di dollari. A tanto ammonterebbe, secondo la procura di Milano, la tangente pagata da Claudio Descalzi per l’acquisizione di una concessione petrolifera in Nigeria.

40 anni. E’ l’aspettativa di vita del Delta del Niger, dove si trovano la maggior parte dei pozzi petroliferi dell’Eni, mentre nel resto della Nigeria è di 53-55 anni.

2 milioni di euro. E’ il risarcimento che cinquemila abitanti di una tribù del Delta del Niger chiedono come risarcimento per un disastro ambientale avvenuto nel 2010.

11.000. E’ il numero di bambini che secondo uno studio dell’Università di St. Gallen, in Svizzera, sono morti entro il primo anno di età a causa delle perdite di petrolio nel Delta del Niger.  Secondo l’Eni e le altre compagnie petrolifere, lo sversamento di petrolio è dovuto alle azioni di vandalismo delle popolazioni, che cercano di spillare il petrolio dalle condutture per rivenderlo, ma non è da escludere che molte perdite siano dovute allo fatiscenza delle condutture. “Qualunque sia la causa – osserva Amnesty International -, secondo la legge nigeriana le compagnie petrolifere sono responsabile di contenere e ripulire le perdite e riportare le aree contaminate al loro stato originario. Tuttavia, ciò accade di rado. Di conseguenza, la gente nel Delta del Niger vive con l’impatto cumulativo di decenni di inquinamento”.

Corruzione, inquinamento, morte. Non compaiono nel giallo rassicurante dell’advertising di Eni, né nella retorica neo-coloniale che accompagna l’iniziativa, nella quale si parla perfino di “un futuro inclusivo”.

“Sono le bugie che sono state martellate / nelle tue orecchie per una generazione / […] E’ questo / caro amico, che trasforma il nostro mondo / in una tetra prigione”, scriveva il poeta nigeriano Ken Saro-Wiwa. Lo scriveva nel 1991, quattro anni prima di essere condannato a morte per aver reclamato i diritti della gente del Delta del Niger contro le multinazionali del petrolio.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 23 ottobre 2018.

Palio: il dialogo necessario


Siena ama i cavalli. E’ l’argomento ricorrente, in questi giorni in cui la città è tornata al centro delle polemiche per la morte di un cavallo durante il palio straordinario. Siena ama i cavalli: e dunque li protegge; e se qualcuno muore, è stata una fatalità. E’ lecito avere qualche dubbio, nel caso dell’ultimo palio, riascoltando quanto detto dal sindaco De Mossi in una intervista subito dopo la fine della gara. “Non fa mai piacere vedere un cavallo che cade però direi che il fatto che il lotto fosse di sette cavalli nuovi e quindi un po’ meno esperti della pista un pochino ha creato un po’ questa specie di palio all’antica, cioè con tanti cavalli scossi che era tantissimo che non vedevamo. E’ un po’ la cifra del palio, è una pista che necessita di un adattamento”, diceva De Mossi. Ma se sai che la pista necessita di adattamento, e mandi in pista dei cavalli che invece non hanno avuto il tempo di adattarsi, puoi aspettarti che qualche cavallo si faccia male, che qualche cavallo magari muoia.
Dopo la morte del cavallo della Giraffa (morte inattesa, perché il comunicato del Comune della sera del palio non lasciava affatto presagire un esito simile) il sindaco sul suo profilo Facebook ha risposto come segue alle polemiche: “Il dispiacere è di tutta la città che ama i cavalli e li rispetta, e non accetta provocazioni da chiunque abbia solo l’interesse a farsi pubblicità, non conoscendo la nostra cultura, tradizione, rispetto e cura dei cavalli.”

“Non fa piacere”, “il dispiacere”. La città è dispiaciuta, perché ama i cavalli. Non si fatica a crederlo. Ma il dispiacere è la mancanza di piacere – e certo sarebbe ben grave se una città intera si rallegrasse e provasse piacere per la morte di un cavallo -, non dolore. Non sono sicuro che De Mossi sappia interpretare i sentimenti della città. In molti la vista di un cavallo che si lancia a fortissima velocità contro una curva e si spezza una gamba suscita qualcosa di diverso dal semplice dispiacere. Suscita ribrezzo, scandalo, dolore. E no, non si tratta di “presunti” animalisti. Si tratta di animalisti veri, ma anche di molta gente senza etichette, cui la violenza sugli animali fa orrore (e per fortuna di gente così ce n’è ancora molta). E molti di questi sono senesi. Contradaioli nei quali la morte di Raol ha suscitato non meno dolore che negli animalisti. Con l’aggiunta di una ancora più dolorosa dissonanza cognitiva, perché quel fatto terribile è in contrasto con molte cose cui attribuiscono il massimo valore: la tradizione, l’identità, la festa collettiva. Un dramma psicologico-culturale che la rozza difesa del sindaco non riesce e cogliere. Nelle sue parole sembra esserci un altro processo psicologico: la proiezione. Perché ritenere che chi critica il palio sia mosso da bassi interessi non è solo una forma particolarmente puerile di processo alle intenzioni; è una uscita surreale, dopo un palio straordinario che, nella lettura di molti, è stato anche, se non principalmente, una audace mossa politica.
C’è poi, nelle sue parole, quella che potremmo chiamare la mistica della senesità. Chi critica il palio non conosce la storia e le tradizioni di Siena, è uno che semplicemente non può capire. C’è del vero in questa affermazione, come c’è molta verità nell’affermazione che Siena ama i cavalli. Siena ha una struttura sociale diversa da qualsiasi altra città italiana, ha nelle contrade una ricchezza straordinaria, che difende con le unghie e con i denti. Ma la vita delle contrade gira intorno al palio. Se si abolisse il palio, come qualcuno auspica, Siena non esisterebbe più, semplicemente. Quando si vive in un sistema sociale e culturale diverso dagli altri, tuttavia, si rischia di non essere compresi dagli altri, ma anche di non comprendere gli altri. Siena è una città unica, ma è anche una città italiana, per la quale valgono le leggi comuni. Compreso l’articolo 544-quater del Codice Penale: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque organizza o promuove spettacoli o manifestazioni che comportino sevizie o strazio per gli animali è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa da 3.000 a. 15.000 euro”. O come l’articolo 588, che stabilisce che la rissa è reato, senza fare sottili distinzioni antropologiche tra la rissa vera e propria e i fronteggiamenti tra contradaioli.
Che fare? Ieri il Consorzio di Tutela del Palio ha diramato il seguente comunicato: “Il Consorzio di Tutela del Palio, riguardo alle polemiche seguite all’incidente che ha coinvolto il cavallo Raol raccomanda a tutti i contradaioli di non rispondere a titolo personale a comunicati o post sui social. Comune e Consorzio sono all’opera per gestire l’esplosione mediatica sull’accaduto. Nelle prossime ore è plausibile un ulteriore massiccia intensificazione di commenti. Si invita a segnalare al Consorzio ogni nuovo servizio, articolo o post. La mail per segnalare: info@ctps.it. Aggiungere nella mail il nome di chi lo ha pubblicato e in quale social è stato trovato. Il Consorzio garantisce la tutela al cittadino che segnala.”
Ora, è evidente che gli scambi di insulti sui social non portano nulla di buono, ma questa chiusura dai toni non troppo vagamente minacciosi non è una grande alternativa. L’alternativa è il dialogo. Un dialogo che è possibile solo se c’è un riconoscimento reciproco. Non ci sono da un lato persone sanguinare che si divertono a torturare e uccidere cavalli e dall’altra pseudo-animalisti che attaccano il palio solo per visibilità. Il principio del valore della vita animale, che è per gli animalisti ed antispecisti una ragione di vita, è valido anche per i senesi, segnatamente per quanto riguarda i cavalli. Per questo il dialogo è possibile, oltre che necessario.

Nella foto: i cavalli prima del palio del 20 ottobre. Foto di Antonio Vigilante.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 23 ottobre 2018.

La capotreno e il rispetto delle regole

E’ l’eroe, anzi l’eroina del giorno la capotreno che in Sardegna ha costretto a scendere dal treno alcuni passeggeri stranieri sprovvisti di biglietto. Il ministro Salvini ha postato il video sul suo profilo Twitter commentando soddisfatto: “Questo non lo vedrete nei tigì, facciamo girare! Onore a questa capotreno che, in Sardegna, fa scendere un gruppo di scrocconi. Il clima è cambiato, #tolleranzazero con i furbetti, anche con un uso massiccio delle Forze dell’ordine. Se vuoi viaggiare, PAGHI come tutti i cittadini perbene!”.
Guardiamo il video. “Alzati subito! Alzati subito! Alzati!”, dice la donna a una passeggera dalla pelle nera. Poi si rivolge ad altri cinque passeggeri, anch’essi neri, tra cui un bambino: “Anche voi, forza. I signori non perdono tempo per voi”. Un uomo ha difficoltà di deambulazione. La donna commenta: “Non me ne frega niente della tua gamba, sei giovane e te ne vai a lavorare e ti paghi un biglietto”. Quando sono nel corridoio, pronti a scendere, si sente ancora la voce della donna, rivolta ad altri passeggeri sull’altro lato della carrozza: “Eh, forza eh, scendere anche voi due col bambino. Meglio eh. Scendi, scendi. Dai il buon esempio a tuo figlio. Sei venuta in Italia? Gli dai il buon esempio”. E poi, quando già stanno scendendo: “”Ti tiro giù a calci in culo”.

“Se hai dubbi chiediti: sarei contento di essere trattato così?”, si legge nel Codice etico di Trenitalia. Dal momento che sì, ho dubbi, la domanda me la pongo: mi piacerebbe essere trattato così, se fossi su un treno senza biglietto? E la risposta è: no. Per niente.
Non mi piacerebbe, per cominciare proprio dalle base, che il personale di bordo mi si rivolgesse dandomi del tu. In Italia tra persone adulte che non si conoscono ci si dà del lei; il tu viene rivolto dagli adulti ai bambini o agli adolescenti. Se non ho pagato il biglietto ho sbagliato, senza alcun dubbio. Ma non c’è errore che possa giustificare la mancanza di rispetto di chi deve solo applicare la legge.
Non mi piacerebbe che mi si minacciasse di prendermi a calci in culo. Per la legge italiana è un reato, ed un reato anche abbastanza grave.
Non mi risulta, poi, che la pena(le) prevista per chi non ha pagato il biglietto sia l’allontanamento dal treno. Le Condizioni Generali di Trasporto di Trenitalia prevedono che in caso di controllo il viaggiatore sprovvisto di titolo di viaggio venga “regolarizzato con il pagamento dell’importo dovuto e l’applicazione di importi aggiuntivi”. Solo “in caso di mancata identificazione del viaggiatore, viene chiesto dal personale di bordo l’intervento delle competenti autorità e può non essere consentita la prosecuzione del viaggio”. In questo caso i trenta viaggiatori (secondo la quantificazione della stessa capotreno nel video) sono stati identificati? Erano tutti senza documenti? Pare improbabile. E’ molto più probabile che siano stati costretti a scendere dal treno (senza la minima resistenza da parte loro) per non aver pagato il biglietto, e non per essere sprovvisti di documenti. Ma se così fosse, la cosa costituirebbe un abuso gravissimo. Per un comportamento simile un capotreno veneto è stato condannato per tentata violenza privata.
Non mi piacerebbe nemmeno dover subire la morale. Non siamo, per fortuna, in uno Stato etico. Chi deve applicare la legge è bene che la applichi, ma nessuno, nemmeno un giudice, ha il diritto di fare la morale a chicchessia. Nessuno ha il diritto di fare pubbliche valutazioni moralistiche sul mio conto, e meno che mai di farle davanti a mio figlio. Devo pagare il biglietto, se non l’ho pagato: non devo rendere conto del mio lavoro, delle mie scelte di vita, del mio essere in Italia, dell’educazione che intendo dare a mio figlio.
Né mi piacerebbe che la mia umiliazione venisse ripresa con un cellulare, mostrata a milioni di persone attraverso i social network e rilanciata con soddisfazione da un ministro. 
Ritenere che il mancato rispetto delle regole sia ragione sufficiente per il mancato rispetto dell’essere umano è una china pericolosissima, che ha a monte un capotreno giustiziere e a valle un ragazzo pestato a morte.
[Gli Stati Generali, 15 ottobre 2018]

Quant’è falso (e pericoloso) Dio

Superati i settant’anni Sergio Givone, che conosciamo come uno dei massimi filosofi italiani, s’accorge d’aver sbagliato mestiere e ci consegna un’enciclica: Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018). Il titolo è azzeccato, e davvero rincresce che non sia venuto in mente a qualcuno degli ultimi papi, ai quali non si può rimproverare, tuttavia, di non aver pensato quello che si trova oltre il frontespizio. La tesi è semplice semplice, ed è tutta nel sottotitolo: non possiamo fare a meno della religione, perché se neghiamo Dio finiamo per negare anche l’uomo. Sì, Dostoevskij: se Dio non esiste, tutto è permesso. Poiché centottanta pagine bisogna pur riempirle, Givone aggiunge Berdiaev, Pareyson. Agamben e perfino un po’ di Habermas. Fosse stato più audace, avrebbe aggiunto anche un Ferdinando Tartaglia, e il discorso forse sarebbe diventato più interessante. Così com’è, non è che una stanca, piatta, inutile variazione su uno dei temi più stantii della pubblicistica cattolica degli ultimi decenni.
Primo compito d’un filosofo dovrebbe essere il rigore: rigore nell’argomentazione, rigore nella definizione dei termini. Che cosa vuol dire che non possiamo fare a meno della religione? Noi chi? Noi esseri umani, noi europei? E cos’è la religione? E cos’è Dio? Quale Dio? Non uno di questi concetti è scontato. Esistono religioni senza Dio, come il buddhismo. Givone sostiene che dopo duemila e cinquecento anni i buddhisti non possono, ora, fare a meno di Dio? Ma lo stesso buddhismo è poi una religione? Il concetto indiano di dharma solo molto approssimativamente può essere ricondotto a quello occidentale di religione. Di cosa abbiamo allora bisogno? Continue reading “Quant’è falso (e pericoloso) Dio”

Poesia della natura offesa

Seduto su un colle, il poeta si abbandona a considerazioni sull’infinito contemplando una siepe, oppure interroga la luna, che si staglia in un cielo intatto. Ma che accade se, dando uno sguardo alla siepe, vi trova impigliato un sacchetto di plastica, oppure al di là di essa scorge una discarica? Che accade se il suo solitario colloquio con la luna è disturbato dal passaggio di un volo di linea? Non ha che due possibilità. Può fingere di non vedere, rattristandosi magari per la sfortuna di essere nato in tempi in cui la pura contemplazione della natura e del paesaggio è contrastata da elementi cosi prosaici e antiestetici, oppure può fare poesia della siepe e del sacchetto di plastica, della luna e dell’aereo. E questo realismo poetico – perché dire il reale oggi significa dire la discarica non meno del bosco – può prendere provocatoriamente la direzione della ricerca di una nuova bellezza, che nasca dall’incontro della siepe con il sacchetto di plastica (si pensi alla scena del sacchetto di plastica, appunto, nel film American Beauty di Sam Mendes) oppure farsi strumento di denuncia e di cambiamento.
E’ quest’ultima la via della ecopoesia, nata sul finire del secolo scorso nel mondo anglosassone. Naturalmente non sono mancati, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, poeti in grado di interpretare la crisi ecologica: si pensi a Gary Snyder oppure all’ultimo Danilo Dolci e, in tempi più recenti, all’impegno di Marcia Theophilo per la difesa dell’Amazzonia, ma si è trattato della sensibilità di singoli, mentre l’ecopoesia intende essere un movimento poetico-politico-pedagogico con un suo preciso programma. Nel Manifesto dell’ecopoesia italiana, scritto nel 2005 dalla biologa Maria Ivana Trevisani Bach, l’ecopoeta appare come colui che “testimonia i diritti di quei viventi che non hanno diritti”. Si tratta naturalmente di qualcosa di più di una testimonianza: il passaggio dal non avere diritti all’averne avviene grazie al cambiamento nella sensibilità pubblica, ed è un cambiamento nel quale l’arte – la poesia, ma anche la pittura, la fotografia e il cinema – può avere un ruolo decisivo. Mentre la filosofia morale si sfinisce in discussioni teoriche – come dimostrare il valore di una vita animale? – la fotografia di un animale sottoposto a vivisezione può suscitare quel disgusto da cui parte il cambiamento. E lo stesso può dirsi per la poesia. Non è un caso che in passato, quando i mezzi tecnologici non consentivano di riprodurre la sofferenza animale, si ricorresse alla poesia ed all’arte come completamento della riflessione filosofica. Ne è un esempio The Cry of Nature di John Oswald, piccolo classico dell’etica del non umano  scritto da un pensatore vicino a Thomas Paine morto in Francia combattendo per gli ideali rivoluzionari, che nei momenti decisivi del suo discorso ricorre alla voce dei poeti – in particolare Le Stagioni di James Thomson – per suscitare emozione, oltre la riflessione.
C’è il rischio di intellettualismo, di fare della poesia a tema (qualcuno direbbe: ideologica), ma rettamente intesa l’ecopoesia non fa nulla di diverso dalla poesia tout court: fa attenzione. Fa attenzione agli esseri, alle cose; all’esteriorità, all’interiorità; ed al legame che unisce esseri e cose, esterno ed interno. Ciò che cambia è la direzione dello sguardo, la dimensione dell’attenzione. Nell’ecopoesia ciò che normalmente fa da sfondo passa in primo piano. Un esempio riuscito di questa disciplina dello sguardo è Intatto. Intact, di Massimo D’Arcangelo, Anne Elvey e Helen Moore (La Vita Felice, Milano 2017; prefazione di Serenella Iovino, cura e traduzione dall’inglese di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, traduzione dall’italiano di Todd Portnowitz). Gli autori provengono da mondi culturali diversi: pugliese d’origine, D’Arcangelo vive a Siena; poeticamente proviene dal Realismo Terminale di Guido Oldani, una delle correnti più innovative della poesia italiana contemporanea; Anne Elvey, australiana, oltre che di poesia si occupa della intersezione tra teologia, politica ed ambiente; Helen Moore, scozzese, è autrice di Ecozoa, uno dei testi fondamentali dell’ecopoesia, espressione poetica della ricerca di un’Era Ecozoica come alternativa all’Antropocene, un nuovo equilibrio tra comunità umana e mondo naturale. Il loro sguardo, lo sguardo dell’ecopoesia, si posa su ciò da cui il nostro sguardo è costantemente distratto: il rifiuto, lo scarto, il residuo, “il lato oscuro del progresso” (D’Arcangelo), ma anche la sofferenza animale, il camion carico di animali da condurre al macello (“Pigiati / insieme e ammassati, i manti delle pecore / erano intrisi di benzina”: Anne Elvey; “[…] il ventre della bestia squartato / mentre gli zoccoli possenti, amputati, suoneranno sordi / sulle mattonelle del macello in un oceano miasmatico di sangue / in u tumulto crepitante di bava bianca ondeggiante”: Massimo D’Arcangelo). Oppure i fiori che spuntano ai margini della strada presso una piazzola di sosta, la celidonia, le campanule, le stellarie assediate mozziconi di sigaretta e bicchieri di plastica, ritratti con sensibilità competente da Helen Moore in Sonnet of the Verge (Sonetto al margine). O ancora il fior di vespa minacciato dal trattore: “Come possono queste creature sviluppare / un mimetismo così ingegnoso / e apparire tuttavia ignare / della nemesi che incombe?” (Helen Moore). Ma è anche poesia della stessa sofferenza umana, perché (scrive Elvey): “C’è a malapena un grado di separazione / quando la lama penetra, quando il mortaio / azzanna”.
E’ una poesia dei margini, non della natura venduta dalle agenzie di viaggi, ma di quella che ci passa accanto ogni giorno, la natura che resiste accanto all’umano, o che quotidianamente soccombe. E’ una poesia che ci pone una domanda nuova: cos’è il non umano? Cos’è l’animale? Cos’è la pianta? E’ solo il non, il negativo che si contrappone al positivo dell’umano? Ha qualche valore? “Né persone né cose” è il titolo di una poesia di Anne Helvey. Persona è un concetto chiave di una corrente della filosofia contemporanea. Una filosofia che afferma la dignità dell’essere umano, l’unico che possa considerarsi, appunto, persona, un essere in dialogo con Dio. Non essendo persone, gli esseri non umani finiscono inevitabilmente per diventare cose: strumenti, oggetti, cibo, quando non ornamento. Siamo pienamente consapevoli di quanto questa visione del mondo sia portatrice di morte non solo per la vita non umana, poiché la riduzione a cosa (la considerazione del mondo come un esso e non come un tu, per dirla con Martin Buber) finisce presto per colpire lo stesso essere umano, condotto al macello non meno dell’animale se è un nemico, reso strumento docile di sfruttamento intensivo se è un lavoratore, risorsa umana. Occorre, e la filosofia lo sa da tempo (perfino la teologia cerca di aggiornarsi), un nuovo sguardo, che tuttavia fa fatica ad affermarsi contro la ripetizione ossessiva e mediatica l’imperativo della società dei consumi: usare il mondo.  Questa poesia “solidale con il mondo” (così Serenella Iovino nella bella prefazione), in dialogo con altre forme artistiche (l’incrocio e la reciproca fecondazione dei linguaggi è una caratteristica del movimento ecopoetico) e con la stessa filosofia può tentare ciò che sembra impossibile: il balzo oltre la sindrome ossessivo-compulsiva del dominio-consumo.
Nell’immagine: Meggs & Phibs, Message in a Bottle. Murale realizzato a Napier (Nuova Zelanda) per sensibilizzare sul tema rispetto dell’ecosistema. Fonte: https://art-facto.today/eng-pangeaseeds-sea-walls/
Gli Stati Generali, 2 settembre 2018.

La caccia è un pericolo per tutti

Non sapevo che fosse cominciata la stagione della caccia. Me lo hanno annunciato, questa mattina alle sette, le fucilate intorno a casa. Abito in una delle ultime case di un borgo sui colli senesi, in una via che si inoltra nella campagna, che la gente del luogo chiama “strada dei caprioli”: non è infrequente che un capriolo ti attraversi la strada. Quando vi portavo la mia cagna bisognava fare attenzione, perché l’istinto la portava ad inseguirli ed a perdersi con loro nei campi. La mia cagna, che non c’è più da quasi un anno, era una meticcia che aveva molto del segugio. Era stata abbandonata da un cacciatore perché poco abile. Il giorno prima che morisse le abbiamo fatto dei raggi: aveva – chissà da quanto – dei pallini nella gola, residuo di una fucilata.
Nel pomeriggio c’è stato un acquazzone, ora è tornato il sole. E sono tornate le fucilate.
Mentre loro sparano, io rifletto un po’. Lascio da parte ogni considerazione sugli animali. Credo che gli animali abbiano diritto alla vita, e che ucciderli per divertimento sia un atroce insulto alla vita, ma non è di questo che voglio parlare ora. Mi interrogo sul rischio che la caccia rappresenta per le persone e sulle contraddizioni singolari di questo paese. Non è difficile trovare dati sulla pericolosità della caccia. L’ultima stagione venatoria ha fatto 84 feriti e 30 morti. Dei morti, dieci erano persone estranee alla caccia. Dieci persone che hanno perso la vita perché altre persone volevano divertirsi andando in giro a sparare. Tra i morti c’è anche un minore. Ed è il dato sui minori il più agghiacciante: tra il 2007 e il 20015 sono stati uccisi dai cacciatori undici minori. Undici. Undici vite di bambini e adolescenti stroncate.

Dicevo delle contraddizioni. Viviamo in un paese ossessionato dalla sicurezza. Un paese in cui, nonostante tutti i dati dicano che da molto tempo ormai i reati più gravi, a partire dagli omicidi, sono in calo verticale, la gente ha una paura terribile. Una paura che esige poliziotti di quartiere, videocamere, uno spazio pubblico sempre più blindato, fogli di via sempre più facili per chiunque sia percepito come un pericolo, con il rischio sempre maggiore di violazioni. Una paura su cui si costruisce il successo politico. Ma come si spiega che gli stessi politici che alimentano l’ossessione per la sicurezza siano favorevoli alla caccia? Poco più di un mese fa Salvini ha difeso a spada tratta i cacciatori: “Giù le mani dalle nostre tradizioni, dalla nostra storia dalla nostra cultura. Se non ci fossero nei nostri boschi coloro che i nostri animali li amano e li curano sarebbero problemi per tutti”. E’ un esempio particolarmente efficace di quella offesa aperta, sfacciata alla verità che è propria del linguaggio dei regimi totalitari: chi insegue, stana ed uccide degli animali diventa uno che gli animali li ama e li cura. Ma, ripeto, qui non voglio parlare di animali. Mi interessano le vittime umane. Mi interessano le decine di bambini e ragazzi uccisi dai cacciatori. Mi interessa sapere che, quando avrò un figlio, tra quelle vittime potrebbe esserci anche lui. Tradizioni, storia, cultura? La caccia? Qualcuno dovrebbe informare Salvini che l’umanità è uscita dalla fase di caccia e raccolta da qualche millennio, e che legare la cultura italiana alla caccia è una delle offese più grandi che si possa fare a un paese che ha espresso ben altro, sul piano culturale. Ma soprattutto dovrebbe chiedergli quale risposta dà, “da ministro e da padre”, a chi per quella tradizione e cultura (più probabilmente: per qui volgarissimi interessi) ha perso un figlio.

Gli Stati Generali, 1 settembre 2018.

Cosa dovrebbe dire un ministro dell’istruzione (e cosa non dirà)

Credevamo che, per qualche accordo interno al governo, il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti avesse delegato (non diversamente dal premier Conte) le sue funzioni al ministro dell’Interno, dal quale sono venute, negli ultimi tempi, precise e preziose indicazioni pedagogiche, che vanno dal prendere a sberle i ragazzi al mandarli in caserma per farsi educare dai soldati. Ci sbagliavamo, perché Bussetti qualche idea l’ha. E la comunica al Corriere della Sera. Ecco: “Dobbiamo cambiare impostazione della didattica; usare le nuove tecnologie, insegnare a relazionarsi con i social media, valorizzare il public speaking e il debate, puntare sulle materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). Il tablet sarà il nuovo quaderno tra pochi anni, possiamo usare meglio investimenti fatti.”

Prima di diventare ministro Bussetti è stato insegnante, e questo è un buon segno, perché con l’aria che tira rischiavamo di trovarci come ministro un generale, ma viene da chiedersi in quale scuola abbia insegnato. Perché un discorso sulle nuove tecnologie forse poteva essere una proposta sensata cinque anni fa: oggi dà l’impressione di una assoluta cecità alla realtà scolastica. Sulle nuove tecnologia c’è stato sui docenti un martellamento prossimo all’indottrinamento, in particolare nell’era renziana, che qualche effetto l’ha ottenuto. LIM, tablet, cellulari, piattaforme di social classroom sono strumenti quotidiani del nostro lavoro. Ci hanno detto che questo avrebbe cambiato radicalmente la scuola. Oggi sappiamo che non è vero, o è vero solo in parte. Non c’è nessuna reale rottura, nessun cambiamento strutturale, nessun miglioramento negli apprendimenti. Non è quella tecnologica, la rivoluzione che la scuola attende.
C’è un grave errore di valutazione nel ritenere che sia rivoluzionario togliere il quaderno e dare un tablet a studenti che già si relazionano con lo schermo per il resto della loro giornata. E’, se non altro, una diminuzione di esperienza, una riduzione sensoriale, e la scuola dovrebbe moltiplicare le esperienze, non ridurle. Lo dico senza alcun astio anti-tecnologico. Con il computer, il tablet e il cellulare si possono fare in classe molte cose interessanti. Perfino divertenti. Quando invito gli studenti a una partita su Kahoot!, è difficile farli smettere. E spesso vengono a protestare dalla classe vicina, perché il loro divertimento è rumoroso. Ma ci sono altri momenti in cui stiamo bene in classe. Sono le ore che passiamo a discutere seduti in cerchio. Uno fa una domanda, gli altri riflettono e poi provano a rispondere. Poi intervengono gli altri, le idee si raffinano, si intreccia il dialogo. Si giunge a una conclusione o si constata la divergenza. Si rimanda ad una discussione successiva: il dialogo continua. Non sono momenti divertenti, a volte ci può essere anche tensione. Ma sono momenti intensi. Momenti in cui il sapere si fa riflessione, decisione, confronto. E in cui si impara una cosa essenziale per la nostra democrazia: riconoscere l’altro, saper stare in una situazione dialogica. Una cosa che ha poco a che fare con la tecnologia, pochissimo con gli investimenti: basta mettersi in cerchio e parlare. Una rivoluzione dialogica della scuola a costo zero.
Non manca, Bussetti, di richiamare due metodologie che hanno a che fare con la parola: il Debate e il Public Speaking. Il debate consiste nel dividere la classe in due fazioni e farla discutere su uno dei temi che dividono. Vince chi è più bravo. Il public speaking è saper parlare in pubblico. Due metodologie che seguono una logica attivo/passivo, vincente/perdente. Non sorprende che abbiano successo, mentre la Maieutica Reciproca (la metodologia dialogica di cui ho accennato) resta quasi sconosciuta nel paese in cui è nata (e del resto il fatto che sia italiana è un punto a suo sfavore: vuoi togliere ad un ministro o a un dirigente scolastico il piacere di riempirsi la bocca con parole inglesi?).
Mi chiedo che succederebbe se un ministro dell’Interno cominciasse il suo mandato dicendo che occorre che i poliziotti la finiscano di fare i poliziotti come hanno sempre fatto, che si diano una mossa e imparino un po’ come si fa il loro mestiere, magari grazie a qualche nuova tecnologia. Mi chiedo che succederebbe se lo dicesse ai medici un ministro della Salute. E’ normale invece che lo dica un ministro dell’Istruzione. Da molti anni, ormai, i ministri dell’istruzione non fanno che dire questo. Qualsiasi discorso sulla scuola parte da una premessa: i docenti italiani non sanno fare il loro lavoro. E questa narrazione, diffusa nella società, ha una parte tutt’altro che secondaria nei problemi della scuola.
Sogno il giorno in cui un ministro dell’Istruzione, appena insediatosi, dichiari: “Ho fiducia nei docenti italiani, so che sanno fare il loro lavoro. Girerò le scuole italiane per ascoltarli ed imparare da loro e inseme a loro”. Questo, forse, cambierebbe radicalmente la scuola.
Gli Stati Generali, 31 agosto 2018.

Ripartiamo dall’ultimo romanzo di Francesca Melandri

Credo che mio nonno fosse un uomo buono. Lo ricordo fragile, alle prese con i nostri quaderni delle elementari, sui quali si affaticava per imparare a leggere e scrivere. Perché mio nonno era analfabeta. Orfano, era cresciuto per strada, fino a quando lo Stato non si era accorto di lui e gli aveva messo una divisa addosso per mandarlo ad uccidere gente che non conosceva in terre di cui non aveva nemmeno mai sentito parlare. Ne tornò con una croce di ferro, una campana indiana e notti piene di incubi, tutte le volte che gli capitava di vedere un film di guerra.
Mio nonno – sì, quell’uomo buono – era fascista e razzista. Esaltava Mussolini e odiava i neri. Gli africani. Non gli indiani: quelli erano buoni. In India era stato prigioniero degli inglesi, credo trattato con umanità sia dagli inglesi che dagli indiani. Diceva che lo Stato gli aveva rubato la giovinezza. Gli sfuggiva che quello Stato che gli aveva rubato la giovinezza era Mussolini.

Ho ripensato spesso a mio nonno leggendo Sangue giusto di Francesca Melandri (Rizzoli). Un romanzo che comincia in un modo che sembra bizzarro, ma che man mano che si procede nella lettura appare plausibile, al punto che ci si chiede perché non ci abbiamo pensato prima. E’ la storia di un giovane etiope che un giorno bussa alla porta di una buona famiglia romana con un annuncio sconcertante: lo straniero in realtà straniero non è, ha il “sangue giusto” italiano. Perché il patriarca della famiglia, Attilio Profeti, ha fatto la guerra in Etiopia, e lì ha avuto una donna, e dalla donna ha avuto un figlio che a sua volta ha avuto un figlio. Come chissà quanti dei nostri nonni.
Il libro è un viaggio nelle due Italie, quella fascista di ieri e quella di oggi, difficile anche da definire. Un viaggio nell’orrore dell’iprite e dei lanciafiamme, ieri, e dei CIE oggi, ma anche e soprattutto un viaggio nell’assurdo, anzi nel grottesco. Grottesca è l’Italia fascista, con il capovolgimento sistematico di tutto ciò che è razionale, sensato, vero, con la menzogna e la mistificazione eretti a sistema, con l’epos ridicolo di un popolo rozzo ed ignorante che ha la pretesa di civilizzarne un altro. Grottesca è l’Italia berlusconiana e post-berlusconiana, l’Italia antimusulmana che però accoglie con tutti gli onori Gheddafi, consentendogli anche di tenere una lezione sul Corano a cinquecento ragazze scelte da una agenzia di escort, con la benedizione di quelli che si abbarbicano al crocifisso per esorcizzare la paura del diverso. Un’Italia che intristisce, e che tuttavia è anche migliore di quella reale: perché nel romanzo un parlamentare forzista ha uno scatto di dignità e si dimette per non dover avallare la posizione di Berlusconi nel caso Ruby. “Nella realtà il 5 aprile 2011, quando al Parlamento italiano fu chiesto di avallare o respingere la tesi difensiva di Silvio Berlusconi sull’episodio della prostituta minorenne, i deputati della maggioranza di governo votarono a favore all’unanimità e nessuno di loro si dimise da parlamentare”, scrive Francesca Melandri in una nota conclusiva. Nessuno scatto di dignità. Nessun segno di speranza.
La guerra in Etiopia è stata rimossa dalla memoria collettiva del paese. C’è stata la guerra, c’è stata il fascismo, ci sono stati i partigiani, ci sono stati gli eccidi dei nazisti. Non ci sono mai stati gli eccidi degli italiani. A Roma c’è ancora una via dell’Amba Aradan, il luogo in cui i soldati italiani hanno compiuto uno dei massacri più feroci e vili, con l’uso di armi chimiche. Una via intitolata ad un crimine di guerra – come se a Berlino ci fosse una via intitolata a Sant’Anna di Stazzema – la dice lunga sulla scelta deliberata di non vedere. Il libro di Simone Belladonna Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale (Neri Pozza, 2015) è passato inosservato. “I numeri di quell’impresa coloniale sono impressionanti, paragonabili solo a quelli dei francesi in Algeria nel 1954 e degli americani in Vietnam del 1960”, scrive Belladonna. Ma la guerra d’Algeria e quella del Vietnam hanno suscitato in Francia e negli Stati Uniti forti movimenti di opinione, hanno segnato la cultura, l’immaginario, la politica. In Italia nulla.
Ma il rimosso ritorna. Nella persona di Shimeta Ietmgeta Attilaprofeti, nel romanzo di Melandri; nelle persone cui neghiamo un porto, nella triste realtà di questi giorni. Su Facebook una donna, ieri l’altro, diceva che le donne sulla nave Diciotti andrebbero sterilizzate: e parlava di donne che sono state stuprate in Libia. In un altro commento leggevo che i bambini su quella nave bisognerebbe ucciderli subito, perché poi da grandi diventeranno criminali. I deliri feroci di un popolo che non ha mai fatto i conti con il suo recente passato coloniale, che non ha mai riconosciuto le sue colpe, che non ha mai chiesto perdono a nessuno.
Sangue giusto di Francesca Melandri è un romanzo bellissimo, vero: e dolorosissimo. Un libro che spiega meglio di qualsiasi altro perché siamo al punto in cui siamo. Non sorprende che sia letto ed apprezzato più all’estero che in Italia.
Per favore, leggetelo. Parlatene. Parliamone.

Gli Stati Generali, 26 agosto 2018-

Dio vuole che Salvini sia ministro

Molti cattolici sono scandalizzati dalla ostentazione del Vangelo e del rosario da parte di Salvini. Per chi considera il cristianesimo, anche nella sua versione cattolica, la religione che sta dalla parte degli ultimi, dei poveri e degli emarginati, si tratta di una strumentalizzazione che tradisce l’essenza del messaggio evangelico. Ma è davvero così? Il cristianesimo, anche nella sua versione cattolica, è la religione dell’amore? Chi lo crede sembra aver dimenticato che fin dalla sua affermazione politica, nel quarto secolo dopo Cristo, il cristianesimo ha praticato la soppressione sistematica di chiunque venisse percepito come avversario, a cominciare dai pagani, uccisi barbaramente (come Ipazia) mentre i loro templi venivano demoliti con uno zelo iconoclasta che nei nostri tempi appartiene solo allo Stato Islamico. La storia dell’Europa cristiana è attraversata da una scia di sangue che, con la scoperta dell’America, ha attraversato l’oceano.

Una cosa indubbiamente affascinante delle religioni, e segnatamente della religione cristiana, è che ognuno può trovarvi quello che vuole. Il pacifista vi trova la pace e l’amore, il guerrafondaio l’odio, la conquista e lo sterminio; l’anarchico la ribellione all’autorità, l’autoritario al contrario l’obbedienza e la gerarchia, e così via. Si spiega così come dal tronco della Bibbia e del Vangelo siano sorti rami così diversi: il pacifismo degli anabattisti e dei quaccheri ma anche le crociate, l’Inquisizione, il suprematismo bianco. Bisogna purtroppo osservare anche che il pacifismo è una posizione minoritaria e fortemente contrastata dalle maggiori confessioni cristiane, fino a tempi molto recenti (si pensi al processo contro don Milani).


Ognuno può trovarvi quello che vuole, ho detto. Una usanza antica ancora abbastanza diffusa tra i credenti è quella di aprire la Bibbia a caso per cercare risposte riguardanti la propria situazione. La Bibbia viene interrogata come una sorta di I Ching. Proviamo ad aprirla anche noi a caso, ed interroghiamola su Salvini.

Ecco: Giobbe, capitolo 9. Siamo lontani dal Vangelo, nel cuore della Bibbia più filosofica, quella dei כתובים, che noi chiamiamo libri sapienziali.

Trovo che quello di Giobbe sia il libro più profondo della Bibbia. Ed anche il più attuale. Conoscete la storia: Giobbe se la passa bene, ha soldi, pecore, cammelli e figli in abbondanza, ed è un uomo pio. Ma Dio e Satana fanno una scommessa. Giobbe è pio, dice Satana, perché le cose gli vanno bene. Che succederebbe se avesse delle disgrazie? Continuerebbe ad essere pio, o bestemmierebbe? Dio accetta la scommessa, o meglio l’esperimento, che è del massimo interesse anche per noi. Satana potrà rovesciare su Giobbe qualsiasi flagello, per vedere l’effetto che fa. Si potrebbe osservare che essendo Dio onnisciente l’esperimento era inutile e la scommessa poco onesta, ma sono sottigliezze teologiche di cui non è il caso di occuparsi qui. Giobbe perde tutto, a cominciare dalle bestie, che probabilmente erano le sue cose più preziose. Quando sono morti tutti, figli compresi (ma sopravvive la moglie, e non è escluso che Satana la annoverasse tra i flagelli), Giobbe si rade il capo e, rassegnato, benedice il nome di Dio. Stremati dalla fatica, per secoli i cristiani devono essersi fermati qui, dal momento che esiste una ricca letteratura sul “paziente Giobbe”.

Le cose vanno diversamente. Quando dei tizi vanno a trovarlo con il proposito di consolarlo, Giobbe perde le staffe. Perché il loro argomento è che se Giobbe ha avuto tante disgrazie, qualcosa deve aver fatto. Magari non vuole dirlo, magari nemmeno ne è consapevole, ma qualcosa dev’esserci: Dio non colpisce chi è giusto e pio. Giobbe sa di essere assolutamente innocente. E comincia a dire cose che, se qualcuno le dicesse durante un comizio nell’Italia del 2018, rischierebbe una denuncia ai sensi dell’articolo 724 del Codice Penale. Dice, ad esempio, che quando una calamità – un alluvione o un terremoto – fa molte vittime, Dio “se ne ride della disgrazia degli innocenti” (9, 23, traduzione CEI). Un crudeltà inaudita e incomprensibile, perché Dio non ha nemmeno da fregarsi le mani per gli appalti per la ricostruzione. Ma il passo che ci riguarda è quello immediatamente successivo (9, 24):
ארץ נתנה ביד-רשע– פני-שפטיה יכסה אם-לא אפוא מי-הוא
La CEI traduce:
Lascia la terra in potere dei malvagi
egli vela il volto dei suoi governanti.
Ad essere precisi, שפטיה si riferisce ai giudici più che ai governanti, ma il concetto è chiaro: è per volere (colpa, diremmo) di Dio che il mondo è governato da brutta gente. Il concetto è ribadito in seguito: “Toglie il senno ai capi del paese” (12, 24).
Ora, si potrebbe obiettare che queste sono la parole di Giobbe, lo sfogo di un uomo provato, che la Bibbia ospita solo come caso umano, per così dire. Ma non è così. Alla fine del libro Dio stesso interviene. E se fa una bella ramanzina a Giobbe, ricordandogli la sua nullità, se la prende soprattutto con i suoi interlocutori, quelli che sostenevano che Dio è giusto, e dunque Giobbe deve aver fatto qualcosa di male. Ed ecco cosa dice loro: “La mia ira si è accesa contro di te ed i tuoi amici, perché non avete detto di me cose rette, come ha fatto il mio servo Giobbe” (42, 7, ancora la traduzione CEI). Giobbe ha detto che Dio se la ride della disgrazia degli innocenti e fa governare il mondo dai malvagi. E Dio conferma che queste affermazioni non sono bestemmie, ma cose giuste.
Dunque sì: Dio vuole che Salvini sia ministro. Così dice l’oracolo. Sogniamo e aspettiamo il giorno in cui la nostra vita pubblica realizzerà un altro passo biblico: “Le parole dei sapienti pronunciate con calma si capiscono meglio degli urli di un potente che parla in mezzo agli stolti” (Qohelet, 9, 17). Ma Qohelet era “Colui che parla nell’assemblea” (questo è il significato del suo nome). Fosse stato “Colui che scrive sui social network”, chissà se l’avrebbe scritto, quel passo.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 11 agosto 2018.

Adolescenti fuori controllo

Tre anni fa ho scritto un articolo per protestare contro un controllo antidroga in una mia classe. Un articolo per il quale ho ricevuto, insieme a non pochi apprezzamenti, decine di insulti e minacce. Un tale ha ritenuto opportuno chiamare la mia dirigente e chiedere il mio licenziamento; non contento, ha poi aperto in un forum una discussione dal titolo “Prof. Antonio Vigilante: un pessimo insegnante”, che è ancora oggi uno dei primi risultati che si ottengono digitando in Google il mio nome. Intanto i controlli antidroga sono continuati. Quest’anno con una variante: invece di entrare in aula con il cane antidroga hanno fatto uscire gli studenti e hanno perquisito l’aula vuota. Il cane ha apprezzato molto un pezzo di mortadella residuo della merenda di uno studente. E dunque un qualche senso la cosa l’ha avuta, almeno per lui.

Ieri l’altro il ministro Salvini ha tenuto un comizio nella città in cui insegno, affermando che da settembre metterà polizia e carabinieri davanti alle scuole per stroncare la vendita di droga. Questa volta Antonio Giannelli, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi ha avuto il buon senso di osservare che la cosa forse non è proprio realizzabile, considerando che ci sono quarantamila edifici scolastici, e di ricordare l’importanza della prevenzione.

Veniamo da mesi in cui gli studenti italiani sono stati sbattuti quotidianamente in prima pagina: lo studente che minaccia il docente, quello che lo insulta, quello che lo picchia. Sapete come funziona: bastano una decina di casi, dati in pasto all’opinione pubblica nell’arco di uno o due mesi, per creare allarmismo sociale. Basterebbe una rapida considerazione statistica per rendersi conto che il fenomeno semplicemente non esiste. In Italia gli studenti sono quasi otto milioni, quelli della secondaria inferiore quasi un milione e settecentomila, due milioni e mezzo quelli della secondaria superiore. Questo vuol dire che, anche considerando solo questi ultimi, la percentuale di studenti con comportamenti gravemente irrispettosi verso i docenti risulta statisticamente irrilevante.

Il disprezzo degli adolescenti è radicato nel nostro discorso comune non meno del disprezzo dello straniero o dei Rom. Gli adolescenti vanno costantemente sorvegliati, se occorre anche con polizia e carabinieri, perché sono poco raccomandabili, non conoscono il rispetto delle regole, bevono e si drogano, non hanno valori, vogliono tutto e subito. Scrivono sui muri, non hanno alcun riguardo per la nostra storia e l’arte, sono sempre attaccati ai telefonini, anche quando vanno ai musei. E poi non studiano nulla, mica come noi che alla loro età eravamo tutti dei geni. Un disprezzo che è anche alla base di non pochi discorsi sulla scuola: basti pensare a Paola Mastrocola, i cui libri hanno non poco successo presso qui docenti che rimpiangono la pedana sotto la cattedra (che non manca in diverse aule, a dire il vero).

Dietro i pregiudizi c’è sempre una profonda ragione psicologica, che spesso è legata alla violenza. Il pregiudizio razziale, ad esempio, è più radicato in quei luoghi in cui particolarmente feroce è lo sfruttamento lavorativo degli stranieri. Sappiamo che li riduciamo in schiavitù (qualcuno ricorderà il reportage di Fabrizio Gatti per “L’Espresso” intitolato Io schiavo in Puglia), ma allontaniamo da noi questa consapevolezza de-umanizzando il nostro schiavo e quindi rappresentandoci come sue vittime. Ho l’impressione che accada qualcosa del genere con gli adolescenti.

Come è noto, l’adolescenza è una creazione sociale e culturale. In alcune culture la maturità sessuale coincide con la maturità sociale, o quasi. A quindici anni un ragazzo comincia a lavorare e diventa membro effettivo della società. Da noi invece l’inserimento effettivo avviene in media dopo i venticinque anni. C’è dunque un periodo spaventosamente lungo tra la maturità sessuale e la maturità sociale, un periodo in cui la persona è socialmente sospesa, costretta in un limbo, priva di autonomia e di progettualità. Può essere anche, e per molti è in effetti, una gabbia dorata, può essere che non vengano negati beni anche superflui, ma viene costantemente negato un bisogno umano fondamentale: il bisogno di essere un soggetto sociale. Di sentirsi parte della società, di contribuire alla vita di tutti.

In questi anni di sospensione un adolescente vive in una condizione che qualsiasi adulto troverebbe intollerabile. Ogni mattina va a scuola ad ascoltare, seduto per cinque ore, persone che parlano di cose per le quali raramente ha un vero interesse (e quanti hanno interesse per centinaia di argomenti appartenenti a più di dieci discipline diverse?); le stesse persone che, quando è il loro turno – al Collegio dei docenti, ad esempio – non resistono sedute per più di un’ora, parlano liberamente tra di loro, leggono il giornale e consultano ossessivamente lo smartphone. Come è giusto che sia (o quasi), perché esiste il diritto di annoiarsi. In quegli anni chiunque, col pretesto dell’educazione, si sente in diritto di guardarlo dall’alto in basso, di dirgli cosa è giusto e cosa è sbagliato, di criticare ogni sua mossa. Di mancargli di rispetto. Bambini ed adolescenti sono, in assoluto, le persone cui si manca maggiormente di rispetto. Si nega loro costantemente, sistematicamente, il diritto fondamentale al riconoscimento. Il diritto di essere considerato una persona a posto. Semplicemente.

Eppure basta uno sguardo un po’ meno superficiale per accorgersi che loro sono quelli più a posto, nella nostra società. Certo, qualcuno di loro scrive sui muri, qualche altro fa uso di cannabis e qualcuno addirittura la spaccia. Colpe che si relativizzano non appena le confrontiamo con quello che fanno gli adulti. Prendete una qualsiasi fascia di età ed aprite i giornali. Ecco a voi il mondo degli adulti: evasori fiscali, banchieri senza scrupoli, politici che si comportano come bulli di periferia, uomini che uccidono le donne che dicono di amare, sacerdoti che ammazzano l’amante o violentano bambini, perfino ottuagenari che accoltellano per una banale questione di bollette. Un mondo che spaventa i ragazzi. Non c’è quasi figura adulta che non abbia perso qualsiasi autorevolezza ai loro occhi. Non il politico, non il prete, non il professore. Avvertono gli adulti come quelli che li giudicano senza avere l’autorità morale per farlo.

Ed hanno ragione, perché non trovo né in me stesso, né nella maggior parte degli adulti che frequento, la pulizia morale dei miei studenti. Non trovo la dolce determinazione della studentessa straniera che sogna di fare filosofia alla Sorbona, e studia senza chiedere nulla in cambio, “tanto il voto non è importante”; non trovo lo straordinario coraggio di chi riesce a non perdere il suo meraviglioso sorriso pur con gravi problemi di salute, né l’equilibrio e la saggezza di chi deve gestire la separazione dei suoi genitori, o l’entusiasmo di chi impiega tempo ed energie per preparare i compagni in difficoltà, consentendomi di giungere allo scrutinio senza nessuna insufficienza, o ancora la forza di chi cerca di capire la sua identità di genere facendo i conti con la paura di essere rifiutato dalle persone che ama. E potrei continuare a lungo.

Qualche settimana fa un’alunna ha chiesto di parlarmi. Un caso di coscienza: aveva cominciato a lavorare ed a guadagnare qualche soldo. La sua inquietudine era: “Professore, ho paura che i soldi diventino troppo importanti per me”. L’ho rassicurata, fino a quando si porrà il problema, i soldi – che sono importanti – non diventeranno troppo importanti per lei. In una società in cui il primato del denaro è affermato ad ogni piè sospinto solo un adolescente può avvertire ancora il suo potere e la sua seduzione come una minaccia.

Forse è giunto il momento di finirla di giocare al massacro con i nostri giovani. Il suicidio è nel nostro paese la seconda causa di morte degli adolescenti, dopo gli incidenti stradali. Un problema che viene affrontato da un punto di vista psichiatrico, con l’invito a genitori e docenti a cogliere tempestivamente i sintomi di depressione. Dai tempi di Durkheim tuttavia sappiamo che un suicidio può avere anche cause sociali. In Realismo capitalista Mark Fischer (morto anch’egli suicida) si chiede: “anziché accettare la generalizzata privatizzazione dello stress che ha preso piede negli ultimi trent’anni – quello che dovremmo chiederci è: com’è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate?”. E’ probabile che si tratti dello stesso processo sociale che ha reso tollerabile che il discorso pubblico sui giovani riguardi quasi esclusivamente, ormai, il controllo: pedagogico, psichiatrico o poliziesco. Una ipotesi da considerare è che portare gli adolescenti fuori dal controllo sia la via per riprendere il controllo della nostra società.

Fonte dell’immagine: https://pixabay.com | Licenza CC0 Creative Commons

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, *23 giugno 2018.

In piedi quando entra il docente?

Se fosse vero che, come dice il Corriere della Sera, “la maggioranza dei professori è d’accordo”, sarebbe davvero preoccupante. Ma è già abbastanza preoccupante che a quasi centocinquant’anni dalla nascita di Maria Montessori, e nel suo paese (che tuttavia non l’ha mai amata troppo), si discuta di questo. Il tema è: alzarsi in piedi all’ingresso dei docenti. Se ne discute, sulle colonne del Corriere, partendo dal cestino lanciato contro una prof in una scuola: che è come discutere di giornalismo partendo da Vittorio Feltri. Del resto, la rappresentazione degli adolescenti come orde di scalmanati, restii ad ogni tentativi di incivilimento, con il cervello in pappa per troppo uso di Internet e telefonini, è il punto di partenza di una parte significativa dei ragionamenti attuali sulla scuola e l’educazione. Una rappresentazione denigratoria delle nuove generazioni che è vecchia quanto il mondo, ma è assolutamente inutile farlo notare.

Continue reading “In piedi quando entra il docente?”

I Testimoni di Geova, Tolstoj e la Russia di Putin

L’unico commento che ho letto sui social network è quello di un cattolico. “Svegliatevi”, seguito da una faccina sorridente. Per il resto, silenzio. Silenzio anche da parte di chi è più sensibile ai diritti civili, di chi quotidianamente si preoccupa di gay, Rom, minoranze di ogni genere. Passa sotto silenzio, come se non ci riguardasse, la notizia che la Corte suprema russa ha messo al bando su tutto il territorio nazionale i Testimoni di Geova. Equiparati ai terroristi in quanto “estremisti”, i Testimoni di Geova rischieranno il carcere da sei a dieci anni se continueranno nel loro culto, e i loro beni saranno confiscati. Come sotto il comunismo.
Non sono simpatici, i Testimoni di Geova. Fanno proselitismo in modo fastidioso, bussano alla porta di casa la domenica mattina, ti fermano per strada per parlare di Dio. Credono in cose assurde e lo fanno con una convinzione che sfiora il fanatismo. Credono di seguire la Bibbia in modo meno ipocrita degli altri cristiani, ma si guarderebbero bene dall’uccidere gli omosessuali, come vuole la Bibbia (Levitico, 20, 13). Si vantano di conoscerla, la Bibbia, ma se chiedi loro di Mosè che comanda si uccidere donne e bambini (Numeri, 31, 17) restano confusi, e ti guardano perplessi quando fai notare loro che per Giobbe se avvenisse una calamità che facesse morire in un istante molte persone, Dio “si farebbe beffe della medesima disperazione degli innocenti” (cito dalla Traduzione del Nuovo Mondo, usata dai Testimoni di Geova).
Credono in cose assurde, ho detto; esattamente come i credenti di tutte le religioni. In loro difesa, si può dire che non hanno appoggiato regimi feroci come quello fascista e nazista, non hanno benedetto armi, non hanno brigato per prendere il potere e governare di fatto una nazione, come è avvenuto in Italia ai cattolici con la Democrazia Cristiana, un partito che si è dissolto in una nube di corruzione; né si hanno notizie di terroristi che si fanno saltare in aria urlando “Geova è grande”. Sappiamo invece che diecimila Testimoni di Geova sono finiti nei campi di concentramento nazisti, e duemila e cinquecento di loro sono stati uccisi. Sappiamo, ho detto. Ma lo sappiamo davvero?
Cosa c’è dietro questa nuova persecuzione? Come altre confessioni minoritarie cristiane, i Testimoni di Geova si sforzano si praticare la nonviolenza evangelica. A dire il vero, la tradizione cristiana ha abbastanza tempestivamente corretto il Vangelo su questo come su altri punti, giungendo a giustificare la guerra, purché naturalmente si trattasse di guerra “giusta” (e quale non lo è nella percezione di chi la fa?). L’affermazione del cristianesimo deve molto a queste correzioni, alla base delle quali c’è il mutato atteggiamento verso le autorità. “Ogni persona si sottometta alle autorità che le sono superiori. Non esiste infatti autorità se non proviene da Dio; ora le autorità attuali sono stabilite e ordinate da Dio. Di modo che, chi si ribella all’autorità, si contrappone a un ordine stabilito da Dio”, scrive Paolo nella Lettera ai Romani (13.1-2). Cito da una traduzione cattolica; i Testimoni di Geova traducono “ogni anima” invece di “ogni persona”, e se ne può comprendere la ragione. Fedeli al Vangelo, i Testimoni di Geova rifiutano di prestare servizio militare, ed anche in Italia sono stati i primi (dimenticati) obiettori di coscienza. Interpretando quel passo di Paolo, ritengono che essere cristiani significhi non collaborare con le autorità dello Stato, pur rispettandole formalmente. Noncollaborazione è il termine esatto. Non si tratta per loro di opporsi, di ribellarsi, ma semplicemente di non prendere parte. “Non esercitiamo pressioni politiche, non votiamo a favore di un partito o dei relativi rappresentanti, non ci candidiamo per incarichi governativi e non partecipiamo ad azioni sovversive. Siamo convinti che la Bibbia contenga valide ragioni per prendere questa posizione”, scrivono nel loro sito Internet. Alla base di questo atteggiamento c’è la contrapposizione tra i regni e i sistemi politici di questo mondo e il Regno di Dio. E’ una posizione che, in ambito cristiano, si pone agli antipodi della teologia della liberazione cattolica, per la quale bisogna impegnarsi affinché la realtà storica, economica e politica incarni i principi evangelici, affinché cioè il Regno di Dio annunciato dal Vangelo diventi realtà effettiva già in questo mondo. Per i Testimoni di Geova ogni impegno politico finisce per tradire la purezza della promessa, che non può realizzarsi che in una dimensione escatologica. Sono idee molto vicine a quelle che espresse un grande russo, Lev Tolstoj, nella sua più importante opera filosofica: Il Regno di Dio è in voi (1893). Con la differenza che Tolstoj dava alla nonviolenza evangelica un significato apertamente eversivo, come leva per rovesciare un sistema di dominio che aveva nella Chiesa ortodossa un tassello fondamentale, e di cui erano vittime le grandi masse contadine con la loro fede ingenua. Per le sue idee Tolstoj fu scomunicato dal Santo Sinodo; una scomunica che non è mai stata revocata, ed è stata anzi confermata nel 2010, in occasione del centenario della morte.
“Dominare vuol dire violentare, violentare vuol dire fare ciò che non vuole colui sul quale è commessa la violenza, e certo ciò che non vorrebbe sopportare colui che la commette; per conseguenza, essere al potere vuol dire fare ad altri ciò che noi non vorremmo che fosse fatto a noi stessi, cioè fare del male“, scriveva Tolstoj, sintetizzando in poche efficacissime righe le ragioni del suo anarchismo (Il Regno di Dio è in voi, Bocca, Roma 1894, p. 260). Negare la libertà religiosa è una delle forme più vili di questa violenza sistemica. E il fatto che nella Russia di Putin un cristiano non ortodosso possa finire in carcere per la sua fede dimostra che quel sistema di dominio denunciato dall’autore di Guerra e pace è ancora oggi più solido che mai.
Pubblicato su Gli stati Generali, 21 aprile 2017.

Combattere la violenza educativa, non solo quando si tratta di velo

La faccenda della ragazza originaria del Bangladesh tolta a Bologna ai genitori che l’avevano (o l’avrebbero) rasata a zero perché rifiutava il velo suscita non poco imbarazzo in chi segue, o cerca di seguire, i valori progressisti e liberali, espressione con la quale indico una costellazione di convinzioni che si è venuta formando in Europa, non senza contrasti anche tragici, a partire dall’Umanesimo, e con più decisione dall’epoca illuministica in poi. In questa costellazione rientra il rispetto della diversità etnica e religiosa, che va dalla semplice tolleranza fino al dialogo ed alla contaminazione. Vi rientrano parimenti l’emancipazione femminile, l’uguaglianza e le pari opportunità, ed i diritti delle persone omosessuali. Purtroppo, se questi valori fanno sistema sul piano teorico, non sempre si accordano sul piano pratico. Può succedere che si debba scegliere di difendere un valore al costo di negare l’altro. E’ quello che succede appunto in questo caso. Il principio del rispetto della libertà religiosa ci porterebbe a garantire ai musulmani la piena libertà di seguire la loro cultura, ma che succede quando questa libertà porta poi alla violenza sulle donne? La scelta in questo caso cade, il più delle volte, sulla difesa delle donne, anche per una ragione storica: vero è che la difesa della differenza religiosa è un valore progressista, ma è anche vero che la cultura progressista si è costruita combattendo contro le chiese e i valori religiosi.
Nella costellazione dei valori progressisti rientra anche la critica dell’educazione tradizionale, violenta dal punto di vista fisico e psicologico, e la ricerca di un’educazione che metta al centro il bambino con i suoi bisogni. E’ un percorso che va da Erasmo e Rousseau e Montessori ed oltre, ma che procede forse in modo più accidentato degli altri percorsi del progressismo. Anche questo valore è in ballo nella vicenda di Bologna. Con quel provvedimento si condanna e si contrasta la violenza educativa, che non può né deve essere tollerata. E tuttavia è lecito avere qualche perplessità.
Da pedagogista antiautoritario, mi occupo da anni dei rapporti tra educazione e violenza. Ne discuto con genitori, insegnanti, educatori. Spesso incontrando una aperta ostilità. Quando faccio notare, ad esempio, che lo schiaffo è una violenza inaccettabile e non ha nulla di educativo, vengo sommerso da critiche di genitori per i quali questi principi educativi sono quelli che hanno portato ad una generazione di ragazzi privi di educazione e rispetto e farà ancora più danni in futuro. Come se in Italia davvero lo schiaffo “educativo” non esistesse più da anni, e come se i bambini e ragazzi norvegesi – paese nel quale le punizioni corporali sui bambini sono vietate con estrema severità (anche lì non senza qualche rischio di discriminazione) – fossero tutti maleducatissimi. Succede non di rado, a scuola, di venire a conoscenza di violenze subite dagli studenti nel loro ambiente familiare. Violenze fisiche, come i pestaggi anche pesanti, ma anche psicologiche, come i genitori che decidono di non far venire più a scuola la figlia di cui hanno scoperto l’omosessualità. Non sono situazioni ipotetiche, ma casi reali. Queste ed altre violenze in ambito scolastico vengono spesso trattate con un atteggiamento protettivo nei confronti delle famiglie. E’ molto difficile che un caso di violenza su un minore venga portato a conoscenza delle forze dell’ordine, se la famiglia nella quale il fatto è avvenuto è una famiglia borghese, appartenente ad un ambiente rispettabile. Penso di poter dire che accade in casi rarissimi. Molto più frequente è che ad essere segnalate siano violenze avvenute in famiglie povere o marginali o in famiglie straniere. Esiste una doppia morale, che porta a considerare gravi e inaccettabili fatti di violenza accaduti in alcuni ambienti, e tollerabili o da trattare con particolare tatto casi riguardanti famiglie perbene o presunte tali.
E’ un’ottima cosa se si combatte e si rifiuta ogni forma di violenza educativa. Si sia conseguenti, però: discutiamo di violenza educativa; condanniamo lo schiaffo “educativo”; condanniamo tutte le forme di violenza su bambini ed adolescenti; interroghiamoci sulla legittimità di tutte le forme di costrizione che esercitiamo su di loro. Mettiamo al centro della discussione pubblica tutte le forme di violenza che esercitiamo in nome dell’educazione. Se non lo facciamo – se non ci interroghiamo sulla violenza nostra, insieme alla violenza dell’altro – la nostra è penosa, pericolosa ipocrisia.

Conviene davvero delegittimare gli insegnanti?

Come pedagogista, mi succede abbastanza spesso di discutere con qualche genitore convinto che lo schiaffo sia uno strumento educativo accettabile o addirittura indispensabile. L’argomento che in diversi paesi del mondo, e non certo tra i meno civili, schiaffeggiare un bambino è un reato, senza che questo divieto provochi disastri educativi, non sembra colpirli particolarmente. Così come non serve a molto osservare che un adulto non può essere preso a schiaffi a scopi educativi o rieducativi nemmeno se ha ucciso dieci persone, mentre un bambino può essere schiaffeggiato anche solo per aver versato una tazza di latte.
Il corpo del bambino in Italia è privo, si direbbe, di quella sacralità che appartiene nella nostra società al corpo umano in generale. A differenza dell’adulto, un bambino può essere toccato, sollevato, spostato, strattonato, picchiato senza che si abbia l’impressione, con questo, di compiere un abuso. Ma le cose non stanno proprio così, e per convincersene è sufficiente considerare qualche caso di cronaca. Buon ultimo, quello riguardante l’Asilo Monumento di Siena.
La retorica della guerra ha disseminato l’Italia di monumenti ai caduti, spesso non proprio sobri. Con più buon senso, anche non con miglior gusto, a Siena si decise di ricordare i caduti della Grande Guerra con un asilo: l’Asilo Monumento, appunto, che con il suo portico austero si affaccia sui giardini della Lizza. Una delle più solide istituzioni educative della città, che negli ultimi giorni si è trovata al centro di un mezzo scandalo di provincia. “Bimbi senza vestiti all’asilo”, titolava La Nazione; e Il Giornale: “I bimbi costretti a spogliarsi e spalmarsi di schiuma”. E’ successo che i bambini sono stati coinvolti in un progetto di esplorazione corporea e sensoriale pienamente in linea con le Indicazioni Nazionali del Ministero, approvato dal Coordinamento pedagogico e condiviso dalle stesse famiglie. Ma questo non basta. Corpo, emozioni, sensi: ce n’è abbastanza per scandalizzare i benpensanti e farne un caso politico. E poco importa che questo significhi mettere alla gogna, insinuando le cose peggiori, dei professionisti che fanno con passione il loro lavoro. “Farabutti, delinquenti e pedofili” li apostrofa nei commenti sul sito del Giornale il signor Mostardellis, mentre il signor gianky53 le definisce “maestre sporcaccione”. La pacata riflessione dell’Italia 2.0.
Qualche tempo fa ho scritto sul mio profilo Facebook che il giorno seguente avrei iniziato le mie lezioni in quarta su “Sesso e genere”. Mi contattò dopo qualche ora una giornalista: voleva un’intervista. Me ne meravigliai. Cosa c’era da intervistare? Insegno antropologia, sesso e genere è tra gli argomenti di routine. E’ un po’ come intervistare un docente di italiano sul fatto che spiegherà Petrarca, le dico. Ma non è convinta. C’è polemica su qualche bacheca, dice; e aggiunge: la gente deve sapere. Vedo poi che in effetti è già partito il linciaggio sulla bacheca di un locale politicante leghista, salito tempo fa agli onori della cronaca nazionale per una battuta sessista ai danni di Selvaggia Lucarelli. E gli insulti sono pesanti.
Trovo apprezzabile e rincuorante la reazione del sindaco di Siena, Valentini, che ha scritto: “Non posso permettere che le nostre maestre vengano denigrate e tantomeno che i genitori vengano sbeffeggiati per la loro presunta dabbenaggine o, peggio, per la loro complicità. Ne va di mezzo la credibilità e l’autorevolezza di un intero sistema scolastico, messo in pratica con grande professionalità e passione dai nostri insegnanti e condiviso con le famiglie”. E’ questo il punto. Si sta delegittimando l’intero sistema scolastico ed educativo. Ma perché accade? Ho detto che molti genitori considerano accettabile lo schiaffo educativo. Non ho trovato, però, un solo genitore che ritenga accettabile il ricorso allo schiaffo da parte degli insegnanti dei figli. Anzi: i genitori che con più vigore difendono il diritto di schiaffeggiare i loro bambini sono spesso quelli più accaniti nell’attaccare gli insegnanti quando hanno l’impressione che abbiano mancato di rispetto ai figli. Naturalmente non c’è molta logica, in questo. Se lo schiaffo è un metodo educativo accettabile o efficace, allora è giusto che lo usino anche i maestri. La contraddizione mette in luce un fenomeno che spiega anche, mi pare, la tentazione irresistibile di diffamare maestri e professori.
Con gli anni il numero di figli che una coppia mette al mondo si è drasticamente ridotto. Ora sono molti i figli unici, e raramente si va oltre i due figli. Questo fenomeno va di pari passo con un mutamento nella percezione del ruolo genitoriale. L’aspetto positivo di questo cambiamento è la maggiore responsabilità e consapevolezza educativa dei genitori. L’aspetto negativo è un senso di possesso esclusivo ed escludente che molti genitori hanno nei confronti dei figli. Un amore unico, che non ammette condivisioni, e che in qualche caso può sfociare nel suo opposto. Il bambino può essere schiaffeggiato dal genitore e non dall’insegnante perché il bambino è cosa del genitore: ha diritti su di lui che non ha l’insegnante. E poca importa che questi diritti si risolvano, dunque, nel diritto di esercitare violenza. Sminuire qualsiasi altra figura educativa è un modo per presentarsi, agli occhi dei bambini, come uniche figure di riferimento. Il genitore del terzo millennio è geloso come il Dio biblico, e non tollera un altro accanto ed oltre sé.
Non è questo il caso dell’Asilo Monumento di Siena, che si è smontato perché i genitori hanno difeso fermamente le maestre. Ma dà da pensare che dei politicanti abbiano montato un caso politico su una cosa del genere. Se lo fanno, è perché sanno che il tema “insegnanti che fanno cose strane ai nostri figli” è di quelli che indignano e mobilitano. E dai quali è possibile aspettarsi un ritorno politico. Ma a quale prezzo?
L’educazione è sempre stata una impresa di tutta la comunità. Se diventa affare della famiglia, se il ruolo educativo della comunità viene sminuito, può accadere di smarrire il vincolo sociale stesso, e di trovarci di fronte ad una pseudo-società che non è che l’aggregato di famiglie autoreferenziali, monadi sociali senza porte né finestre, che si guardano l’un l’altra con sospetto. E’ una dinamica sociale che ha già qualche anno e di cui sono avvertibili i primi effetti. Se si chiede ad un quindicenne di oggi quale è il suo valore più importante, è molto probabile che risponda che è la famiglia. Una cosa che non sarebbe mai venuta in mente ad un quindicenne degli anni Ottanta. Si dirà: non è una cosa negativa. Certo. Ma se si approfondisce viene fuori dell’altro. Viene fuori che la famiglia è percepita come un ambiente rassicurante e protettivo apertamente contrapposto al mondo di fuori, infido e pericoloso. La società stessa fa paura, e la famiglia è un nido nel quale cercare conforto. La crisi di progettualità politica degli adolescenti e dei giovani, uno dei tratti più facilmente constatabili nella generazione dei Millennials, è una conseguenza di questa chiusura. Si può agire sulla società solo insieme ad altri, ma per agire insieme ad altri bisogna avere fiducia, essere positivamente aperti agli altri, esser mossi dalla convinzione ottimistica che sia possibile cercare insieme ciò che è bene e ciò che è giusto. Ma questo è sempre più difficile per ragazzi che crescono in una società nella quale le figure e le istituzioni che erano un punto di riferimento tradizionale sono in crisi (una crisi in alcuni casi vistosa: si pensi al mondo politico ed alla Chiesa), e gli adulti che si occupano della loro educazione sembrano impegnati a delegittimarsi a vicenda.
C’è, a dire il vero, un’eccezione. Si può agire politicamente (nel senso di occupare la sfera pubblica: ma la politica è altra cosa) senza fiducia se a spingere verso l’azione è l’odio, l’indignazione cieca e sciocca, l’agitazione populistica. Ed è probabilmente per questo che i politicanti non si fanno scrupolo di delegittimare chi ogni giorno cerca di far accadere quella cosa delicata e difficile che è l’educazione.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 4 febbraio 2017.

L’incarnazione del divino in Giuliano Ferrara

“Di persona che, per aver compiuto azioni particolarmente turpi e spregevoli, si è resa indegna della pubblica stima”, dice il vocabolario Treccani alla voce infame. E aggiunge: “Nell’uso corrente, con senso più generico, di chiunque si sia macchiato di gravi colpe contro la legge, la morale, la religione”. Adopera esattamente questo aggettivo, infame, Giuliano Ferrara, per parlare di nonviolenza sul Foglio di oggi. Storia della nonviolenza infame, titola.
Proviamo a seguire il suo ragionamento. Partendo però dalla fine. Continue reading “L’incarnazione del divino in Giuliano Ferrara”

Victory

Qualche mese fa quelli di una famosa agenda mi hanno chiesto di scrivere un articolo su Foggia – la città in cui sono nato e da cui sono andato via da qualche anno – per la loro rivista. Volevano una sorta di guida, ma viva: ed appassionata. Restammo d’accordo che ci saremmo risentiti, ma come spesso accade non ci siamo risentiti. Ed è un peccato, perché mi sarebbe piaciuto scriverlo, quell’articolo. Soprattutto in questi giorni prenatalizi. Mi sarebbe piaciuto, davvero, parlare del meraviglioso albero, pieni di luci, messo davanti alla villa comunale, per comunicare la gioia del Natale e fare comunità. Avrei detto della pista di pattinaggio, una bella novità di quest’anno, che lascia perplesso qualcuno: non è che con l’insolito caldo di questo dicembre il ghiaccio finirà per sciogliersi? Avrei detto del nuovo meraviglioso mega-centro commerciale, che ha avuto un leggero inciampo – autorizzazioni che mancano, cose così: robetta burocratica – ma che riaprirà senza alcun dubbio, e porterà lavoro a centinaia di foggiani, e tanti nuovi negozi colorati a rendere più piacevoli le vite dei foggiani. Avrei detto dell’isola pedonale piena di gente, dello struscio serale, trepido e appassionato, di una comunità che si riversa in strada per appropriarsi della città. Avrei detto. Provate a dirlo sotto Natale, che Foggia è una città brutta, anzi la più brutta città d’Italia, come disse quello scrittore famoso. E provate a parlare di statistiche, di qualità della vita: eccetera.

Questo avrei scritto.

Poi, avrei parlato di Victory Uwangue. Ha ventitré anni, Victory. Dovrei dire aveva, perché Victory è morta, ma dico che li ha perché Victory è qui, accanto a me, mentre scrivo. Victory è nigeriana, e lo si capirebbe dal nome, se non lo sapessimo. Quasi tutti i nigeriani che ho conosciuto avevano questi nomi: Victory, Destiny, Goodluck. Nomi di gente che vuole crederci. Tutti i nigeriani che ho conosciuto avevano storie terribili da raccontare. La storia di Victory finisce a Foggia, anzi a Borgo Mezzanone. Ufficialmente questo borgo, creato dal fascismo per attuare la sua politica dei borghi rurali, fa parte del territorio di Manfredonia, anche se dista solo quindici chilometri da Foggia. Qui Victory vive in un ghetto, in uno dei ghetti nei quali vivono – languono, lottano, soffrono – i lavoratori-schiavi che vengono a lavorare nei campi del Foggiano.

Qui Victory sabato scorso è stata uccisa. Il suo cadavere, nudo, è stato dato alle fiamme, ma molto più probabilmente è stata bruciata viva. La foto del suo corpo nudo e semi-carbonizzato gira in rete. L’ho trovata in un blog nigeriano, ma si trova facilmente anche sui siti italiani. Nel blog nigeriano trovo tra i commenti: “They must investigate that matter. That’s if the lady is not a prostitute”. I commenti dei foggiani non sono pervenuti. I siti di informazione locale hanno dato la notizia, che però non interessa granché. Sui social è silenzio. Gli amici, per lo più gente di sinistra, discutono animatamente del nuovo governo Gentiloni e soprattutto del nuovo ministro dell’istruzione che mente sul suo titolo di studio. Sempre al ghetto di Borgo Mezzanone, e sempre la scorsa settimana, è morto bruciato un altro ragazzo di vent’anni, Ivan Miecoganuchev. La stufa ha dato fuoco alla sua capanna fatta di legno e cartone. Sono cose che succedono. Si sa, del resto, che questi stranieri fanno cose strane e terribilmente pericolose. Come quella romena – Claudia Ioana Pop, si chiamava – che quasi dieci anni fa, nel 2007, morì nel tentativo di lavarsi in una vasca per l’irrigazione, quelle cose simili a piscine che si trasformano in trappole mortali per le pareti lisce e ripide. Aveva ventisette anni e un figlio di quattro. Ricordo il suo nome perché avevo provato ad immaginarmela viva, proprio come sto facendo ora con Victory, il cui nome ricorderò tra dieci anni, e con Ivan.

Claudia Ioana, Victory, Ivan. Tre nomi per decine di vittime senza nome, donne uccise e abbandonate ai bordi della strada, lavoratori investiti mentre cercavano di raggiungere i campi in bicicletta, uomini e donne morti sul lavoro, ragazzi morti nell’incendio delle loro capanne. Abbiamo perso, Victory. Hai perso tu, ha perso chi ti ha ucciso, ha perso chi guarda dall’altra parte. Ho perso io, che scrivo di te, e che non ho saputo fare nulla di meglio che andarmene.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 15 dicembre 2016.

Razzismo: cosa può fare la scuola

La tragedia di Fermo è una tragedia annunciata. Da anni stiamo assistendo ad una sistematica azione di imbarbarimento della vita pubblica da parte di politici, giornalisti, opinionisti, che ha reso pubblicamente tollerabile ciò che altrove susciterebbe scandalo: il dileggio pubblico, il discorso di odio, la violenza verbale verso il diverso; una violenza che è inevitabilmente premessa alla violenza fisica. Un segnale inquietante sono stati gli insulti reiterati al ministro Kyenge. Il fatto che un persona nera, e per di più donna, facesse parte del governo ha fatto venire allo scoperto quel misto di crassa ignoranza, razzismo e fascismo di cui è composto buona parte del fondo – propriamente: la feccia – della sottocultura italiana. Quel che è disperante, è la difficoltà di contrastare il razzismo montante. E’ noto il bassissimo livello culturale degli italiani, l’incapacità della maggioranza della popolazione di orientarsi nel mondo in cui vive (secondo l’indagine PIAAC dell’OCSE meno di terzo degli italiani hanno le conoscenze e le competenze necessarie per vivere in una società complessa). Un cittadino ignorante è un elettore ignorante, e un elettore ignorante elegge una classe di politici rozzi, che manipolano le paure popolari, che alimentano il razzismo, che affrontano problemi complessi ricorrendo a misere semplificazioni. Un circolo vizioso che è difficilissimo spezzare. 
Da insegnante, mi chiedo cosa può fare la scuola. Provo a dare qualche risposta, con la consapevolezza che non esistono soluzioni semplici, perché la scuola stessa – e questo fa parte del processo di imbarbarimento cui ho accennato – è sempre più indebolita, depotenziata, delegittimata, ridotta a logiche di mercato che nulla hanno a che vedere con l’educazione e la formazione critica dei cittadini. 
In primo luogo, la scuola può evitare di essere razzista essa stessa. L’accusa di classismo, rivolta alla scuola italiana, risale almeno alla Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana. Ed è una accusa tutt’altro che ideologica, che coglie un fatto oggettivo. Basta entrare in un qualsiasi liceo o in un qualsiasi istituto professionale. L’affermazione che i licei sono scuole esclusivamente borghesi può forse essere discussa: troverete sempre il figlio di operaio che ha fatto il classico o lo scientifico ed è lì a dimostravi che non è così. Ma è piuttosto improbabile il contrario: l’istruzione professionale e quella tecnica sono prevalentemente riservate ai ceti economicamente svantaggiati, a quello che una volta si chiamava proletariato. Secondo il rapporto ISTAT La scuola e le attività educative (2012). “I risultati scolastici sono correlati all’estrazione sociale della famiglia di origine: quelli meno soddisfacenti si riscontrano più di frequente nelle famiglie in cui la persona di riferimento è operaio (il 41,3% ha conseguito il giudizio “sufficiente”), lavoratore in proprio o in cerca di occupazione (37% in entrambi i casi)”. Ora, questi dati si incrociano in modo eloquente con quelli riguardanti gli studenti stranieri. Secondo il rapporto del MIUR Alunni con cittadinanza non italiana. Tra difficoltà e successi, relativo al 2013/2014, solo il 3,8% degli studenti nati all’estero sceglie il Liceo classico, contro un 39,5 % che sceglie un professionale e il 38,1% che sceglie un istituto tecnico. Nel sistema scolastico italiano gli stranieri si collocano dove si collocano i proletari. In quella fetta di sistema scolastico che fin dall’inizio è stata pensata per formare il braccio della società, non la mente né la classe dirigente. Benché questo suo classismo sia stato denunciato da tempo, la scuola italiana non riesce ad uscirne. 
Non è, bisogna dire, tutta colpa sua. Molto conta la percezione sociale dell’istituzione scolastica, dell’importanza dello studio, la propensione ai lavori intellettuali, l’influenza della famiglia e delle sue aspirazioni. Ma è innegabile che c’entri anche il lavoro di orientamento dei docenti. Chi scrive negli anni Ottanta, alla fine della scuola media, fu orientato verso l’istituto professionale, nonostante una chiara, evidentissima propensione per gli studi umanistici. Era difficile, a quei tempi, pensare un percorso diverso per il figlio di un operaio. La mia esperienza di docente mi porta a ritenere che a distanza di qualche decennio queste dinamiche classiste siano ancora ben radicate in molti contesti. 
Non si può dire che le scuole non facciano il possibile per accogliere gli studenti stranieri. Spesso, a dire il vero, fanno anche l’impossibile, con le scarse risorse di cui dispongono: ma non è detto che si muovano nella direzione giusta. Molto spesso, l’unica preoccupazione è quella di mettere lo studente in grado di conoscere la lingua italiana. In molte scuole occuparsi degli stranieri vuol dire esclusivamente organizzare corsi di italiano per stranieri. Se lo studente è particolarmente in difficoltà, gli si può mettere la nuova etichetta di BES, alunno con bisogni educativi speciali, e gli si offre un comodo salvacondotto, che a dire il vero permette anche ai docenti di rilassarsi un po’. Cosa manca? Manca la differenza. E’ un percorso a senso unico, che porterà lo studente a italianizzarsi, nella migliore delle ipotesi, ma senza che la scuola abbia preso nulla da lui, dalla sua cultura, dalla sua identità. Manca lo scambio. Non è detto naturalmente che accada sempre. Non mancano esperienze di integrazione reale, non mancano forme di scambio e di arricchimento. Ma mi pare che la visione dominante, nonostante le decine di volumi di pedagogia interculturale che finiscono ogni anno sugli scaffali delle librerie, sia quella. Il crocifisso alle pareti è il simbolo di una anacronistica chiusura identitaria, l’ora di religione costringe fuori dall’aula gli studenti musulmani o comunque non cristiani, mentre un’ora di storia delle religioni aconfessionale o di etica civica potrebbe essere occasione di confronto e di scambio tra culture.
La chiusura della scuola italiana non è solo confessionale. Più in generale, è semplice miopia provincialistica. Si può uscire dal sistema scolastico italiano senza aver mai sentito nemmeno nominare capolavori della letteratura universale come il Mahabharata, ignorare tutto della straordinaria cultura cinese, non sentirsi minimamente ignoranti se non si sa chi è Murasaki Shikibu. Nella scuola italiana si studia la cultura italiana e un po’ della cultura europea, tutto il resto non interessa. Il messaggio implicito è che tutto ciò che non è italiano o europeo è ignoranza e barbarie.
E veniamo al punto decisivo: lo sciovinismo. Uno sciovinismo soft, sia chiaro, non siamo mica ai tempi del fascismo. Ma innegabile. A scuola si entra gradualmente, dolcemente nella rassicurante narrazione degli italiani “brava gente”, più portati per fare l’amore che per la guerra, il popolo che ha civilizzato l’Europa e il mondo con Dante e Petrarca, Leonardo e Lorenzo il Magnifico. Non si mancherà di vantare la grandezza della cultura europea di un Erasmo o di un Comenio. Lo studente sarà un po’ confuso quando si ritroverà di fronte all’olocausto, che fortunatamente riceve a scuola tutta l’attenzione che merita, e che è un pozzo di barbarie aperto nel bel mezzo dell’Europa; ma nessuno gli parlerà – o gli parlerà con i toni necessari: non come si spiega un paragrafetto del libro di storia – del terribile genocidio compiuto dai belgi in Congo, o delle atrocità del colonialismo italiano, della vergogna dello schiavismo, della violenza e della distruzione che l’Europa ha portato nel mondo in nome della civilizzazione.
Uscire da questa narrazione è il meglio che la scuola possa fare per combattere il razzismo. La visione scolastica, che se ne sia consapevoli o meno, è ancora quella dell’uomo bianco, e segnatamente del borghese bianco. La scuola può con assoluta buona fede affermare i principi della solidarietà, della fratellanza, dell’umanesimo, trasmettendo al contempo una visione che esclude o pone ai margini della civiltà tutto ciò che è fuori dall’Europa, così come può ignorare o minimizzare il grido delle vittime di ieri e di oggi, quando sono vittime del lato oscuro dell’occidente. e’ giunto il momento di fare i conti con la nostra ombra, con il nostro passato violento, guardare coraggiosamente nei nostri limiti: del resto, è quanto ha fatto la migliore cultura europea del Novecento, dolorosamente consapevole dell’intreccio di grandezza e miseria che caratterizza la storia del nostro continente. Ma non si tratta solo del passato. Una delle accuse che gli studenti rivolgono più frequentemente alla scuola è quella di non metterli in grado di leggere il presente. Ed hanno le loro ragioni. Ci si difende ripetendo il mantra che studiare il passato è indispensabile per capire il presente. Che è vero, ci mancherebbe: ma non sufficiente. Per capire quello che accade in Medio Oriente fa sicuramente bene conoscere la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito, ma occorre anche conoscere la storia della formazione dello stato di Israele, la storia recente dell’Iran, con il colpo di stato del ’53, e le guerre contro l’Iraq, e così via. Un lavoro che si fa sporadicamente, magari a ridosso dell’ennesima strage, e che dovrebbe essere invece costante, organico, centrale. Ogni giorno bisognerebbe analizzare quello che accade a livello internazionale, indagarne le cause, ascoltare più voci, anche leggendo più giornali. Ogni giorno in classe bisognerebbe sfogliare Le Monde, il New York Times, il China Daily, il Times of India. Costruirsi, ogni giorno, uno sguardo ampio, generoso, capace di apertura critica, di analisi profonda, di valutazione imparziale. Un difficile lavoro politico – ma insegnare è sempre un lavoro politico – per superare l’Italietta ignorante che legge la società complessa del terzo millennio con la profondità delle cartoline africane dell’Italia fascista.   
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali l’8 luglio 2016.

Luca Volontè e la fiducia nel genere umano

La prima volta che ho sentito nominare Luca Volontè è stato otto anni fa. Mia sorella aveva partorito un bambino, Davide, con una gravissima malattia genetica, la sindrome di Potter. Una malattia che non dà scampo. I medici avevano chiesto ai genitori l’autorizzazione per sottoporlo a dialisi, loro si erano presi un giorno di tempo per documentarsi – nulla sapevano della sindrome di Potter – e il medico si era rivolto al tribunale per far togliere loro la potestà genitoriale ed ottenere il ricovero senza il loro consenso. La cosa aveva suscitato un comprensibile dibattito, con toni qua e là accesi. Ognuno, come succede, diceva la sua. Qualcuno era a favore, qualcuno contro. Poi arrivò Volontè. Già il titolo del suo articolo (su Liberal: ma oggi si fatica a trovarne tracce in rete) la diceva lunga sui toni: L’incredibile cinismo di quei genitori di Foggia. C’è questo bambino, dice, che è nato senza reni e che “vuole scalare il mondo”. E’ una sciocchezzuola, basta un trapianto, ed ecco che no, il povero Davide non può vivere, perché i genitori vogliono farlo fuori. “I genitori vogliono consegnarlo invece alla morte, interrompere le cure e lasciarlo morire… lui che vuole vivere”. E poi amplia lo sguardo: il pasticciaccio brutto di questi due genitori che vogliono uccidere il figlio sacrificandolo al “dio consumistico della perfezione” non è che la manifestazione della crisi morale dell’Europa, dovuta, naturalmente, all’abbandono dei buoni principi cristiani. E in pieno delirio evocava l’eugenetica, Binding e Hoche, il nazismo, per concludere poi: “Siamo proprio sicuri di aver fatto bene a vietare la caccia agli stregoni?”.
L’articolo delirante di uno che tocca temi delicatissimi senza nessuna cognizione di causa. L’articolo crudele di una persona che addita al pubblico disprezzo una coppia di genitori che stanno soffrendo per un figlio destinato a morire, nonostante tutte le polemiche, nonostante tutti i sacrosanti principi cattolici. L’articolo di uno pseudo-intellettuale figlio di Comunione e Liberazione pronto a passare come un carro armato su una tragedia privata per i suoi scopi polemici. Ma era solo un articolo dei tanti. Era intervenuto, per dire, anche sul caso Welby, il nostro Volontè – “se lui ritiene di voler dare un taglio alla propria vita può suicidarsi con l’aiuto della moglie, ma questo non ha niente a che fare con la legalizzazione dell’eutanasia che è un omicidio sul quale la nostra cultura giuridica non può essere d’accordo ” – e dopo la sua morte aveva chiesto l’arresto del medico che lo aveva aiutato a liberarsi dal suo incubo quotidiano. Chiamato in giudizio per diffamazione, la fece franca grazie all’immunità parlamentare. Quando si dice assumersi la responsabilità delle proprie idee.
Ora, la mia fiducia nel genere umano mi porta a credere – a sforzarmi di credere – che in ciascuno di noi ci sia qualcosa di buono, magari ben nascosto. Perfino in Luca Volontè. Avevo letto con sincera speranza il suo interesse per un paese lontano come l’Azerbaijan. “Parte dall’Azerbaijan l’integrazione nel mondo musulmano”, scriveva recentemente, riferendo di un riunione della Alleanza delle Civiltà – una iniziativa delle Nazioni Unite voluta da Zapatero per favorire il dialogo tra mondo occidentale e mondo islamico. Che bello, pensavo, Volontè s’è convertito! Volontè è diventato democratico e aperto! Volontè riferisce addirittura – lui – del lavoro della riunione per contrastare crimini d’odio e hate speech. Tutto è bene quel che finisce bene.
Ma mi ero illuso, forse. E’ di oggi la notizia che il nostro ex onorevole è indagato dalla magistratura con l’accusa di aver intascato dal governo dell’Azerbaijan una tangente di più di due milioni di euro. Soldi che sarebbero serviti ad orientare il voto del Consiglio d’Europa sul rapporto Strasser sugli 85 prigionieri politici dell’Azerbaijan, che fu bocciato grazie al voto determinante dei rappresentanti del gruppo Popolari-Cristiano Democratici, di cui il nostro era presidente. Un uomo politico di un paese che prende soldi per fare gli interessi di un altro paese. Un venduto, un traditore. Questa l’accusa.
Ma io, ripeto, ho una fiducia caparbia nel genere umano, e sono sicuro che il nostro Volontè è innocente, perseguitato da giudici che non capiscono e non rispettano la sua conversione ed il suo sincero impegno per il dialogo tra civilità.
Se poi così non fosse, sono sicuro che saprà riabilitarsi. Magari dietro le sbarre di una prigione.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 25 giugno 2016.

Quando la Bibbia insegna l’odio

Meno di un mese fa, il 28 maggio scorso, il parroco di Decimoputzu (Cagliari), don Massimiliano Pusceddu, ha tenuto una omelia che ha fatto e fa discutere. Ecco la sintesi del suo discorso nel titolo del Fatto quotidiano: “‘Gli omosessuali meritano la morte’. L’omelia del parroco contro le unioni civili”. Parole che indignano: ho letto sui social network commenti di fuoco, e non pochi chiedono che il parroco venga incriminato. Certo, si tratta di hate speech, ed appare ancora meno tollerabile all’indomani della strage di Orlando. Ma c’è un particolare che a molti sfugge: le parole incriminate sono una citazione di San Paolo. Ecco esattamente cosa ha detto il parroco:

Noi abbiamo la Parola di Dio, la Bibbia è la Parola di Dio, no? E allora dalla Parola di Dio dobbiamo partire perché non devono essere parole nostre, ma dobbiamo predicare quello che è scritto qui, questa è la Parola del Signore e che noi siamo chiamati a predicare. Allora cosa dice la Parola di Dio? Voglio leggervi solo un passo della Lettera di San Paolo apostolo ai Romani, perché secondo me questo passo vale più di tante prediche fatte e che si possono fare, ma è un passo molto chiaro per leggere questi tempi che stiamo vivendo oggi, questo passo di San Paolo è un passo profetico. Dalla Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani, siamo al capitolo primo, vi leggo direttamente dal versetto 26: “Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami, infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura, similmente anche i maschi lasciando il rapporto naturale per la femmina si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri commettendo atti ignominiosi, maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la persecuzione dovuta al loro cambiamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata, ed essi hanno commesso azioni indegne. Sono colmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia, pieni di invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità. Diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore e senza misericordia, e pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa”.

Si tratta di un passo iniziale della Lettera ai Romani, un testo fondamentale per il cristianesimo, denso di profondità dottrinale e di spiritualità, fonte di ispirazione per i più raffinati teologi (è appena il caso di ricordare L’Epistola ai Romani di Karl Barth, uno dei capolavori della teologia del Novecento). Ma si tratta anche, come si vede dal testo citato dal parroco, di un testo intriso di violenza, in particolare contro i pagani, di cui parla quel passo. Una violenza verbale che, passato qualche tempo e conquistato il potere, diventerà violenza reale. I pagani sono stati perseguitati dai cristiani con una violenza non inferiore a quella subita dagli stessi cristiani; il loro culto è stato proibito, i templi demoliti con uno zelo non troppo diverso da quello dei fanatici attuali del cosiddetto Stato Islamico. La figura di Ipazia, la filosofa e matematica pagana squartata da una folla cristiana, è il simbolo tragico di queste violenze sulle quali cala ancora un velo pesante e difficile da scostare.

La maldestra omelia del parroco – davvero “l’ultimo dei sacerdoti”, secondo la sua definizione che mi sento di condividere – solleva un problema reale: quello della violenza nella Bibbia. Il prete ha citato San Paolo. Avrebbe potuto citare il Levitico: “Chiunque abbia giaciuto con un uomo come si giace con una donna, hanno compiuto tutti e due un’abominazione; siano messi a morte” (20, 13). E, già che c’era, avrebbe potuto continuare a leggere la Parola di Dio. “Chiunque commetta adulterio con una donna sposata, chiunque commetta adulterio con la donna del suo prossimo, siano messi a morte l’adultero e l’adultera” (20, 8). L’elenco delle persone da mettere a morte è abbastanza lungo: c’è anche chi, preso da incontenibile passione, faccia l’amore con la sua donna mentre lei ha le mestruazioni. Messi a morte entrambi, lui e lei.
Mettere in pratica la Parola di Dio oggi significa riempire le nostre strade e le nostre piazze di lapidazioni: qui un’adultera, lì una strega, lì un quindicenne che ha maledetto suo padre o sua madre (anche per questo è prevista la pena di morte). Non credo che l’ultimo dei sacerdoti voglia davvero questo, né credo che lo vogliano quelli che ascoltavano la sua omelia contro gli omosessuali senza battere ciglio. Come tutti, il parroco usa la Bibbia fin quando gli fa comodo, prende quello che è utile ad alimentare i suoi pregiudizi, le sue fobie, le sue piccinerie, e ignora il resto. I cattolici vivono in questa ambiguità. E’ evidente che la Bibbia dice molte cose inaccettabili. Non parlo di inaccettabilità per la ragione; parlo di inaccettabilità morale. La Parola di Dio, qua e là sublime, qualche volta dice cose che offendono profondamente la nostra sensibilità morale. I cattolici e i cristiani in generale si difendono dicendo che per la sensibilità dell’epoca quelle parole così dure, quelle leggi feroci rappresentavano comunque un progresso. Una giustificazione molto discutibile, per diverse ragioni. Perché il popolo ebraico, guidato da Dio, è talmente rozzo da progredire attraverso l’omicidio, anzi lo sterminio, mentre dall’altra parte del mondo gli indiani, con buddhismo e jainismo, affermano il valore della stessa vita animale? Si prenda Mosè. Nel libro dei Numeri si arrabbia di brutto con i comandanti del suo esercito, che hanno appena sterminato i madianiti, uccidendo tutti gli uomini, bruciando le città, razziando cose ed animali e riducendo in schiavitù le donne e i bambini. Che hanno fatto di male? Non hanno ucciso le donne e i bambini. E sentite Mosè: “Ora uccidete ogni maschio tra i bambini e ogni donna che si sia unita con un uomo. Tutte le ragazze che non si siano unite con un uomo le lascerete vivere per voi” (31, 17). Non è difficile immaginare cosa significasse lasciar vivere per loro le bambine, perché di bambine si tratta. C’è una sola definizione per chi in guerra comanda di massacrare delle donne e dei bambini: criminale di guerra. Ma questo criminale di guerra è, al tempo stesso, l’uomo di Dio che ha guidato il popolo ebraico verso la terra promessa.e il passo dimostra che c’era, in quella situazione, chi aveva una sensibilità morale migliore di quella dell’uomo di Dio, pur nella ferocia. Nessuna pedagogia divina, dunque.
Mi pare che la violenza della Bibbia sia uno dei nodi che il cattolicesimo deve affrontare oggi. Anni fa fece rumore la presa di posizione di Enrico Peyretti, tra i protagonisti dalla nonviolenza italiana e del cattolicesimo di base, che sul Foglio (“Mensile di alcuni cristiani torinesi”) parlò apertamente di dissociazione morale dai passi violenti della Bibbia. Ma fu un rumore – non un vero scandalo – che durò poco, e poi si spense. E il problema resta. La Bibbia è scomoda non solo per la violenza che la abita, ma anche perché rischia facilmente di ritorcersi contro chi la usa per i propri scopi. Prendiamo questo parroco, ultimo dei sacerdoti. Cita la Lettera ai Romani per attaccare gli omosessuali, accomunati agli antichi pagani. Bene. Ma andiamo indietro di qualche riga, nel testo di San Paolo. Leggiamo: “Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili” (1, 22-23). Sono sempre i pagani, colpevoli questa volta di idolatria, di venerare statue invece del Dio vivente. Ora, l’ultimo dei sacerdoti parla avendo alle spalle ben due statue: una madonna con bambino ed un angelo. Molto probabilmente San Paolo, se avesse assistito alla scena, si sarebbe arrabbiato di brutto, ed avrebbe associato il nostro ultimo dei sacerdoti alla brutta genia pagana contro la quale si scaglia. Sfogliamo ancora a ritroso la Bibbia. Prendiamo il Vangelo di Matteo, 23, 1-14:

Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci.

Dunque: non fatevi chiamare maestri, non fatevi chiamare padre. Il nostro parroco di Decimoputzu, pur essendo l’ultimo dei sacerdoti, ha il diritto di essere chiamato don. E don viene da dominus: signore. Per quanto sia l’ultimo, non manca di farsi chiamare signore. Fa parte di una organizzazione nella quale molti si fanno chiamare padre ed il cui capo ha l’appellativo di papa, che vuol dire appunto padre. Una organizzazione i cui rappresentanti più potenti vestono in modo sgargiante, perfino bizzarro, sono molto ricchi e potenti, e reclamano i posti d’onore in tutte le manifestazioni pubbliche. C’è qualcuno davvero così distratto da non accorgersi che è esattamente della Chiesa che sta parlando Gesù in questo passo? Basta davvero il rituale ipocritamente umile della lavanda dei piedi per credere che la Chiesa sia qualcosa di diverso dalla struttura sacerdotale dei farisei? La descrizione è talmente precisa, da inquietare un non credente: si ha l’impressione che quell’uomo sapesse davvero cosa sarebbe successo, quale struttura di potere sarebbe stata edificata sulla sua croce. Ora, se il nostro ultimo dei sacerdoti volesse prendere sul serio la Bibbia, piuttosto che prendersela con gli omosessuali dovrebbe smetterla di farsi chiamare don, togliersi di dosso gli abiti sgargianti che tanto impressionano la gente, uscire da una struttura sacerdotale che pontifica sul bene e sul male ben sicura nel suo benessere economico e nei suoi privilegi, e magari trovarsi un lavoro.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 13 giugno 2016.

Perché dico no al bonus per i docenti

Sul Corriere della Sera di ieri Attilio Oliva scrive: “C’è ormai evidenza empirica da tante indagini internazionali che, a parità di contesti ambientali e socioeconomici, scuole simili danno risultati molto diversi: evidentemente la variabile che fa la differenza è la qualità professionale di chi la dirige e di chi vi insegna. Ciò significa che migliorare la selezione degli insegnanti e dei presidi dovrebbe essere l’obiettivo primario, ma fino ad oggi sostanzialmente trascurato” (1). Chi è Attilio Oliva? Presidente della associazione TreeLLLe, di cui è cofondatore insieme a gente Fedele Confalonieri e Marco Tronchetti Provera, viene da Confindustria, di cui è stato presidente della Commissione Scuola dal ’96 al 2000. TreeLLLe è una associazione – una lobby, dice qualcuno – che rappresenta il punto di vista del mercato sulla scuola; ed è una voce che, sui decisori politici, conta oggi più di quella degli insegnanti. Si sta facendo la scuola che vuole la Confindustria, non la scuola che vogliono i docenti, gli studenti, i genitori. E’ inevitabile che chi viene da Confindustria e ragiona con le logiche del mercato voglia portare queste logiche anche nella scuola. C’è da chiedersi però se questa logiche non rischino semplicemente di distruggere la scuola, di farne nulla più che un’appendice del mercato, una istituzione che socializzi al mondo economico, rinunciando definitivamente alle sue pretese di formazione integrale.
I Decreti Delegati del ’74 hanno portato nella scuola italiana una logica importantissima: quella della collegialità. La logica della collaborazione, del confronto, della gestione comune della scuola. Quello che sta accadendo oggi è lo smantellamento di questa logica democratica. Il collegio dei docenti, organo di gestione democratica e condivisa della scuola, viene sempre più svuotato e privato di poteri, che vanno invece al preside; ed i docenti vengono messi l’uno contro l’altro, divisi in bravi e meno bravi, in docenti da premiare e docenti da umiliare pubblicamente.
Secondo la logica di Confindustria il bonus dovrebbe sortire l’effetto di attirare verso la professione docente i migliori. Gli effetti saranno probabilmente opposti. I docenti della scuola italiana di oggi sono, con ogni probabilità, i migliori di sempre. Prima bastava la laurea, per insegnare; oggi raramente è sufficiente. Chi arriva ad avere una cattedra ha quasi sempre, oltre alla laurea, corsi di perfezionamento, specializzazioni, a volte perfino il dottorato di ricerca. Molti hanno fatto due anni di SSIS, al Scuola di specializzazione per l’insegnamento. Per la prima volta i docenti della scuola italiana si trovano ad affrontare la sfida dell’individualizzazione dell’insegnamento: devono fare una didattica diversa per lo studente con il sostegno, per lo studente dislessico, per chi ha un bisogno educativo speciale. Può essere che non lo facciano benissimo, ma lo fanno. Si trovano ad affrontare una sfida difficile con strumenti anche strutturali spesso assolutamente insufficienti. Eppure i docenti hanno uno status di gran lunga inferiore a quello di un tempo, sono sempre più figure socialmente irrilevanti, il loro sapere e le loro competenze sono ogni giorno messi in discussione, e spesso proprio dalla classe politica. Invece di riconoscere la qualità del lavoro del docente, si progetta di aumentare il suo orario lavorativo. Si dice che i docenti lavorano poco. Nessuno però si sogna di contestare l’orario di lavoro di un medico o, per restare nel campo dell’istruzione, di un docente universitario. Se diciotto ore di insegnamento sembrano poche, è perché non si è consapevoli del carattere qualitativo, altamente professionale, del lavoro del docente. E se nella società non è diffusa questa consapevolezza, non sarà certo una mancetta distribuita a qua e là a migliorare le cose. Cominci la classe politica, piuttosto, ad affermare pubblicamente il valore del lavoro dei docenti. Si dica ad una società che ci crede sempre meno che il lavoro educativo e culturale rappresenta la base di una autentica democrazia: e si agisca di conseguenza. Si faccia sfilare in prima fila, nel giorno della festa della Repubblica, non l’esercito – una istituzione di cui una democrazia può fare a meno, come dimostra il Costa Rica – ma la scuola: un esercito festante di bambini e di maestri, piuttosto della tristezza di divise e carri armati. Restituiamo agli insegnanti il rispetto che meritano: che vuol dire anche da loro la possibilità ed il diritto di stabilire da sé, da protagonisti, cosa dev’essere una buona scuola, non farlo decidere ai manager di Confindustria. Quello che sfugge a chi pensa di migliorare la scuola premiando i migliori è che una scuola è un sistema. Io entro in una classe nella quale entrano, ogni giorno, altri docenti; una classe che sta in una scuola in cui ci sono altre classe in cui entrano altri docenti. La qualità del mio insegnamento nella mia classe non è il risultato soltanto della mia preparazione, della mia passione, della mia volontà di lavorare bene. E’ il risultato di quello che fanno gli altri docenti nella mia classe, di quello che fanno gli altri docenti nelle altre classi, di quello che fa il preside. E ancora: di quello che è stato fatto in passato. Ci sono scuole in cui anche il migliore dei docenti possibili avrebbe enormi difficoltà ad insegnare. Sono scuole nelle quali si sono attivati, da anni, circoli viziosi: livellamento in basso, rinuncia alla qualità, abbassamento delle richieste per attirare gli studenti ed aumentare le iscrizioni. Ci sono invece scuole in cui anche l’insegnante meno preparato o meno appassionato riesce a dare il meglio, perché sostenuto da un sistema che funziona, dal lavoro collegiale, da circoli virtuosi, da dinamiche positive.
Quale impatto avrà la distribuzione dei bonus sul sistema-scuola? Nella visione della Confindustria, dovrebbe attivare un processo di competizione virtuosa. E’ molto probabile che accada il contrario. Le scuole sistematicamente disfunzionali si riconoscono per il riconoscimento che da sempre viene dato a docenti privi di reali qualità professionali, ma abili nel gestire le relazioni sociali e vicini alla presidenza. Queste persone, che da anni gestiscono funzioni strumentali, commissioni, ruoli di responsabilità, hanno da sempre un guadagno accessorio cui si aggiungeranno, ora, i soldi del bonus. Gli altri resteranno a guardare, scuotendo il capo: come sempre. Nelle scuole che funzionano il bonus sarà anche più dannoso. Una scuola che funziona, funziona perché è una comunità. Funziona perché si lavora, e bene, insieme. Funziona perché non si ragiona in termini di migliori e di peggiori, ma di valorizzazione di tutti. Cosa può fare il docente Tizio, cosa può dare alla scuola il docente Caio? Ognuno offre alla scuola quello che può, e la scuola si arricchisce grazie a questa differenza. Il bonus giunge ora a dire che questa comunità è fatta di docenti bravi e di docenti meno bravi. Crea un primo e un secondo livello, anche nella percezione degli studenti e delle famiglie. Esalta gli uni ed umilia gli altri. Spezza la comunità ed innesca le dinamiche individualistiche e disfunzionali delle scuole peggiori.
Più che distribuire mancette, il governo farebbe bene a valorizzare il lavoro dei docenti occupandosi della loro retribuzione generale e del contratto, che è fermo da anni. Ma non solo. Si sta selezionando in questi giorni la nuova classe docente. Un lavoro delicatissimo, cruciale per avere, domani, una scuola valida. Ma chi seleziona, oggi, i nuovi docenti? Il bando per la scelta dei commissari indicava alcuni titoli di preferenza, come l’abilitazione all’insegnamento universitario. Bene: gente preparata per scegliere i nuovi docenti. Ma quanto sarà pagato un commissario con un profilo professionale così alto? Meno di due euro all’ora. Molto meno di una colf e di un venditore di caldarroste. E per giunta non potrà usufruire dell’esonero dall’insegnamento. Chi sta dunque selezionando i nuovi docenti? Chi pensa che il suo lavoro e la sua professionalità valgano meno di due euro all’ora. Traete voi le conclusioni. C’è un modo semplice per sfuggire a queste logiche individualistiche e competitive: rinunciare al bonus. Non intascarlo. Dichiarare collegialmente, prima che venga fatta l’attribuzione, che chiunque sia individuato come destinatario del bonus rinuncerà ai soldi e li metterà a disposizione della scuola. Si costituirà così un fondo cassa che potrà essere usato in diversi modi: per acquistare materiale didattico, per dare una borsa di studio agli studenti in difficoltà, per finanziare progetti degli studenti. O, magari, per sostenere economicamente i docenti che sceglieranno di scioperare. In questo modo un provvedimento che ha lo scopo evidente di dividere una classe di lavoratori sortirà l’effetto contrario di rafforzarla e di renderla più compatta.
(1) A. Oliva, Bonus ai docenti. Assegnarli bene migliora la scuola, “Corriere della Sera”, 1 giugno 2016, p. 27.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 2 giugno 2016.

La pace di Piero

Guardate questa foto. Seduti sull’erba ci sono, tra gli altri, tre pregiudicati. Il primo è l’uomo al centro, seduto in una posa giovanile che gli suscita un visibile imbarazzo. Si chiama Aldo Capitini. Durante il fascismo è finito in galera per antifascismo. Con Guido Calogero è stato il teorico del movimento liberalsocialista, ma è noto soprattutto come colui che ha introdotto in Italia la nonviolenza. Per la polizia politica, che lo ha sorvegliato per tutta la vita, è un misantropo. La sua filosofia sostiene che per portare nella nostra vita l’infinito – quell’infinito che la religione chiama Dio – non abbiamo che un modo: amare infinitamente. Amare infinitamente l’altro essere umano, il tu, ma anche l’animale, anche la pianta. In politica, sostiene che il potere non dovrebbe essere di alcuni, ma di tutti. La democrazia dei partiti non è sufficiente. Occorre una democrazia reale, effettiva, piena, che dia ad ognuno il potere di decidere, di scegliere, di partecipare in modo consapevole e concreto alla gestione della cosa pubblica. La chiama omnicrazia. Continue reading “La pace di Piero”

La cultura della repressione

Questa mattina le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nella mia classe quinta, mentre stavamo parlando di Martin Heidegger. Irruzione è un termine forte, ma esatto in questo caso: nessuno ha bussato e chiesto il permesso. Hanno svolto un controllo antidroga facendo passare tra i banchi un pastore tedesco, poi sono andati via. A mani vuote, come si dice. Non è la prima volta che succede, naturalmente, anche se è la prima volta che succede a me. E’ successo, qualche giorno fa, al liceo Virgilio di Roma, e la cosa è finita sui quotidiani nazionali, perché il Virgilio è un liceo molto ben frequentato. E’ successo qualche giorno prima al Laura Bassi di Bologna, anche lì con molte polemiche. E’ successo e succede quotidianamente in decine di istituti tecnici e professionali, che fanno poco notizia perché non sono così ben frequentati come il liceo Virgilio di Roma. E due anni fa, a Terni, un docente è stato sospeso dall’insegnamento per essersi opposto all’ingresso delle forze dell’ordine in classe. 
Quelli che sono favorevoli a queste incursioni ragionano come segue: spacciare è un reato, e il reato è un male, e va perseguito; se uno è a posto, nulla ha da temere. Diamo per buono questo ragionamento, ed esaminiamone le conseguenze. Se è così, allora è cosa buona e giusta che le forze dell’ordine facciano irruzione nelle abitazioni private. Sarebbe un modo efficacissimo per combattere il crimine. Controlli a tappeto, a sorpresa, nelle case di tutti. Poliziotti, carabinieri, cani antidroga. In qualsiasi momento aspettatevi che qualcuno bussi alla vostra porta. Che un cane fiuti tra le vostre cose. Se siete a posto, non avete nulla da temere. E perché non estendere i controlli anche nei luoghi di culto? Sì, lo so, molti di voi stanno pensando alle moschee: e la cosa a molti non dispiacerebbe. Ma io penso alle chiese. Immaginate un’irruzione delle forze dell’ordine in una chiesa, durante un rito. I cani tra i banchi che annusano. Cinque minuti e tutto è finito. Se qualcuno ha della droga, lo si porta via. E amen, come si dice. Non vi piace l’idea? Perché? Perché nel primo caso si tratta di un luogo privato, nel secondo caso si tratta di un luogo sacro, direte. E la scuola che luogo è? Io che vi insegno, la considero al tempo stesso un luogo privato – una casa – ed un luogo sacro. Il più sacro dei luoghi, perché è quello in cui si formano gli uomini e le donne di domani. Ma, direte, la scuola è un luogo dello Stato, ed è bene che le forze dell’ordine dello Stato controllino un luogo dello Stato. E’ cosa loro, per così dire. Bene, concedo anche questo. Ed anche in questo caso, vediamo le conseguenze. Il Parlamento è un luogo dello Stato. E’ il luogo più importante dello Stato. E’ lo Stato. Che succederebbe se delle forze facessero irruzione in Parlamento con cani antidroga? Sarebbe una cosa sensatissima, perché in Parlamento si fanno leggi che riguardano la vita di tutti, ed è assolutamente vitale per la salute della nostra democrazia ed il futuro dello Stato che chi fa le leggi sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Eppure se succedesse una cosa del genere, sarebbe un grande scandalo politico. Perché? Per lesa maestà. Perché è umiliante per un senatore essere perquisito, annusato. Sospettato di essere un drogato, o peggio uno spacciatore. 
E veniamo al dunque. Quando io vengo a casa tua – perché la scuola è la casa degli studenti – e ti sottopongo a perquisizione, io ti sto dando diversi messaggi. Il primo è che ti considero una persona poco raccomandabile. Non è una questione personale: può essere che tu sia a posto, ma è poco raccomandabile la categoria cui appartieni. Il fatto stesso che si facciano controlli antidroga è una conseguenza dell’infimo status degli adolescenti nella nostra società. E’ risaputo che l’alcol fa in Italia diverse migliaia di morti e causa tragedie terribili. Eppure la vendita di questa sostanza stupefacente pericolosissima è consentita. Lo Stato consente la vendita di alcolici, per giunta con il suo monopolio, mentre i Comuni promuovono apertamente il consumo di vino ed altri alcolici con apposite manifestazioni locali. Il consumo di alcolici è consentito perché è cosa da adulti. E’ una abitudine diffusa tra persone perbene, stimabili, con un buono status sociale. La droga, che fa meno morti dell’alcol, è invece roba da adolescenti, da ragazzetti, da soggetti con uno status marginale: dei minus habentes. E’ significativo che il consumo e lo spaccio di hashish e marijuana siano perseguiti con molto più zelo del consumo e dello spaccio di cocaina, una sostanza molto diffusa tra soggetti dotati di uno status anche considerevole, come professionisti e politici. Non è la sostanza stupefacente il problema. Se così fosse, l’alcol sarebbe proibito. Il problema è chi consuma, non cosa consuma. 
Il secondo messaggio è che la scuola è un posto in cui non ti puoi sentire come a casa. Per quanto ti stimi poco, non verrei mai a perquisirti a casa, a meno che non abbia un mandato. Ma a scuola sì. A scuola ti tengo d’occhio. Rispondendo alle polemiche dei genitori per i controlli antidroga al liceo Laura Bassi di Bologna, il procuratore aggiunto Valter Giovannini ha dichiarato:”trova ancora spazio l’arcaico convincimento ideologico che l’università e più in generale gli istituti scolastici godano di una sorta di extraterritorialità“. Nessuna extraterritorialità. Non siete a casa vostra, siete in un posto in cui possiamo entrare e uscire quando vogliamo. Possiamo perquisirvi, possiamo farvi annusare dai nostri cani. Siete sotto il nostro controllo. Del resto, non sono gli adolescenti di continuo sotto il controllo dei professori? Non sono di continuo osservati, richiamati, sanzionati se non si comportano come si deve? Ecco dunque il poliziotto ed il carabiniere che vengono a ribadire il concetto, nel caso in cui non fosse abbastanza chiaro. La scuola è un luogo in cui siete controllati e controllabili, perquisiti e perquisibili. Non è una casa della cultura e dell’educazione, come qualcuno potrebbe dire retoricamente. Non ha nulla di sacro. E’ una istituzione che raccoglie – concentra – dei minus habentes, e non è escluso che concentrarli per controllarli sia il suo scopo principale. E’ un messaggio rivolto a tutti, ma forse c’è un terzo messaggio rivolto ad alcuni. Può essere una coincidenza, ma in molte delle scuole, anzi delle classi perquisite c’erano studenti appartenenti ai collettivi studenteschi. 
Se non è solo una coincidenza, allora il terzo messaggio è questo: vi controlliamo tutti, ma in particolare teniamo d’occhio voi che fate politica, voi dei collettivi, voi che vi definite comunisti o anarchici; rientrate nei ranghi, che è meglio per voi. E lei, professore, torni pure a parlare di Martin Heidegger. Non è successo niente.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali.

Tonino è morto, e l’avete ucciso voi

Si è suicidato questa notte, Tonino Intellicato. Un bel po’ di farmaci questa volta sono stati sufficienti. Aveva quarant’anni. Ci aveva provato più volte, a farla finita. Nel 2012 si era buttato giù dalla finestra dell’ospedale in cui era ricoverato. Riferiscono le cronache che l’anno prima ci era finito, in ospedale, perché accoltellato dal fratello. Diciannove coltellate, da parte di chi avrebbe dovuto proteggerlo, sostenerlo, aiutarlo ad andare avanti. Ed invece – vittima in fondo anche lui – non ha retto la vergogna, il peso dello sguardo e del disprezzo. Perché Tonino era gay. Anzi no: ricchione. Una parola che a Cerignola, come altrove, equivale ad una condanna. Una parola che anni fa uccise, sempre a Cerignola, Francesco Quarticelli, freddato con tre colpi di pistola alla testa dal padre. Anche lui, pover’uomo, non poteva accettare di avere un figlio ricchione.
Quello di Tonino, bisogna dirlo chiaro e forte, bisogna dirlo con rabbia, non è stato un suicidio. Tonino è stato ucciso, non diversamente da Francesco. Perché quando la tua vita diventa impossibile, quando hai addosso uno stigma che fa di te un essere subumano, degno solo di derisione e di disprezzo, quando ogni possibilità di felicità, anzi di una vita appena accettabile, è sbarrata dal pregiudizio, allora la tua morte è una morte annunciata. Voluta. Farti fuori è la conclusione logica ed esistenziale di anni di esclusione e di sofferenza.
Tonino è stato ucciso. Ed è stato ucciso da persone che hanno un nome ed un cognome. Tonino è stato ucciso da quelli che credono in un libro scritto decine di secoli fa, nel quale si legge che i gay devono essere messi a morte, e per questo non possono accettare che le persone omosessuali vivano felici; ed è stato ucciso anche da quegli altri che non condividono l’omofobia della Chiesa, ma non fanno niente per esprimere il loro dissenso. Tonino è stato ucciso dai professionisti dell’odio, da quelli che sfogano le loro frustrazioni sui soggetti deboli – i Rom, gli stranieri, ed i gay – nascondendosi dietro la libertà d’opinione. Tonino è stato ucciso da chi, in questo paese, diffonde odio perché l’odio paga. La morte di Tonino è uno degli indicatori dello stato civile di un paese nel quale l’unica cosa che cresce è l’odio. L’economia è bloccata, la cultura ristagna, la politica langue: ma l’odio cresce. A meraviglia. A dismisura. Odiamo come mai abbiamo fatto. Vogliamo sacrifici. Vogliamo sangue, vogliamo morte.
Qualche giorno fa si è tenuto a Foggia il Puglia Pride. Nessuno l’avrebbe mai detto, solo qualche anno fa, che fosse possibile una cosa del genere in una città omofoba. E’ il risultato del lavoro fatto da singoli ed associazioni, con coraggio, con determinazione. Il sindaco non vi ha partecipato. Prima della manifestazione, ha rilasciato un comunicato alla stampa nel quale auspicava che la manifestazione non avesse “episodi di volgare folklore”. Evidentemente immemore, il sindaco, degli episodi di volgarissimo folklore che caratterizzano le feste tradizionali foggiane, da quella di Sant’Anna a quella del Carmine Vecchio. E’ stata invece una bella festa, partecipatissima, pacifica nei toni e composta nelle rivendicazioni, il cui successo è andato al di là delle stesse speranze degli organizzatori. Un segno che qualcosa, anche nel profondo sud, sta cambiando.
A frenare gli entusiasmi alcuni commenti letti su Facebook. Il signor L. M. ad esempio scrive: “La cosa che più fa schifo.. È l’ostentazione di questi soggetti… La tua sessualità te la vivi a casa tua per infatti tuoi… Roba da matti pretendono il rispetto ma sono i primi a nn darlo”. G. O. aggiunge: “Hanno permesso questo a Foggia è finito tutto”. Il signor E. G. che: “mettere in evidenza in questo modo la propria diversità credo sia una cosa squallida”. E R. L: : “una città di kekke”. Potrei continuare.
“E’ finito tutto”, dice quel tale. Sarebbe bello potergli dare ragione. Sarebbe bello poter credere che quella manifestazione ha dimostrato che quelli come lui sono stati messi in minoranza, in una delle città più omofobe d’Italia. Ma la morte di Tonino viene a dirci che le cose non sono così semplici. Che la lotta contro questi maledetti, mandanti morali dell’omicidio di Tonino, è ancora lunga. E difficile.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 9 luglio 2015.

Papa Francesco e la diversità culturale

Tra gli aspetti più interessanti ed apprezzabili dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco c’è l’affermazione del valore della diversità culturale e della necessità di preservarla. Scrive papa Francesco: “La scomparsa di una cultura può essere grave come o più della scomparsa di una specie animale o vegetale. L’imposizione di uno stile egemonico di vita legato a un modo di produzio­ne può essere tanto nocivo quanto l’alterazione degli ecosistemi” (1). Il riferimento è, naturalmente, alla globalizzazione, che in ogni parte del mondo impone lo stile di vita ed i modelli di consumo occidentali, travolgendo le culture locali. 
 Si tratta di una affermazione che è interessante perché viene dal capo della istituzione, la Chiesa cattolica, che con ogni probabilità si può considerare la maggiore responsabile della distruzione della diversità culturale nella storia. Fin dalle sue origini, il cristianesimo è stato terribilmente aggressivo verso ogni diversità. La Chiesa è passata nel giro di pochissimo tempo dall’essere perseguitata al perseguitare. Dopo l’editto di Tessalonica (380), che dichiara il cristianesimo unica religione ufficiale dell’Impero romano, proibendo tutti gli altri culti, è cominciata la persecuzione nei confronti degli eretici, degli ebrei e dei pagani. Particolare fu lo zelo con il quale ci si dedicò alla distruzione della cultura pagana, colpita anche nei suoi luoghi di culto. Porfirio di Gaza si conquistò la santità demolendo i templi pagani della sua città, mentre la barbara uccisione della filosofa Ipazia – fatta letteralmente a pezzi con dei cocci da una folla di fanatici cristiani – non impedisce di considerare il vescovo Cirillo di Alessandria, che in quell’assassinio brutale ebbe non poche responsabilità, santo e dottore della Chiesa (peraltro, tra le sue imprese meritorie c’è la cacciata degli ebrei da Alessandria). 
L’ebraismo è riuscito a sopravvivere, il paganesimo è morto, le eresie si sono trasformate e sono ricomparse sotto diverse forme, fino a quando non sono state estirpate con il ferro ed il fuoco. 
 Dopo secoli di lotta contro il diverso musulmano, che l’occidente cristiano ha tentato inutilmente di eliminare con le crociate – durante l’assedio di Gerusalemme, narra Raimondo di Aguilers, “gli uomini cavalcavano con il sangue fino alle ginocchia” -, la nuova sfida è stata rappresentata dall’America, abitata da popoli che non solo non avevano mai sentito nominare Gesù Cristo, ma che andavano in giro nudi e non conoscevano il valore del denaro. Anche in questo caso la risposta dell’occidente cristiano è stata lo sterminio. Il più grande genocidio della storia, secondo lo storico David Stannard(2). 

Disgustato da tanta violenza, il buon Bartolomé de Las Casas scriverà nel suo testamento:

Credo che, a causa di queste opere empie, scellerate e ignominiose, perpetrate in modo così ingiusto, barbaro e tirannico, Dio riverserà sulla Spagna la sua ira e il suo furore, giacché tutta la Spagna si è presa la sua parte, grande o piccola, delle sanguinose ricchezze usurpate a prezzo di tante rovine e di tanti massacri(3).

Ma era solo l’inizio. Devastato il popolo indio, l’occidente cristiano si sarebbe accanito contro i neri africani, verso il quali lo stesso Las Casas, sensibile ai diritti degli americani, non provava alcuna simpatia. E la distruzione, l’omicidio di massa, la sottomissione, la riduzione in schiavitù sono andati sempre di pari passo con la negazione della cultura e della religione e l’imposizione del cristianesimo. Per sopravvivere, i culti antichi hanno dovuto camuffarsi sotto una veste cattolica, come è accaduto in Brasile con il candomblé. Si dirà: sono cose ben note, errori per i quali la Chiesa cattolica ha chiesto scusa già da tempo, con Giovanni Paolo II. E’ vero, e bisogna prenderne atto. Ma non si può fare a meno di chiedersi se tanta violenza negatrice dell’alterità non abbia lasciato un residuo. Ora, l’impressione è che questo residuo ci sia. E’ nota la lotta decennale di Giovanni Paolo II contro il relativismo, considerato l’origine di tutti i mali. Un attacco frontale a qualsiasi forma di cultura non assolutista che ha segnato un solco profondo tra la Chiesa a la cultura laica. Papa Francesco, pur senza i toni accesi di Giovanni Paolo II (assiduamente citato nell’enciclica), sembra condividerne pienamente l’anti-relativismo. Scrive, ad esempio:

Non possiamo sostenere una spiritualità che dimentichi Dio onnipotente e creatore. In questo modo, finiremmo per adorare altre poten­ze del mondo, o ci collocheremmo al posto del Signore, fino a pretendere di calpestare la realtà creata da Lui senza conoscere limite(4).

Consideriamo le implicazioni di questa affermazione. Il papa sta dicendo che chiunque non creda in Dio dovrà necessariamente adorare il denaro, o lo Stato, o il successo, e devastare la natura. Chi non crede è brutto, sporco e cattivo: necessariamente. Naturalmente si tratta di una affermazione violenta, negatrice della differenza e del dialogo. Poco più oltre la “cultura del relativismo” è ricondotta alla posizione morale di chi mette prima di ogni cosa i propri interessi personali ed è risposto ad usare l’altro come mezzo; una cultura che il papa non manca di associare a cose come la pedofilia (5). Ora, sarebbe anche troppo facile replicare che qualche problema con la pedofilia l’ha anche la Chiesa, nonostante il suo assolutismo. Quello che colpisce è l’uso del termine relativismo, che vuol dire molte cose, per indicare posizioni immorali che non si può fare a meno di condannare. E’ come se qualcuno usasse la parola cattolicesimo come un insulto. 
In sostanza, il papa afferma il valore della diversità culturale, ma afferma poi che qualsiasi cultura che neghi Dio è insostenibile (“non possiamo sostenere”), negando dunque qualsiasi cultura non teistica. La diversità culturale non è solo quella degli aborigeni. E’, ad esempio, quella dei buddhisti, che non credono in un Dio “onnipotente e creatore”, e che tuttavia da duemila e cinquecento anni hanno sviluppato un’etica della compassione che comprende anche la vita non umana e l’ambiente. Per papa Bergoglio, una spiritualità insostenibile. Insostenibile appare, in realtà, l’assolutismo di chi si crede depositario unico della verità: una posizione che nella storia ha fatto molti più danni dell’aborrito relativismo. 


Note

(1) Lettera enciclica Laudato si’ del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune, Tipografia Vaticana, Roma 2015, p. 113. 
(2) D. Stannard, American Holocaust: The Conquest of the New World, Oxford University Press, Oxford 1992. 
(3) T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell'”altro”, tr. it., Einaudi, Torino 1992. 
(4) Lettera enciclica Laudato si’ , cit., p. 59. 
(5) Ivi, p. 95. 

Nell’immagine: Theodor De Bry, illustrazione della Narratio Regionum indicarum per Hispanos Quosdam devastatarum verissima di Bartolomé de las Casas.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 22 giugno 2015.

Papa Francesco e la cultura del dominio

Nell’enciclica Laudato si’, papa Francesco presenta una visione dell’ecologia che definisce più volte integrale. In cosa consiste l’integralità? Nel fatto che comprende le dimensioni interrelate dell’ambiente, dell’economia, della cultura, della società, considerando le conseguenze che i cambiamenti in ciascuna di queste dimensioni hanno su tutte le altre, ma non solo. L’ecologia di papa Francesco è integrale anche perché contempla tutti gli aspetti della visione del mondo cattolica. Utilizzando un termine di Raimon Panikkar, possiamo dire che l’ecologia cattolica di papa Francesco è cosmoteantrica. Se l’ecologia è la scienza dei rapporti, l’ecologia integrale di papa Francesco va intesa come la disciplina che si occupa dei rapporti tra l’essere umano, la natura e Dio. Riguardando anche Dio, una tale ecologia non potrà essere una scienza, ma dovrà risultare dal dialogo tra scienza e religione. Che rapporti ci sono tra Dio, l’essere umano e la natura? Secondo la Genesi, Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza e gli affidò il compito di dominare la terra. Il testo biblico dice, esattamente:

וַיְבָרֶךְ אֹתָם, אֱלֹהִים, וַיֹּאמֶר לָהֶם אֱלֹהִים פְּרוּ וּרְבוּ וּמִלְאוּ אֶת-הָאָרֶץ, וְכִבְשֻׁהָ; וּרְדוּ בִּדְגַת הַיָּם, וּבְעוֹף הַשָּׁמַיִם, וּבְכָל-חַיָּה, הָרֹמֶשֶׂת עַל-הָאָרֶץ.
E Dio li benedisse, e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra e dominatela, e soggiogate i pesci del mare, gli uccelli del cielo e ogni vita che si muova sulla terra” (Genesi, 1, 28).

I verbi adoperati in questo passo sono inequivocabili. Il verbo che ho tradotto con “dominatela” è kabash, che Gesenius, autore del più autorevole dizionario dell’ebraico biblico, traduce come segue: pedibus conculcavit, pedibus subiecit, e per estensione subegit (1). Letteralmente dunque si tratta di mettersi qualcosa o qualcuno sotto i piedi. L’altro verbo, che riguarda specificamente gli animali, è radah. Gesenius traduce: (pedibus) calcavit; subegit, dominatus est (2). Sono due verbi che esprimono una grande violenza: l’essere umano ha da Dio il mandato di mettere il proprio piede sulla terra e su tutti gli esseri viventi, compresi quelli che sono in cielo. In questa violenza originaria, in questo primo mandato violento, che ha in occidente un valore fondante, pur appartenendo al mito, molti hanno visto le radici della violenza umana sulla natura. Tra i primi, lo storico della scienza Lynn White, che in un articolo pubblicato su Science nel 1967 sostenne, appunto, che la crisi ecologica ha radici cristiane. Il suo ragionamento era basato su un semplice sillogismo: la scienza e la tecnica sono nate in Occidente e poi si sono diffuse in tutto il mondo; l’occidente è cristiano; la scienza e la tecnica non esisterebbero senza il cristianesimo. “Specialmente nella sua forma occidentale – scriveva – il cristianesimo è la religione più antropocentrica che il mondo abbia mai visto” (3). Il cristianesimo distingue l’essere umano, creato a Dio a sua immagine, da tutte le altre creature, sulle quali ha il mandato di dominare e che può usare per i propri scopi. La natura non è più sacra, come nel paganesimo. E tuttavia la natura è stata creata da Dio, e dunque è una via per mettersi in contatto con lui. Se la prima teologia ha interpretato la natura simbolicamente, dal tredicesimo secolo in poi si cerca Dio nella natura studiando il suo modo di funzionare e le sue leggi. E’ così che la scienza scaturisce dalla teologia. Purtroppo, questa tecnoscienza che intendeva conoscere la natura per conoscere Dio ha finito per devastare la natura. Secondo papa Francesco si è trattato di un equivoco. Il mandato biblico non dà all’uomo alcun potere assoluto sugli animali e sulla natura, poiché la terra appartiene solo a Dio. L’essere umano è chiamato da Dio a custodirla, ad esserne non il padrone, ma l’amministratore. Scrive papa Francesco:

Molte vol­te è stato trasmesso un sogno prometeico di do­minio sul mondo che ha provocato l’impressione che la cura della natura sia cosa da deboli. Invece l’interpretazione corretta del concetto dell’essere umano come signore dell’universo è quella di in­tenderlo come amministratore responsabile (4).

Non c’è nulla di particolarmente nuovo in questa idea dell’essere umano quale “amministratore responsabile” della natura. E’ la formula individuata da quando la teologia cattolica ha cominciato ad occuparsi delle problematiche teologiche (il passo citato del resto è seguito da una nota che richiama una dichiarazione dei vescovi dell’Asia del 1993). Parole molto simili si trovano in papa Ratzinger, non particolarmente noto per le sue aperture teologiche o politiche. In un messaggio per la giornata mondiale della pace del primo gennaio del 2000, Benedetto XVI affermava che l’uomo e la donna sono stati creati “ad immagine e somiglianza del Creatore per ‘riempire la terra’ e ‘dominarla’ come ‘amministratori’ di Dio stesso (cfr Gen1, 28)” (5). E, oltre che non nuova né originale, non è nemmeno particolarmente rivoluzionaria. Si tratta di nulla più che di una sfumatura, che non muta in nulla l’aspetto fondamentale della questione: la posizione dell’uomo nel cosmo. Per White, come per altri critici del cristianesimo (compreso il cattolico Eugen Drewermann, sospeso a divinis e ridotto allo stato laicale nel 1992)(6), l’antropocentrismo è il problema culturale da cui deriva la crisi ecologica, che non potrà essere superata fino a quando non si giungerà a considerare l’essere umano come una parte della natura. Quello proposto da papa Francesco è, per così dire, un antropocentismo moderato. L’essere umano resta il centro del creato, unica creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio, ma il suo potere non va inteso come potere assoluto. Il papa rifiuta risolutamente la prospettiva del biocentrismo, perché “Non si può esigere da parte dell’essere umano un impegno verso il mondo, se non si riconoscono e non si valoriz­zano al tempo stesso le sue peculiari capacità di conoscenza, volontà, libertà e responsabilità” (7); vale a dire: se non si riconosce la sua unicità di creatura fatta ad immagine di Dio. Papa Francesco non si limita a riaffermare l’antropocentrismo, garantito dal teocentrismo – l’essere umano è unico perché c’è Dio -, ma rilancia:

Non possiamo sostenere una spiritualità che dimentichi Dio onnipotente e creatore. In questo modo, finiremmo per adorare altre poten­ze del mondo, o ci collocheremmo al posto del Signore, fino a pretendere di calpestare la realtà creata da Lui senza conoscere limite. Il modo mi­gliore per collocare l’essere umano al suo posto e mettere fine alla sua pretesa di essere un domi­natore assoluto della terra, è ritornare a proporre la figura di un Padre creatore e unico padrone del mondo, perché altrimenti l’essere umano tenderà sempre a voler imporre alla realtà le proprie leggi e i propri interessi (8).

Altrove, nell’enciclica, si legge che “non si può proporre” una relazione con l’ambiente che prescinda dalla relazione con l’altro e con Dio, perché ciò sarebbe “un individuali­smo romantico travestito da bellezza ecologica e un asfissiante rinchiudersi nell’immanenza”(9). Il che vuol dire che tutti coloro che non credono in Dio non possono essere autenticamente ecologisti, e che l’ateismo, sia pure religioso (ad esempio il buddhismo, che è una religione ateistica che ha molto da dire sui temi ecologici), è necessariamente violento ed antiecologico. Con questa enciclica, in sostanza, il cattolicesimo si arroga l’ecologismo. Il citato Lynn White riteneva che all’interno del cristianesimo fosse presente una sorta di antidoto alla violenza verso la natura: il francescanesimo. Francesco d’Assisi è, per lo storico americano, “il più grande radicale nella storia cristiana dai tempi di Cristo”. Egli ha istituito una sorta di democrazia tra le creature, una fratellanza che supera e cancella il dominio. Ma la rivoluzione francescana ha fallito, ed è prevalsa “l’arroganza cristiana ortodossa verso la natura” (10). Ora, papa Francesco si richiama apertamente a Francesco d’Assisi, al suo amore per la natura, alla sua fratellanza verso gli esseri non umani. Ad un certo punto, giunge a sfiorare una affermazione importantissima: quella della sacralità della vita non umana. Come è noto, per la Chiesa cattolica la sola vita umana, anche quando è ancora in embrione, è sacra; nessuna altra vita lo è. Con una formula nella quale appare evidente la sua formazione gesuitica, papa Francesco afferma:

Oggi la Chiesa non dice in maniera semplicistica che le altre creature sono comple­tamente subordinate al bene dell’essere umano, come se non avessero un valore in sé stesse e noi potessimo disporne a piacimento (11).

Il che dovrebbe significare che gli esseri non umani hanno un valore intrinseco, se non una loro sacralità. Nella stessa enciclica, però, il papa sottolinea che il pensiero ebraico-cristiano “ha demitizzato la natura” e, senza smettere si ammirarla, “non le ha più attribuito un carattere divino” (12). E questo significa invece ribadire che l’essere umano è l’unico essere divino della natura, in quanto imago Dei, e che la vita di nessuna altra creatura è sacra. Da ciò dovrebbe scaturire una cura nei confronti del creato, fragile ed imperfetto nella sua non-divinità. Nessuna orizzontalità, dunque; nessuna reale fraternità tra le creature. Papa Francesco ribadisce la tradizionale visione cattolica del cosmo: in alto Dio; sotto Dio l’essere umano; sotto l’essere umano, la terra e le creature. Questo “essere sotto” del mondo e delle creature non è più un “essere schiacciato”, ma resta la visione gerarchica. Uno che di ecologia se ne intendeva, Murray Bookchin (tra parentesi: è il creatore dell’ecologia sociale, espressione che il papa usa senza citarlo), sosteneva l’urgenza di “estirpare l’orientamento gerarchico della nostra psiche” (13), quella disposizione mentale che ci porta a creare realtà inevitabilmente disuguali, in qualsiasi campo della nostra esperienza. La stessa opzione etico-economica per gli ultimi ed i poveri – a proposito della quale papa Francesco in questa enciclica ed altrove dice cose importanti ed assolutamente condivisibili – può restare parziale, senza una rivoluzione psichica e culturale che ci conduca a cercare ovunque relazioni orizzontali, aperte, democratiche, a rigettare la cultura dell’alto e del basso, del primo e dell’ultimo, del sacro e del profano. La crisi ecologica richiede una rivoluzione culturale, un nuovo sguardo sul mondo che re-immerga l’essere umano nella natura e che porti in primo piano, anche dal punto di vista etico, la vita non umana. Quella proposta da papa Francesco è, su questo punto (che non è marginale, ed al quale si collegano tutti gli altri temi economici, sociali, etici) una riforma, più che una rivoluzione. 
Note 
(1) W. Gesenius, Lexicon Manuale Hebraicum ed Chaldaicum in Veteris Testamenti Libros, Vogelii, Lipsiae 1833, p. 465. 
(2) Ivi, p. 924. 
(3) L. Whyte, The Historical Roots of Our Ecologic Crisis, in Science, vol. 155, n. 3767, 10 march 1967. 
(4) Lettera enciclica Laudato si’ del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune, Tipografia Vaticana, Roma 2015, p. 91. 
(5) Benedetto XVI, Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la celebrazione della XLIII Giornata Mondiale della Pace, 1 gennaio 2010, http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/messages/peace/documents/hf_ben-xvi_mes_20091208_xliii-world-day-peace.html 
(6) La critica di Drewermann all’antropocentrismo è in Der tödliche Fortschritt: Von der Zerstörung der Erde und des Menschen im Erbe des Christentums, Pustet, Regensburg 1981. 
(7) Lettera enciclica Laudato si‘, cit., p. 93. 
(8) Ivi, pp. 59-60. 
(9) Ivi, p. 93. 
(10) L. White, The Historical Roots of Our Ecologic Crisis, cit. 
(11) Lettera enciclica Laudato si’, cit., p. 55. (12) Ivi, p. 61. 
(13) M. Bookchin, L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, tr. it., Elèuthera, Milano 2010, p. 518.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 20 giugno 2015.