Educare è come togliere la polvere

Questo articolo inaugura la mia rubrica Educazione e libertà, nel sito Il bambino naturale.

La conta dei frutti delle azioni nel mondo evanes­cente è una di quelle opere che si situano felicemente all’incrocio tra culture e civiltà diverse: nel caso specifico quella musulmana e quella buddhista del Tibet.
Sull’autore, Khache Phalu (Phalu il kashmiro), nulle sono le notizie certe e molte le congetture: c’è chi vuole che si tratti del quinto o del sesto Dalai Lama, chi di un ricco mercante musulmano amico del Panchen Lama, chi del Panchen Lama stesso. Quello che è certo è che l’autore di quel trattatello che ancora oggi i tibetani venerano come un indispensabile manuale di saggezza popolare conosceva bene la letteratura del sufismo islamico, ed in particolare la mistica di Sa’di.
Nel libretto c’è una sezione dedicata all’educazione che, come il resto del libro, è piena di un buon senso tutt’altro che superficiale. Tra le altre, mi ha colpito questa sentenza: “Finché non vengano rip­ulite dalla terra da cui sono emerse, non puoi sapere se una pietra è preziosa né se una las­tra di met­allo levi­gato è uno spec­chio” (trad. G. Magi).
La pietra è, naturalmente, il bambino. Phalu il kashmiro ci dice che non dovremmo mai dare giudizi affrettati sui bambini o sugli adolescenti, poiché non possiamo sapere cosa c’è davvero sotto la polvere. Quello che verrà fuori non lo sa nessuno. Il bambino che oggi appare indolente, capriccioso, incapace di mantenere un impegno, irresponsabile, potrà diventare un adulto rigoroso, serio, profondo. Ma potrà diventarlo solo se gli adulti lo aiuteranno, e per poterlo aiutare gli adulti – i suoi educatori – dovranno avere la capacità di vedere in lui l’oltre, il più, il diverso. Leggi tutto “Educare è come togliere la polvere”

Educare nella società delle merci

Tutto è merce, tutto si può comprare e vendere, anzi tutto si deve comprare e vendere. Anche gli esseri umani.
Tutto, in quanto merce, è superficie, apparenza, vetrina. Vivere vuol dire stare nella vetrina ed attrarre i clienti: sedurre, portare con sé. Nessuno è escluso dal gioco universale della seduzione. Ad un corpo non è concesso di diventare vecchio. Occorre che si mantenga sempre giovane, perché non cessi di sedurre. Anche a costo di diventare ridicolo. Donne di quarant’anni si gonfiano le labbra a dismisura, uomini di settant’anni ottengono dalla chirurgia un volto finto in cambio delle loro rughe autentiche. Questo si chiama, oggi, bellezza: il tentativo disperato, triste, patetico di sedurre, di costringere a volgere lo sguardo, di imporre la propria presenza. Una degenerazione della bellezza e del suo senso. Se la bellezza autentica porta sempre con sé una scheggia di sofferenza con la quale ci ferisce e ci commuove, dandoci il presentimento di un altrove, la bellezza sguaiata delle merci, che spesso confina con il mostruoso, tiene avvinti al qui ed ora, è la negazione di ogni trascendimento, avanza una arrogante pretesa di appagamento totale. Leggi tutto “Educare nella società delle merci”

L’equivoco dello schiaffo educativo

E’ triste, nel paese che ha dato i natali a Maria Montessori, dover scrivere ancora oggi un articolo per confutare l’opinione che gli schiaffi possano essere educativi. E’ triste ma necessario, poiché si tratta di una convinzione ancora ben salda e diffusa, come lo è la pratica corrispondente. Ho avuto modo di constatare che si tratta di una convinzione diffusa anche tra i giovani, ed in particolare tra quei giovani che, per gli studi intrapresi, si troveranno con ogni probabilità a lavorare in futuro nel sociale ed in campo educativo.

Vorrei provare a spiegare per quale motivo ritengo che questa convinzione sia una bestialità pedagogica, e che la pratica corrispondente sia una violenza inaccettabile. Faccio notare, per cominciare, che nessun soggetto può essere preso a schiaffi impunemente. Una donna non può essere presa a schiaffi dal marito, un lavoratore non può essere preso a schiaffi dal suo superiore, un cliente importuno non può essere preso a schiaffi dal commesso, e così via. Nemmeno il giudice, dopo aver letto la sentenza, può prendere a schiaffi l’imputato, e lo stesso vale per le guardie carcerarie. Perché una persona condannata, poniamo, per omicidio non può essere presa a schiaffi, mentre un bambino che ha mangiato di nascosto la cioccolata sì? Perché nella nostra società il detenuto resta, nonostante la condanna, un essere umano dotato di dignità (ed è giusto che sia così); il bambino no. Il bambino è un essere umano a metà, per così dire; per quanto sia grande l’amore che affermiamo di provare per lui, non siamo disposti a riconoscergli piena umanità e piena dignità. Altrimenti mai ci sogneremmo di prenderlo a schiaffi.

Si dirà: ma il bambino non è, appunto, un uomo; non ha ancora sviluppato le sue capacità. E questo è un motivo per negargli dignità? Seguendo questa logica, bisognerebbe dunque prendere a schiaffi i portatori di handicap, le persone con ritardo mentale, i malati, i vecchi ormai spenti. Invece pensiamo il contrario: qualsiasi atto di violenza verso questi soggetti viene considerato particolarmente grave proprio perché si tratta di soggetti deboli. Perché non vale lo stesso con i bambini?

Nel caso dei bambini, la violenza ha l’alibi dell’educazione. Bisogna a questo punto chiedersi cos’è educazione. Senza farla troppo lunga, possiamo con ragionevole approssimazione dire che educare vuol dire aiutare una persona a crescere ed a diventare una persona completa. Ora, chi schiaffeggia un bambino è guidato da questa concezione dell’educazione? Lo dubito. Per chi usa lo schiaffo come risorsa pedagogica educare è evidentemente una cosa diversa: fare in modo che il proprio figlio faccia quello che lui vuole, che ubbidisca, che non dia fastidio, che si lasci guidare dall’esterno. Tutto questo ha naturalmente ben poco a che fare con l’educazione intesa nel suo senso autentico. Un bambino che non dà fastidio, che ubbidisce ai genitori, che si lascia guidare non è un bambino educato. Può essere, al contrario, un bambino infelice, incapace di esprimere i suoi bisogni, inibito. Un bambino che diventerà un adulto conformista, una persona priva di originalità e incapace di scelte autonome.

Lo schiaffo rivela dunque un tragico equivoco di fondo riguardante l’educazione. Si pensa che educare significhi modellare dall’esterno, mentre vuol dire creare le condizioni perché il bambino prenda forma da sé; che voglia dire far tacere, mentre vuol dire dare la parola. Perché vi sia educazione occorre una disposizione preliminare: la capacità di mettersi dalla parte del bambino, di ascoltarne e rispettarne i bisogni. L’adulto che ricorre alla violenza interpreta al contrario il rapporto educativo a partire da sé stesso, dalle sue esigenze, da quello che vuole o non vuole che il bambino faccia. Il bambino come essere autonomo per lui semplicemente non esiste. E dunque non esiste l’educazione.

E’ interessante, poi, che anche coloro che affermano il valore educativo dello schiaffo si guardino bene dal riconoscere ad altre figure educative il diritto di prendere a schiaffi il loro figlio. Genitori che schiaffeggiano normalmente i bambini sono pronti a correre a scuola a protestare se vengono a conoscenza della minima violenza fatta ai loro figli dagli insegnanti. Perché? Se lo schiaffo educa, e l’insegnante educa, l’insegnante dovrebbe poter ricorrere allo schiaffo. E’ un semplice sillogismo. Se si nega agli insegnanti il diritto di schiaffeggiare i bambini, è perché si sa in fondo che non è affatto vero che lo schiaffo educa. Il genitore sa bene, anche se lo nega, che si tratta di una violenza, e pensa di essere l’unico ad avere il diritto di compiere quella violenza. C’è, al fondo, una concezione pericolosissima: l’idea che il bambino sia proprietà della famiglia, che può farne quello che vuole. Un genitore può picchiare il bambino, l’insegnante no, perché il bambino è cosa del genitore, non dell’insegnante.

Ma cosa succede a un bambino che viene preso a schiaffi? Proviamo a guardare le cose dal punto di vista del bambino. Immaginiamo che abbia sei o sette anni. Il suo corpo è minuscolo rispetto all’ambiente ed al corpo di quelli che ha intorno. E’ un nano in un mondo di giganti. Questo è il primo aspetto da considerare: l’impotenza fisica. Il bambino, per la sua inferiorità corporea, si sente debole ed indifeso, in balia dei grandi, che possono fare di lui quello che vogliono. La mano di un adulto è gigantesca per lui. E’ un po’ come, per noi, essere colpiti da un essere mostruoso.
Chiunque riceva violenza sviluppa sentimenti negativi: l’impressione di essere stato vittima di una ingiustizia, la rabbia, la paura. La paura è in particolarmente devastante; meglio la rabbia della paura. Un bambino di quell’età considera i propri genitori come un modello.

Non, si badi, per quello che dicono, ma per quello che fanno. Questa è una cosa fondamentale. Non educhiamo con le parole, educhiamo con i fatti. Se prendiamo a schiaffi un bambino, è poi assolutamente inutile dirgli che la violenza è sbagliata. Con le nostre azioni gli stiamo dicendo il contrario, e per i bambini contano le nostre azioni, non le nostre parole. Ecco dunque una delle conseguenze di questa pedagogia bestiale: il bambino che subisce violenza diventa violento; gli schiaffi ricevuti a casa li restituisce a scuola ai compagni. L’insegnante chiama poi i genitori e si lamenta del comportamento del bambino; ed a casa il genitore punisce il bambino per aver preso a schiaffi il compagno prendendolo a sua volta a schiaffi. Il circolo vizioso continua.

In sostanza, ricorrendo allo schiaffo il genitore baratta lo sviluppo sereno di suo figlio per qualche momento di tranquillità. Qualche momento, non di più. Perché è una illusione credere che il bambino educato a suon di schiaffi vanga su davvero tranquillo ed ubbidiente. Al contrario. In anni di lavoro educativo ho avuto modo di osservare una costante: i bambini più irrequieti (e spesso violenti) sono quelli che vengono educati nel modo più rude. Non occorre essere dei pedagogisti per capire il perché. Il bambino è come una spugna: assorbe dall’ambiente. Ed in particolare, ovviamente, dall’ambiente familiare. Se in quest’ambiente c’è malessere relazionale, il bambino crescerà con questo stesso malessere. Se in una famiglia i conflitti si affrontano con la violenza fisica o verbale, il bambino affronterà i conflitti in questo modo. Inutilmente i genitori gli diranno che non dovrà fare così. Per ottenere un diverso comportamento, dovrebbero cambiare clima familiare. Cosa molto più difficile che dare uno schiaffo ad un bambino o rimproverarlo.

I bambini hanno bisogno di un clima sereno, hanno bisogno di osservare quotidianamente esempi di rispetto reciproco, di ascolto, di amore. Hanno bisogno dell’esempio di adulti che siano in grado di affrontare i conflitti in modo costruttivo. Hanno bisogno di delicatezza, di cura, di armonia. Diamo loro invece minacce, punizioni, regole inutili, perfino violenza fisica. Ogni volta che educhiamo un bambino abbiamo la possibilità di cambiare (in modo infinitesimale, ma non per questo non significativo) il mondo oppure di confermare le sue strutture di dominio. A noi la scelta.

Editoriale per Stato Quotidiano.

Democrazia, educazione e dominio degli adulti

Philippe Meirieu

In un libro dal titolo militante – Pédagogie: le devoir de résister (Esf, Issy-les-Moulineaux 2007) – Philippe Meirieu, una delle voci più ascoltate della pedagogie francese, sostiene, sulla scorta di Hannah Arendt, che occorre segnare un confine netto tra infanzia ed età adulta: l’educazione riguarda solo i bambini, non gli adulti; “non si possono educare gli adulti, né trattare i bambini come dei grandi. (…) All’educazione, nella misura in cui si distingue dal fatto di apprendere, bisogna che si possa assegnare un termine” (Arendt, citata a p. 71). Le ragioni di questa separazione sono in ultima analisi politiche: nei totalitarismi gli adulti sono infantilizzati e sottomessi ad un’autorità. Commenta Meirieu:

Da questo punto di vista, la separazione di cui parla Hannah Arendt è fondatrice della possibilità stessa di ogni democrazia: bisogna istituire una frontiera – anche arbitraria – tra i bambini e gli adulti. E’ l’esistenza di questa frontiera che permette al tempo stesso l’educazione dei bambini e l’esercizio del potere dei cittadini. Il bambino deve dunque essere educato e, durante questo tempo, non può essere considerato un cittadino, a rischio di cadere in una confusione generatrice di gravi abusi. L’adulto, dal suo canto, se può continuare ad apprendere, non può essere educato: è lui che deve decidere cosa apprendere, deve scegliere la propria via e decidere, direttamente o con l’intermediazione dei suoi rappresentanti eletti, sulle leggi che reggono la città. (p. 72)
Secondo questo ragionamento, c’è un momento nella vita di ognuno in cui il processo educativo termina, evidentemente perché ha raggiunto il suo scopo. E’ il momento in cui il bambino diventa adulto; un adulto educato. E’ un modo di concepire l’educazione che contrasta nettamente con l’idea diffusa dell’educazione permanente, la convinzione, cioè, che il processo educativo duri per tutta la vita. Meirieu naturalmente non ritiene che, giunti ad una certa età, la crascita ed il cambiamento si fermino; ma questa crescita non può essere eterodiretta. A questo fine distingue, sulla scorta di Arendt, l’educazione dall’apprendere. L’adulto continua ad apprendere, ed apprende finché vive; ma nessuno può educarlo. L’apprendimento è un processo autodiretto, l’educazione un processo eterodiretto. Nella democrazia i cittadini apprendono, nelle dittature sono educati.

E’ difficile contestare che la pretesa di dirigere dall’esterno la vita di persone adulte sia incompatibile con la democrazia. Aggiungerei che la presenza di figure che pretendano di orientare le masse indicando loro le vie del bene e del male mal si concilia con una democrazia, secondo lo stesso criterio – poiché comporta che milioni di adulti percepiscano sé stessi come minori, persone che hanno bisogno di qualcuno che le diriga dall’esterno. Una democrazia è tale solo se ognuno è autorità per sé stesso. Al tempo stesso, questo discorso ha un implicito che dà da pensare. Educare è, secondo questo ragionamento, un atto di dominazione. Vuol dire dirigere qualcuno dall’esterno. Per Meirieu è una dominazione che va bene per i bambini, non va bene per gli adulti. C’è un’età della vita in cui è bene essere dominati ed un’età della vita in cui ciò è violenza e totalitarismo. Ma siamo sicuri che sia così? E’ veramente democratico un sistema in cui tutti, sistematicamente, nella prima età della loro vita sono sottoposti ad una prassi totalitaria? L’educazione forma la persona. Che persone verranno formate attraverso l’eterodirezione? Se l’educazione è totalitaria, non formerà persone adatte a sistemi totalitari, ossia incapaci di democrazia? Non bisognerà piuttosto, in un sistema democratico, mantenere la distinzione tra educazione ed apprendimento, ed estenderla anche all’infanzia? Cioè: dare anche al bambino la possibilità di apprendere autonomanente, seguendo i propri interessi?
Il ragionamento di Meirieu implica una visione escludente della democrazia. La democrazia è cosa da adulti, che non riguarda i bambini. Gli uni sono liberi, gli altri sono schiavi. Gli adulti sono cittadini, i bambini no. Ma non è l’inclusività la caratteristica più vera della democrazia? Non è la democrazia quel movimento che incessantemente va alla ricerca degli esclusi, per portarli al centro della polis?
La società è attraversata da rapporti di dominio. Una democrazia autentica è quel sistema sociale e politico nel quale non esiste dominazione. E’, evidentemente, un ideale regolativo, proprio perché il dominio si insinua ovunque. Nostro compito è convertire il dominio, che è verticale ed asimmetrico, in potere, che è orizzontale e simmetrico. La scuola è, nei sistemi che si dicono democratici, un’ombra tra le tante. Come può esserci democrazia in un sistema in cui milioni di persone sono trattate come non cittadini, sottoposte a pratiche inferiorizzanti, private del riconoscimento pieno della loro personalità, del diritto di seguire i propri interessi e perfino di disporre del proprio corpo? Il dominio degli adulti sui bambini, lungi dall’essere la premessa di ogni democrazia, è il suo impaccio più grave. Basta entrare in una scuola, anche nel più democratico dei sistemi, per ritrovarsi paracudati in un regime totalitario, in cui tutti sono sorvegliati e puniti se non si adeguano all’ordine costituito. E il fatto che ancora esistano scuole è il segno della lontananza dei sistemi che si dicono democratici dalla realtà autenticamente democratica di una società del potere, priva di gerarchie e di sudditanze.

Ma insomma, cos’ha questo Comenio che non va?

B: Ma insomma, cos’ha questo Comenio che non va? A me sembra un grande precursore. Afferma la coeducazione di ricchi e poveri, di maschi e femmine. Nemmeno Rousseau si spingerà fino a tanto. Non è forse un bene che tutti abbiano accesso all’istruzione?
A: E’ estremamente difficile per noi non riconoscere la grandezza di Comenio appunto per il fatto che lui è un grande precursore. Siamo in una società che afferma la necessità per tutti di passare attraverso la scuola per diventare pienamente umani; siamo stati educati a pensarla così, e non riusciamo a pensare diversamente.
B: Preferiresti una società in cui soltanto ad alcuni fosse concesso l’accesso alla cultura?
A: Il problema è questo: cosa è cultura? Comenio è un critico rigoroso della scuola del suo tempo; con qualche sconcerto, leggendolo ti rendo conto che molti dei punti della sua critica sono ugualmente validi per la scuola di oggi. Vuole una scuola di cose, non di parole; una scuola di esperienze, non di libri. Questo me lo rende simpatico. Ma chi è Comenio? Un intellettuale. Uno, cioè, che rappresenta uno delle tante possibili modalità in cui può esistere un essere umano. Si può essere intellettuali, agricoltori, artigiani, giardinieri e così via. Per Comenio e grazie a Comenio, l’intellettuale diventa l’essere umano per eccellenza; la sua cultura – la cultura scritta – l’unica valida.

B: Ma puoi negare l’assunto di partenza di Comenio: che si diventa umani solo attraverso l’educazione?
A: Non lo nego. Ma distinguiamo due cose: l’acquisizione delle capacità di base della specie e il diventare un certo tipo di persona. Per acquisire cose come la capacità di parlare e la stazione eretta bastano i genitori. Per imparare a parlare non occorre nemmeno una educazione vera e propria: basta che il bambino senta parlare gli altri; impara da sé. Per imparare a parlare ed a camminare non occorre la scuola. La scuola serve per diventare un certo tipo di persona.
B: O magari per avere più possibilità. Saper leggere non è meglio che non saper leggere? Non è necessario per partecipare alla vita comune?
A: La necessità di possedere la competenza della scrittura è un risultato della diffusione della scuola, non la giustificazione della sua esistenza. Se grazie alla scuola si diffonde la scrittura, i pochi che non sanno scrivere hanno qualcosa di meno. Questo non vuol dire che, in assoluto, saper leggere sia meglio che non saper leggere.
B: Ammetti dunque che oggi è necessario imparare a scrivere, anche se poteva non esserlo al tempo di Comenio. Ammetti dunque che, almeno oggi, la scuola è necessaria?
A: Ammetto che oggi, per chi vive nella società occidentale, sia importante acquisire la competenza della lettura e della scrittura. Ma da questo non discende affatto che sia necessaria la scuola, così come la pensa Comenio e come la pratichiamo noi.
B: Cosa vuoi dire?
A: Che non è detto che per imparare a leggere e scrivere i bambini debbano essere concentrati in uno stesso luogo e sottomessi all’autorità di un solo maestro. I bambini possono imparare a leggere e scrivere dai genitori, a casa; nel caso in cui i genitori non siano in grado di farlo, possono chiedere l’aiuto di qualcuno che sappia farlo. Da ciò non discende affatto la necessità di concentrare molti bambini in uno stesso luogo.
B: Cosa c’è di male nel fatto di concentrare dei bambini in un luogo, per insegnare loro in modo più rapido ed economico?
A: Ovunque più bambini sono concentrati in un luogo, lo spirito dell’Istituzione è presente. Ovunque più bambini sono concentrati in un luogo, educazione ed istruzione sono solo parte del lavoro; ad essi si accompagna quello che Illich chiama “il programma occulto”. Concentrare dei bambini in un luogo sotto la guida di un’autorità socialmente riconosciuta vuol dire insegnare loro, oltre la lettura e la scrittura, una serie di cose: che devono obbedire; che unica cultura valida è quella che l’autorità considera tale; che, come dice Comenio, ognuno deve stare al proprio posto; che, se lo Stato non ti riconosce come tale, non sei nemmeno un essere umano in senso pieno; che il lavoro manuale non è veramente degno di un essere umano, e che quello intellettuale è segno di distinzione; ed altro ancora. Lo Stato ha un potere immenso: il potere di decidere che tipo di forma, tra le mille possibile, devono assumere le persone; e chi è più degnamente essere umano e chi meno.
B: Ma non sarebbe peggio se le scuole fossero riservate ai ricchi, ed i poveri fossero condannati all’ignoranza?
A: Continui a maneggiare in modo discutibile le categorie di cultura ed ignoranza. L’origine di questa categorizzazione è, appunto, la scuola. E’ la scuola che decide che alcune cose sono cultura ed altre ignoranza. E’ pacifico che dal punto di vista di chi è stato a scuola chi non è stato a scuola è semplicemente ignorante. Questo conferma la mia critica: la scuola ha la pretesa di dare patenti di umanità, e discrimina chi è al di fuori della sua presa, considerandolo un essere umano minore.
B: Ma non hai risposto alla mia domanda. Non sarebbe peggio se le scuole fossero riservate ai ricchi?
A: I ricchi a scuola si perfezionerebbero nella loro cultura, ed i poveri avrebbero la cultura dei poveri. Esisterebbero culture diverse per le diverse classi sociali.
B: Ma se la cultura dei ricchi è indispensabile per andare al potere, non è bene che tutti vi abbiano accesso?
A: Non dimenticare quell'”in che modo ognuno debba stare al posto suo” di Comenio. Se la scuola servisse davvero a consentire ai poveri di andare al potere, semplicemente non esisterebbe; le classi al potere non avrebbero mai consentito la nascita di uno strumento così egualitario. Il figlio di qualche povero, attraverso la scuola, può certo diventare magistrato. Si tratta di un fatto spiacevole che la classe dominante accetta di buon grado, perché è il prezzo da pagare affinché le grandi masse possano essere educate a stare al loro posto, e si possa riconoscere allo Stato, ossia alle classe dominanti, il diritto e il potere di decidere e quantificare attraverso una sua istituzione il valore degli esseri umani.