Potere, autorità e autorialità

Un altro mondo è possibile? di Giuseppe Cognetti (Rubettino, Soveria Mannelli 2023) è una riflessione sulla possibilità di un nuovo umanesimo di quello che è uno dei pochissimi filosofi interculturali italiani. Un libro pieno di spunti interessanti, sul quale probabilmente tornerò. Intanto però una nota a margine su un tema che mi sta particolarmente a cuore.

Scrive Cognetti:

Potere (archetipo maschile) è capacità di fare, risiede in chi ne è detentore (individuo, gruppo, Stato), si avvale della forza per imporsi; autorità (da augeo, far crescere, archetipo femminile) è conferita, riconosciuta da altri, in una o più qualità (età, saggezza, merito, sapere), fondate nell’essere più che nell’avere e che generano valore, prestigio, autorevolezza. (pp. 77-78)

La definizione del potere come capacità di fare mi pare corretta. È evidente tuttavia che se questo è il potere, esso è tutt’uno con la vita. Vivere è avere potere. In primo luogo, s’intende, il potere di mangiare e di bere, senza il quale non potremmo sopravvivere; poi il potere di difendersi dalle intemperie e dai pericoli. In una società avanzata a queste possibilità essenziali se ne aggiungono altre, in genere racchiuse nell’idea di libertà, la cui essenza è il potere stesso: scegliere il proprio partner, ad esempio, o poter sostenere pubblicamente le proprie idee. Molte di queste cose richiedono in effetti una forza. In una società che neghi alle donne le possibilità cui ritengono di aver diritto, ad esempio, esse sono costrette a ricorrere alla forza: devono forzare la società al riconoscimento. Lo stesso Cognetti poco oltre parla della “lotta per il senso della propria vita” di curdi, palestinesi, sikh, donne iraniane e afghane (p. 86).

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La pedagogia dell’evitamento

Molti anni fa entrai in una sala molto affollata per seguire una conferenza sull’educazione. Una volta — stava dicendo il conferenziere — un bambino a scuola poteva essere definito turbolento; oggi lo stesso bambino sarebbe definito iperattivo. E tra turbolento e iperattivo, spiegava, c’è una differenza enorme. La turbolenza è un problema pedagogico. L’iperattività diventa, invece, un disturbo.

Il conferenziere si chiamava Alain Goussot, e della questione avremmo discusso più volte, negli anni a venire. Mi sembrava che nella sua critica della medicalizzazione in atto nelle scuole ci fosse il rischio di non riconoscere problemi reali, che richiedono una personalizzazione della didattica, nella quale non riuscivo a non vedere una importante passo avanti della scuola italiana. A distanza di molti anni — e quando ormai non è più possibile, purtroppo, discuterne con lui — devo riconoscere che aveva molte ragioni.

Si è fatta strada in questi anni nelle scuole, fino a diventare dominante e incontrastata, quella che chiamerei pedagogia dell’evitamento. La famiglia comunica alla scuola che lo studente ha un disturbo certificato. E alla luce di quella certificazione, succede sempre più spesso che, sostenuta dallo specialista, chieda ai docenti di non far fare alla figlia o al figlio ciò che ha a che fare con il suo disturbo. Si va al di là delle misure dispensative e compensative, che pure sono diventate ormai un meccanismo pedagogicamente idiota (spesso si tratta solo di compilare un modulo barrando alcune caselle; ogni tipologia di disturbo ha le sue caselle). Mi è capitato di dover discutere in un consiglio di classe la richiesta, sostenuta da uno specialista, di esentare uno studente con un ritardo mentale dalla scrittura, dal momento che scriveva con grandi difficoltà. Questo studente, di quindici anni, aveva la scrittura di un bambino di otto anni; se la scuola avesse smesso di chiedergli di scrivere, avrebbe perso del tutto la capacità di scrivere. I genitori di una studentessa a disagio con le verifiche orali in classe chiedono che la figlia sia del tutto esentata dal parlare davanti ai compagni. In che modo potrà affrontare gli esami universitari? Come farà l’esame di laurea? A fronte di un disagio — spesso si tratta di questo, più che di un disturbo — la scuola può rinunciare a lavorare su competenze che sono fondamentali? È doveroso riconoscere a uno studente dislessico il diritto di scrivere usando il computer, ma siamo sicuri di aiutare uno studente con sindrome di Asperger badando ad evitare con la massima cura qualsiasi cosa che possa infastidire un soggetto con sindrome di Asperger? I nostri cervelli sono in costante adattamento all’ambiente. Un ambiente privo di qualsiasi sfida, che venga modellato sullo stato attuale di un cervello e non gli richieda nessun cambiamento, nessuno sforzo, è un ambiente che non favorisce, ma ostacola la sua crescita.

La rivendicazione delle famiglie è quella del successo scolastico. Che è sacrosanta. Il problema è che si confonde il successo con il voto. Se si chiede a uno studente di fare solo quello che sa fare, sicuramente i voti saranno alti. Ma lo scopo della scuola non è quello di mettere voti alti; è quello di far crescere gli studenti. E sappiamo che il nostro cervello cresce facendo cose difficili. Affrontando compiti che hanno un livello di sfida ottimale. Uscendo, per così dire, dalla nostra comfort zone mentale. L’impressione, invece, è che dopo la certificazione il lavoro dei consigli di classe consista proprio nel creare intorno allo studente una comfort zone tanto rassicurante quanto pericolosa.

È anche, mi sembra, un modo per venir meno alle proprie responsabilità educative e didattiche. Dispensare e compensare sono cose facili, con le quali mettiamo a posto la nostra inquieta coscienza di docenti senza troppi problemi. Siamo davvero convinti che una mappa concettuale, una calcolatrice, una interrogazione programmata possano aiutare qualcuno a crescere? Siamo sicuri che bastino i consolidati automatismi che portano all’elaborazione del Piano Didattico Personalizzato? Di fatto, manca nelle scuole il momento dell’elaborazione pedagogica e didattica. I docenti sono per lo più esecutori: prendono atto delle richieste contenute nella certificazione. Lo studente è esentato da…; si chiede alla scuola di… Ma la scuola è una comunità di professionisti dell’educazione. Cercare le mediazioni adeguate, una volta preso atto delle difficoltà dello studente, è un suo dovere. E non basta barrare qualche casella per assolverlo.

Il fatto che manchi ordinariamente nelle scuola la figura del pedagogista di Istituto, e che nessuno ne avverta la necessità, è un indice significativo della scarsa disponibilità delle scuole ad inoltrarsi nella via lunga della effettiva valorizzazione di ciascuno studente, oltre la scorciatoia dell’evitamento.

Pubblicato su Comune-info.

La scuola difficile

Ho raccolto gli articoli sulla scuola pubblicati negli ultimi anni – dal 2015 – prevalentemente su Gli Stati Generali in un ebook intitolato La scuola difficile, disponibile su tutte le librerie on-line al costo di 3.99 euro (Amazon, IBS, Kobo) .

Di seguito la Premessa.


Raccolgo in questo libro gli articoli sulla scuola che ho scritto nell’arco degli ultimi sei anni, prevalentemente su Gli Stati Generali, nella speranza che il ragionamento sulla scuola che essi tentano, ricondotto ad una qualche unità in una raccolta, possa contribuire, sia pure in misura minima, alla riflessione sulla scuola che abbiamo e su quella che vorremmo o dovremmo creare.

Lo intitolo La scuola difficile, riprendendo il titolo di uno degli articoli, per diverse ragioni.

In primo luogo, quella del titolo è la difficoltà della nostra scuola. È convinzione diffusa che la scuola italiana sia diventata facile, leggera, che abbia perso il rigore e la serietà di una volta. I miei studenti che passano un periodo di studi all’estero sono invece concordi nel percepire la nostra scuola come più difficile. E purtroppo questa maggiore difficoltà non comporta una maggiore serietà o una migliore preparazione. La scuola è più difficile semplicemente perché meno coinvolgente, più noiosa e pesante.

In secondo luogo, la difficoltà è quella della scuola che vorrei e che ritengo necessaria. E anche qui, in due sensi. Il primo è quello che provo a spiegare nell’articolo da cui ho ripreso il titolo (cap. 31). Possiamo fare una scuola più seria non rendendo più pesante il lavoro degli studenti, ma impegnandoci in un lavoro più complesso della routine lezione-compiti-interrogazione, tanto rassicurante (in fondo si è sempre fatto così) quanto evidentemente fallimentare. Ma questa scuola è difficile — ed è il secondo senso — anche perché qualsiasi tentativo di scardinare quell’impianto incontra resistenze fortissime, e spesso condanna all’isolamento ed all’incomprensione.

In questi sei anni si sono succeduti cinque governi: il governo Renzi (fino al dicembre 2016), il governo Gentiloni, il primo e il secondo governo Conte e l’attuale governo Draghi. Sono stati, soprattutto, gli anni della pandemia, che ha sconvolto in modi prima inimmaginabili il nostro modo di vivere e di fare scuola. Sono gli anni in cui la digitalizzazione delle scuole, promossa dal governo Renzi, ha avuto una accelerazione forzata dalla chiusura delle scuole, con la conseguente necessità di passare alla didattica a distanza. I docenti sono stati costretti a reinventarsi, a cercare vie alternative per raggiungere gli studenti, a sperimentare forme diverse di insegnamento. E, inevitabilmente, a riflettere su cosa è scuola e cosa no. La sospensione del setting tradizionale — tradizionalissimo, in Italia — è una occasione storica per interrogarsi sulle alternative. Sono convinto che questo sia il momento migliore per provare a ripensare la scuola. Il momento del ritorno alla normalità, che dev’essere il momento in cui si cerca qualcosa di più, e di meglio, di quella normalità. E tuttavia sono troppo disincantato per non ritenere più plausibile lo scenario tranquillizzante del semplice ritorno alla scuola di prima. Perché, appunto, una scuola altra è difficile.

Alcuni degli articoli qui raccolti hanno un carattere più teorico e presentano, con i limiti di un articolo giornalistico, la mia idea di scuola e di educazione, mentre altri sono più legati alla contingenza, a questo o quella notizia o fatto particolare. Trattandosi di una raccolta di articoli, e non di un saggio unitario, non sono infrequenti le ripetizioni di alcuni temi (ad esempio l’importanza del Service Learning o dell’abolizione dei compiti a casa).

L’idea di scuola che è al fondo di queste analisi è semplice e si può sintetizzare in poche parole: costituire la classe come una comunità in dialogo, passare dalla trasmissione alla ricerca comune, aprire la scuola al territorio e re-istituirla (si veda l’ultimo intervento, uscito su Gli Asini di Goffredo Fofi), formare gli studenti all’impegno, pensare il proprio lavoro di docenti nell’ottica della giustizia sociale, fare educazione, e non solo istruzione, e farla sia cogliendo l’aspetto valoriale dei contenuti culturali (il valore della bellezza nella poesia, nella letteratura, nell’arte; il valore della verità nella filosofia e nella storia; il valore della giustizia nel diritto, e così via), sia curando la relazione con gli studenti, che può essere via per la crescita reciproca solo se è autentica e viva, e non mortificata da quella verticalità burocratico-amministrativa che genera assurdità pedagogiche come la nota in condotta.

Quanto qui scritto è il risultato, anche, del confronto — dialogo ma anche, a volte, scontro — con molte persone, alle quali sono grato. Nominarle tutte sarebbe cosa lunga. Loro sanno. Per approfondire l’idea di scuola qui presentata si può leggere il libro Alternativa nella scuola pubblica. Quindici tesi in dialogo (Ledizioni, Milano 2018) scritto con Fabrizio Gambassi ed esito anch’esso di un lavoro comune fatto con colleghi, studenti e genitori.

Valutare e valorizzare

“Ogni inizio contiene una magia”, scriveva Hermann Hesse nel Gioco delle perle di vetro. Ed è una affermazione che per me vale soprattutto per quel nuovo inizio che è il primo giorno di scuola. Che è il momento in cui maggiormente mi fermo a domandarmi — a ri-domandarmi — perché insegno: e cosa vuol dire insegnare. Quando prendo una classe nuova, passo i primi giorni a interrogarmi sulla questione con gli studenti.

Lo scorso anno l’ho chiuso come commissario interno all’esame di Stato. Una esperienza che è l’esatto contrario del primo giorno di scuola. Se questo ha la freschezza degli inizi e la fragranza della possibilità di cambiamento, l’esame di Stato ha la tristezza atroce del giudizio finale con i vincitori e in vinti; il momento nel quale l’istituzione celebra la sua istituzionale ottusità.

Ho passato l’estate a cercare di riprendermi moralmente dagli esami. E a riflettere, ancora e ancora. In particolare, dopo aver passato giorni a chiudere esistenze e storie in un numeretto, a domandarmi cos’è valutare.

La questione della valutazione comprende tre aspetti.

Il primo è quello della selezione lavorativa. Qualunque idea di scuola si abbia, non si può negare che il suo compito sia anche quello di formare persone che occuperanno un certo posto nella società, ed è importante che abbiano sufficiente motivazione e preparazione per farlo. In genere si fa attenzione al secondo aspetto; per me il primo è anche più importante. Preferisco che nel campo sociale, ad esempio, lavori uno studente fortemente motivato anche se non preparatissimo piuttosto che uno con una preparazione approfondita ma privo di empatia.

Il secondo aspetto è quello che potremmo chiamare dell’adempimento disciplinare. A scuola si insegnano diverse discipline. Ogni disciplina ha i suoi argomenti e i suoi obiettivi da raggiungere. Si valuta lo studente in base al raggiungimento di questi obiettivi. Questi due primi aspetti sono legati in modo problematico. La scuola ritiene che valutare l’adempimento disciplinare dello studente serva al contempo a selezionare buoni lavoratori. Il mondo del lavoro non la pensa proprio così, e chiede a gran voce che il modo di insegnare e di valutare cambi, lasciando più spazio alle competenze. La scuola reagisce stizzita, affermando che il suo compito è formare la persona, e non selezionare lavoratori.

Il terzo aspetto è quello della valorizzazione. Lo studente è un futuro lavoratore ed uno che deve apprendere diverse discipline, ma è anche e soprattutto una persona che sta crescendo, e che in questo percorso difficile va aiutato a tirare fuori il meglio di sé, e prima ancora ad apprezzare quello di buono che già ha in sé.

Ritengo che questo terzo aspetto sia quello più importante. Se ripenso al mio percorso educativo e scolastico, mi accorgo del fatto che avrei avuto bisogno soprattutto di questo, da parte della scuola. Non sono stato uno studente facile, perché non facile era il mio contesto. Studiavo molto, ma per conto mio; solo raramente le lezioni scolastiche intercettavano i miei interessi. Al secondo anno delle superiori sono stato rimandato in tre materie. Una di queste era la lingua francese, che ho sempre amato moltissimo. Un’altra era arte. La mia prima scelta, per le superiori, ero stato i Liceo Artistico. Mi piaceva molto disegnare, ed ero anche piuttosto bravo. È evidente che dietro quelle insufficienze c’era qualcos’altro.

Alle superiori ho incontrato per lo più docenti che mi disprezzavano. Qualcuno di loro cercava anche di convincermi ad abbandonare la scuola. Il professore di musica riteneva che se avessi lasciato avrei potuto poi a diciott’anni fare il concorso in polizia — l’ho poi fatto davvero, superandolo anche — , mentre quello di matematica pensava, chissà perché, a una carriera da fotomodello. Quello che loro vedevano era uno studente che non studiava. Che non studiava quello che loro gli dicevano di studiare. E che per giunta aveva in classe un atteggiamento provocatorio; che al docente che gli chiedeva se stesse seguendo la lezione rispondeva con sincerità: no. E che per questo veniva invitato ad accomodarsi fuori dall’aula.

Poi è arrivato il professor Abbatangelo. Un vecchio professore di pedagogia, che evidentemente vedeva quello che agli altri sfuggiva. Non studiavo pedagogia. Va bene. Cosa studiavo? All’epoca ero immerso nello studio della filosofia indiana: la Bhagavadgita e il Vedanta. Se lo fece bastare. Mi interrogò sulla filosofia indiana, presi un gran bel voto. E cominciai a studiare pedagogia.

Che era successo? Era successo che il professor Abbatangelo mi aveva visto. Aveva visto, per la precisione, due cose. In primo luogo, me fuori dall’aula: i miei interessi, le mie domande. E poi aveva visto il mio altro. Non quello che ero, ma quello che potevo essere.

Chi insegna, chi educa, dovrebbe avere uno sguardo fertile. Dovrebbe guardare l’altro con occhi che fanno nascere cose, che scorgono le possibilità, che individuano i semi. Diseducatore è chi getta sull’altro uno sguardo che pietrifica. (“Studente con scarsa intelligenza”, aveva annotato sul suo registro la mia professoressa di latino. E questo nonostante il latino fosse praticamente l’unica disciplina nella quale avevo voti alti.)

Mi piace pensare alla scuola come il luogo in cui docenti, dirigenti, collaboratori scolastici siano sinergicamente impegnati a valorizzare gli studenti. Di fatto, questo avviene poco. E non solo perché la scuola è una istituzione che non riesce ancora a liberarsi dalle sue origini autoritarie e l’umiliazione dello studente, in forme aperte o subdole, è ancora pratica diffusa, ma soprattutto perché qualsiasi forma di riconoscimento avviene nell’alveo delle discipline. Quello che conta, alla fine, è che lo studente studi italiano, matematica e filosofia. Se lo fa è bravo, se non lo fa, non è bravo. Tutto qui. Un docente sensibile potrà incoraggiare lo studente in difficoltà, valorizzare i suoi punti di forza, sostenere la sua autostima, ma sempre nel cerchio della disciplina.

Cosa c’è che non va? Non è giusto che sia così? No, non lo è, e vediamo perché.

Lo studente X è arrivato in Italia da due anni. Prima di giungere da noi ha vissuto per diversi anni in un altro paese europeo. Conosce bene quattro lingue: la lingua madre, l’italiano, la lingua del paese in cui è vissuto e una quarta lingua che ha studiato nel suo paese natale. Ha una ricchezza linguistica che nessun altro studente ha nella sua classe. Ma non ama l’inglese. Se la cava male. Per la scuola, lo studente X è linguisticamente insufficiente. Ma non è così.

Consideriamo un altro caso. Questa volta mi permetto un ricordo. Anni fa uno studente russo di una mia prima giunse in ritardo alla prima ora. Per scherzo gli dissi che non potevo fare a meno di punirlo: avrebbe dovuto recitarmi una poesia russa a scelta. Lui ne fu felice, e cominciò a declamare dei versi di Puškin. Avrei scoperto poi che aveva una conoscenza molto approfondita della letteratura russa, ossia di una parte significativa della cultura mitteleuropea.

La scuola guarda gli studenti attraverso i suoi occhiali, che sono quelli disciplinari. Tutto ciò che non rientra in una delle discipline previste dall’indirizzo, semplicemente non esiste. La valutazione è il risultato della somma dei diversi sguardi disciplinari sullo studente. Il risultato è che la scuola è miope. E gli studenti lo sanno; una buona parte del loro malessere viene da qui. La scuola non li vede, se non nella misura in cui loro si scolarizzano. Se prendono la forma che la scuola richiede per guardarli. Uno studente figlio di genitori stranieri, ad esempio, non è in alcun modo invogliato dalla scuola a mantenere un contatto con le sue radici culturali. Le lingue e le culture nigeriana, o albanese, o romena non rientrano nel piano degli studi, e dunque non esistono. Sono una faccenda privata dello studente e della sua famiglia. L’integrazione dello studente straniero si riduce a organizzare corsi di italiano come L2; un processo unidirezionale, che non prevede alcuno scambio culturale, e dunque nessun riconoscimento reciproco.

Il tutto è più della somma delle parti. Difficile valutare uno studente procedendo per addizione, ma soprattutto difficile valorizzarlo in questo modo. Alla scuola manca una figura che segua, ascolti, guardi lo studente al di là delle discipline. Un tutor — la parola mi piace poco, ma non è questo il punto — che affianchi i docenti nella valutazione, offrendo una conoscenza più ampia che nasce anche dal confronto con la famiglia e dalla considerazione del contesto culturale. O forse manca semplicemente il coraggio di ripensarsi come una istituzione realmente educativa.

In piedi quando entra il docente?

Se fosse vero che, come dice il Corriere della Sera, “la maggioranza dei professori è d’accordo”, sarebbe davvero preoccupante. Ma è già abbastanza preoccupante che a quasi centocinquant’anni dalla nascita di Maria Montessori, e nel suo paese (che tuttavia non l’ha mai amata troppo), si discuta di questo. Il tema è: alzarsi in piedi all’ingresso dei docenti. Se ne discute, sulle colonne del Corriere, partendo dal cestino lanciato contro una prof in una scuola: che è come discutere di giornalismo partendo da Vittorio Feltri. Del resto, la rappresentazione degli adolescenti come orde di scalmanati, restii ad ogni tentativi di incivilimento, con il cervello in pappa per troppo uso di Internet e telefonini, è il punto di partenza di una parte significativa dei ragionamenti attuali sulla scuola e l’educazione. Una rappresentazione denigratoria delle nuove generazioni che è vecchia quanto il mondo, ma è assolutamente inutile farlo notare.

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Ascoltare e parlare: per una scuola dialogica

Rispondo con questo articolo alla riflessione di Daniele Lo Vetere, collega che personalmente conosco, sulla lezione frontale. Poiché l’articolo è lungo, enuncio subito la mia tesi: non si tratta di essere pro o contro la lezione, ma di affrontare il nodo della frontalità. Qualsiasi pratica didattica, non solo la lezione, è inefficace nella misura in cui docente e studenti si fronteggiano. Propongo come alternativa la circolarità, cui corrisponde, sul piano della riflessione educativa, la proposta di una sinagogia alternativa alla pedagogia, e sul piano politico l’idea di una democrazia assembleare, quale si presenta in particolare negli scritti e nella prassi di Aldo Capitini, teorico della nonviolenza e dell’omnicrazia (potere di tutti). 
Esistono diverse tipologie di lezione, che possiamo disporre lungo una serie che va dalla lezione frontale a quella che vorrei chiamare lezione circolare. Frontalità e circolarità sono i due poli della lezione. La frontalità corrisponde al setting più diffuso. C’è la cattedra e di fronte alla cattedra ci sono i banchi, disposti in diverse file. Nella classe sono chiaramente distinguibili due aree, l’area del docente e quella degli studenti. Se a quella cattedra, magari sopraelevata (se ne trovano ancora, e non mancano docenti che la reclamano, come Paola Mastrocola) siede un docente che parla alla classe facendo una sorta di conferenza, e gli studenti prendono appunti in silenzio, abbiamo quella che possiamo considerare senz’altro una lezione frontale. La frontalità è fatta anche di una sua prossemica, esige la distanza e la separazione. Se il docente si alza dalla cattedra e gira per la classe, pur continuando a parlare, la lezione è meno frontale, perché viene meno, o viene diminuito, proprio il fronteggiarsi, l’essere l’uno di fronte agli altri. La situazione della lezione circolare è invece questa: non ci sono banchi, le sedie sono disposte in cerchio, il docente parla, cercando però di assicurare anche agli studenti la possibilità di esprimersi. 
Sono dell’opinione che sia importante abbandonare la frontalità per passare alla circolarità, per ragioni che provo a spiegare brevemente. Il nostro lavoro di docenti consiste in diverse cose. 
Siamo docenti di una disciplina – nel mio caso, la filosofia e le scienze umane – che abbiamo il compito di insegnare. Siamo anche, in un modo problematico, degli educatori, ossia persone che si occupano della crescita umana di altre persone. Infine, fare scuola vuol dire anche lavorare per avere, domani, un certo tipo di società. Ci sono dunque tre dimensioni del nostro lavoro: una disciplinare, una educativa ed una politica. Si tratta di tre dimensioni strettamente legate tra di loro. L’alternativa tra istruzione ed educazione, ad esempio, è mal posta. Quando un docente legge in classe un sonetto di Petrarca, e cerca di farlo apprezzare agli studenti, sta facendo qualcosa che ha a che fare con il valore della bellezza. E far apprezzare la bellezza vuol dire educare. I valori, che educano, non sono astratti, ma concretizzati negli argomenti di studio. D’altra parte, la scelta stessa degli argomenti, proprio perché questi sono sempre legati ad un valore, non è mai neutra, ma è sempre politica. Un docente può scegliere di attenersi scrupolosamente alle Indicazioni Nazionali, ma anch’esse sono politiche. Ed anche in questo caso, a meno che il docente non si limiti a replicare asetticamente il manuale (ma, e ci risiamo!, anche il manuale è politico), non potrà fare a meno di trattare alcuni autori con più enfasi, più partecipazione, più competenza di altri, magari in modo inconsapevole. 
Quando entriamo in classe, lo facciamo guidati da una costellazione di convinzioni, più o meno chiare, su cose come l’importanza della cultura, o di un certo tipo di cultura, il significato dell’educazione e il tipo di società desiderabile. Queste cose, poiché hanno a che fare con i valori, sono purtroppo difficilmente dimostrabili. Insieme a queste nostre convinzioni e valori personali, ce ne sono altri di cui siamo portatori in quanto docenti della scuola pubblica di uno Stato democratico. Questo dovrebbe consentirci di avere una cornice assiologica di riferimento, benché molto minima. Ogni docente dovrebbe condividere, soprattutto, il valore della democrazia e delle cose che ad essa si ricollegano: il dialogo, il rispetto dell’altro, eccetera. La democrazia è il valore-cornice, che come docenti di uno Stato democratico non dobbiamo sforzarci di dimostrare. 
Un’altra cosa che non bisogna sforzarsi troppo di dimostrare, perché è sotto gli occhi di tutti, è che la nostra democrazia è in crisi. Una crisi dimostrata in modo oggettivo dai dati riguardanti la partecipazione alle elezioni. Sempre più gente non va a votare, perché sempre più gente pensa che non ci sia nessuno degno di rappresentarla. O perché semplicemente non ha alcun interesse per la cosa. O perché non ha fiducia sistemica: pensa che tutto il sistema non funzioni, e che votare non serva a farlo funzionare. Ma in Italia la democrazia è da sempre in crisi. Il nostro è un paese che in fondo non ha mai smesso di essere fascista. Le pratiche, le logiche, i valori democratici non sono mai penetrati a fondo nella fibra della nazione, non hanno mai messo radici davvero solide, non sono riusciti a soppiantare le logiche autoritarie, mafiose, corrotte. Abbiamo avuto ed abbiamo la classe politica peggiore d’Europa, una tristissima teoria di delinquenti, mafiosi, corrotti e corruttori, piccoli boss di provincia messi a governare una nazione, semi-analfabeti cui è stato affidato il governo della scuola, eccetera. Abbiamo avuto ieri le stragi di Stato, abbiamo oggi – mentre ieri l’altro gettavamo l’iprite su gente inerme in Africa: ma lo abbiamo rimosso – un razzismo sempre più montante, e sempre più spesso omicida. Un docente di uno stato così imperfettamente democratico, insieme alle altre domande (come posso insegnare bene la mia disciplina? come posso favorire la crescita dei miei studenti), non può che porsi questa domanda: come posso, in quanto docente, contribuire alla realizzazione, nel mio paese, di una autentica democrazia? 
Daniele Lo Vetere rivendica la tradizione in un mondo in cui, dice, “‘tradizionale’ è qualità negativa, tranne che nelle pubblicità dei biscotti”. Non ne sono così sicuro, sia perché insegno a Siena (ma, si potrebbe dire, Siena costituisce un’eccezione), sia perché, in una società consumistica, ciò che fa vendere i biscotti può assicurare anche il successo di un partito politico. Soprattutto, mi pare che usi come se fosse non problematico un concetto che invece è altamente problematico. Non esiste la tradizione, esistono le tradizioni. Il passato, che la tradizione rappresenta, non è un blocco compatto, ma una molteplicità di storie. A Siena, ad esempio, la tradizione è, per eccellenza, il Palio. Ma non è l’unica storia che ci consegna il passato. Siena è anche la città di Santa Caterina. È la città di San Bernardino. Ed è la città degli eretici: Fausto e Lelio Sozzini e Bernardino Ochino. Un senese può scegliere in quale di queste tradizioni collocarsi. Quella cattolica ed ortodossa o quella eretica, ad esempio. Veniamo alla scuola. Senza andare troppo indietro nel tempo, possiamo individuare due modelli scolastici che anticipano la scuola che abbiamo. Il primo è quello della scuola gentiliana e fascista (più fascista che gentiliana, a dire il vero). La scuola che insegna il razzismo, il colonialismo, il nazionalismo; la scuola che crea il perfetto fascista. Abbiamo avuto poi la scuola democristiana, la scuola nazional-popolare, al tempo stesso elitaria e di massa, alla quale Pasolini imputava la distruzione delle diverse culture di classe ancora presenti nel nostro paese, e che corrisponde storicamente all’avvento dell’era del consumismo. Dopo la crisi della cosiddetta Prima Repubblica, che ha spazzato via sia la Democrazia Cristiana che il Partito Comunista, si è aperta una terza stagione, caratterizzata per la scuola da diversi interventi che ne hanno rimodellato il profilo per meglio adattarla alle esigenze attuali del capitalismo: la scuola azienda. 
Accanto, intorno, contro, oltre questa realtà c’è la tradizione della riflessione, della ricerca, della sperimentazione pedagogica. Una tradizione che, naturalmente, è anch’essa molteplice. C’è la pedagogia cattolica del personalismo di uno Stefanini o d’un Flores d’Arcais (Giuseppe, non Paolo), c’è la pedagogia laica che si richiama a John Dewey, c’è la pedagogia marxista, c’è la pedagogia che si pretende scientifica, c’è la pedagogia della nonviolenza, eccetera. Fare scuola oggi significa collocarsi criticamente non solo riguardo alla scuola attuale, ma anche riguardo alle tradizioni di cui s’è detto. Esclusa la scuola fascista, mi chiedo se si possa rivendicare la tradizione della scuola democristiana. È la scuola che ho vissuto da studente, e da studente proletario. È la scuola che mi ha indirizzato verso l’istituto professionale, nonostante la mia chiarissima vocazione umanistica. Ma il mio vissuto conta relativamente. Quello che mi sembra evidente è che la scuola democristiana non ha lavorato sufficientemente, o non ha lavorato con gli strumenti giusti, per la costruzione di una società autenticamente democratica. 
Certo, rispetto alla scuola che abbiamo adesso, per qualcuno perfino la scuola democristiana può diventare un modello. Ma è, in gran parte, per quel bias che ci porta a considerare i tempi passati sempre migliori del tempo presente. Ho sotto mano un libretto del 1853. Ne è autore Tommaso Pendola, pedagogista (tra i pionieri in Italia dell’educazione speciale) e rettore del Regio Collegio Tolomei di Siena: che poi sarebbe diventato il liceo nel quale oggi insegno. Rivolgendosi ai genitori dei suoi studenti in occasione della “solenne distribuzione dei premj”, il rettore, che è anche un sacerdote, si duole di “vedere i genitori talvolta cooperare inavveduti alla ruina dei figli”, e fa la lode dei tempi antichi. Leggendolo, è difficile non pensare alle tante tirate pseudo-pedagogiche di oggi sull’assenza dei padri, sui genitori che non sanno più fare i genitori, sui no che aiutano a crescere, eccetera. 
Ho citato, tra le altre, la tradizione della pedagogia della nonviolenza. Ne è stato il fondatore, in Italia, Aldo Capitini. Dopo aver sperimentato la prigione fascista, alla fine del Regime Capitini si oppose alla democrazia dei partiti, ritenendo che fosse troppo poco (presentendo, si direbbe oggi, quella che sarebbe stata la partitocrazia). Invece di entrare nel Partito d’Azione, creò i Centri di Orientamento Sociale. La democrazia è reale, pensa e scrive, se la gente di incontra a discutere degli affari pubblici. C’è democrazia se c’è assemblea. I COS erano assemblee partecipate, il cui principio di base era: ascoltare e parlare. Mi raccontava un suo collaboratore, Pietro Pinna, che il diritto rigoroso di parola era assicurato anche ai provocatori. “Ascoltare e parlare” dovrebbe essere scritto sulla porta di ogni aula scolastica, se vogliamo che la scuola sia un laboratorio di democrazia. 
Lo Vetere cita il Dewey di Esperienza e educazione. Si tratta, come è noto, dell’opera con la quale il filosofo e pedagogista padre dell’attivismo reagisce alle derive del movimento da lui stesso iniziato. Questo non vuol dire che sia diventato un sostenitore della scuola tradizionale: semplicemente pensava che non fosse sufficiente, né pedagogicamente sensato, limitarsi a rovesciarla. Non bisogna dimenticare che Dewey è l’autore che nel 1899, in Scuola e società, così giudica il setting tradizionale della scuola, basato su cattedre, banchi, lezione e libro di testo: “Tutto è fatto ‘per ascoltare’ — poiché studiare semplicemente da un libro non è che un altro modo di ascoltare; tutto attesta dipendenza di una mente da un’altra mente. L’attitudine ad ascoltare significa, comparativamente parlando, passività, assorbimento: ci sono quei certi materiali già pronti, che sono stati preparati dalle autorità scolastiche, dall’insegnante: l’alunno deve accoglierne quanto più può e nel più breve tempo possibile”. Nella scuola che l’attivismo ha pensato come alternativa, l’insegnante finiva per non parlare più: di qui la correzione degli ultimi anni. Che non vuol dire tornare ad una scuola in cui parla solo l’insegnante. Vuol dire fare una scuola in cui l’insegnante parla e ascolta, lo studente parla e ascolta, e tutti cercano di fare esperienze reali e significative. 
La scuola che abbiamo oggi è la scuola azienda; per essere più precisi, una scuola che ha avviato da tempo un processo di aziendalizzazione che i docenti non sono riusciti a contrastare efficacemente, e che corrisponde alle esigenze del sistema economico. In realtà, dal punto di vista del lavoro educativo e didattico, mi pare che la scuola di oggi sia poco differente da quella di ieri. Al centro del lavoro scolastico c’è ancora la lezione, così come il setting scolastico è ancora quello deplorato da Dewey nel 1899. Otto volte su dieci, se si entra in un’aula scolastica italiana si trova un docente che sta facendo lezione a degli studenti seduti in fila nei loro banchi. Con una variante: è probabile che, invece della lavagna, stia usando una lavagna elettronica. È però ugualmente probabile che stia usando la lavagna elettronica come avrebbe usato la cara lavagna tradizionale. Il sistema scolastico italiano è terribilmente conservatore. Da qualche tempo, si sta cercando di innovarlo dall’alto introducendo strumenti informatici e digitali. Una cosa assolutamente normale: sarebbe ben strano se, in una società tecnologica ed informatizzata, non fosse tecnologica ed informatizzata anche l’istruzione. Per molti, questo cambiamento rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione, un passaggio epocale nella scuola italiana. Mi permetto di esprimere qualche dubbio. Il computer, il tablet, la lavagna elettronica sono degli strumenti, e come tutti gli strumenti possono essere usati bene o male. Possono servire per fare una didattica innovativa, così come possono essere messi al servizio della didattica più antiquata. Mi pare che peraltro non si rifletta molto su quella che vorrei chiamare l’analogicità del digitale. Analogica è, insegna Palo Alto, quella comunicazione che si alimenta di analogia. Se disegno un gatto per indicare un gatto, sto comunicando in modo analogico, perché il gatto disegnato assomiglia al gatto reale. Ora, il diffondersi di strumenti digitali favorisce appunto questo tipo di comunicazione. Su strumenti digitali come i pc, le lavagne elettroniche, i tablet, i cellulari, più del testo compaiono immagini, video, simulazioni multimediali. Tutte cose analogiche. Insegnare ricorrendo ad un’immagine su pc o tablet significa fare didattica analogica con strumenti digitali. È una cosa buona? Non lo so. Certo non c’è nessuna particolare innovazione nel leggere un libro di testo sul tablet, o addirittura (come propone una nota casa editrice) proiettarlo sulla lavagna elettronica. 
Célestin Freinet trasformò la scuola introducendo la tipografia. Gli studenti approfondivano un argomento, scrivevano un testo, poi lo stampavano. Il libro di testo, scritto da loro, era il punto d’arrivo, non di partenza. Poi i testi così stampati venivano condivisi con altre scuole. Una cosa del genere sarebbe oggi facilissima, dal punto di vista tecnico. Per cercare informazioni non bisogna più sondare le biblioteche (che però è una cosa così affascinante…), basta navigare la Rete; per scrivere in modo collaborativo basta aprire un documento su Google; per condividerlo con le altre scuole basta mandare una mail o creare un sito Internet. Ma quante scuole fanno questo lavoro? La scuola digitale è una scuola nella quale il più delle volte si è semplici fruitori di materiali prodotti da altri. 
Informatizzazione non vuol dire necessariamente innovazione, e si può innovare anche senza strumenti informatici. Non è, sia chiaro, un argomento contro l’informatizzazione delle scuole. È un argomento contro chi crede che basti informatizzare per cambiare. Ed è anche un argomento contro chi vuole cambiare davvero, ma senza aver riflettuto su quale scuola vuole fare. Vedo colleghi entusiasti per la flipped classroom: hanno sostituito la lezione con un video che gli studenti guardano a casa, per poi fare i compiti, o altro, al mattino a scuola. Non esprimo un giudizio, ma non posso fare a meno di chiedere: perché? In quale direzione si va? Quale scuola si vuole fare, sostituendo il docente che parla con un video? È chiaro che molto importa quello che si fa al mattino a scuola. Si fa lavoro cooperativo? Si discute? O si fanno semplicemente quei compiti che prima si facevano al pomeriggio? 
La scuola è cambiata, sta cambiando. È cambiata dall’alto, la stanno cambiando dall’alto. La stanno cambiando affinché corrisponda sempre meglio alle esigenze del mondo del lavoro. In questa direzione va, ad esempio, il discorso delle competenze. Che si debba lavorare per competenze, ossia che si debba insegnare anche a fare, è una ovvietà. Il problema è quali sono le competenze, quali sono le cose che uno studente deve saper fare. E la risposta è semplice: le competenze sono quelle che servono al sistema economico, con una spolveratina di competenze di cittadinanza, per dare una parvenza di formazione completa. Questo è il lavoro sostanziale che si sta facendo. Ora, questo è un problema per la scuola italiana, ma non è il problema maggiore. Il problema maggiore è che non c’è un’alternativa. Manca, nei docenti, negli studenti, nei pedagogisti perfino, una idea alternativa di scuola, come manca, dopo la crisi delle grandi narrazioni ideologiche, una idea alternativa di società. È per questo che le critiche, giuste, agli interventi dall’alto finiscono poi per risolversi in nulla più che vaghe affermazioni di principio, sotto le quali c’è la difesa (giusta, ma insufficiente) dei propri interessi corporativi. Si è creato un meccanismo perverso, per cui chi critica la scuola pubblica perché vorrebbe migliorarla è accomunato a chi, dall’alto, critica la scuola per indebolirla e depotenziarla (perché è diffusa nei docenti questa convinzione: che i governi siano interessati a svilire il loro lavoro e in generale la scuola per demolire l’uno e l’altra). È la riduzione al neoliberalismo, un procedimento dialettico sempre più diffuso, che sta prendendo il posto della reductio ad Hitlerum
Apro Il paese sbagliato, di Mario Lodi. Leggo: “La condizione dello scolaro somiglia a quella dell’operaio della grande fabbrica…”; “Lo scolaro, in una scuola autoritaria fondata sui voti, studia perché ci sono i voti. Se strappi il voto dalle mani dell’insegnante, tutto il castello crolla. È come strappare le armi alla polizia di uno stato oppressivo”; “Il contenuto ideologico e il metodo autoritario sono espressioni di una scuola politica di classe, che tende a formare uomini docili e passivi, possibilmente ignoranti sulle cose che scottano”. Siamo nel 1970. Se qualcuno scrivesse oggi quelle parole, lo si accuserebbe di fare il gioco del sistema. Di voler demolire l’istituzione. Di essere in fondo un reazionario, contro il quale è bene difendere la tradizione. È una trappola che costringe all’afasia. O meglio, alla sola retorica della scuola pubblica che salva, che forma al pensiero critico, eccetera. La retorica dello spot ministeriale sull’importanza dello studio, con l’immancabile Vecchioni. Uno spot nel quale, ed è cosa assai interessante, il cantante-professore afferma: “non importa se leggiamo un libro con le pagine o il monitor di un computer”. Non importa molto, infatti. E torniamo al discorso di prima: lo spot ministeriale sull’importanza dello studio e della scuola è in fondo rassicurante. Sì, ci sono oggi computer e tablet, ma quello che si fa è sempre quello. Si legge, ieri su un libro, oggi su un monitor. 
C’è una cosa condivisibile ed importante in quello spot. Dice Vecchioni: “E succede anche che siamo noi insegnanti a imparare dai ragazzi”. Prendiamo sul serio questa affermazione. Consideriamola, anzi, una affermazione dalla quale far partire la riflessione sull’educazione. Permettetemi di esprimere l’idea con le parole di un autore che, come esperto di processi educativi, considero un po’ più autorevole tanto di Vecchioni quanto degli autori degli spot ministeriali. Scrive Paulo Freire in quel libro bellissimo che è Pedagogia dell’autonomia: “…è necessario che fin dall’inizio del processo formativo, diventi via via sempre più chiaro un fatto: nonostante le differenze esistenti tra loro, chi forma si forma e si ri-forma nell’atto stesso di formare, mentre chi viene formato si forma e al tempo stesso diventa formatore nell’atto di essere formato”. C’è in queste parole un potenziale rivoluzionario straordinario. Da sempre l’educazione è una cosa che qualcuno fa a qualcun altro. C’è il soggetto e c’è l’oggetto dell’educazione. La parola pedagogia – peraltro poco amata dai docenti – esprime questo movimento. Pedagogia è educazione dei bambini: e già questo basterebbe a suggerire la necessità di abbandonare il termine, nel momento in cui si parla di formazione per tutta la vita. Ma soprattutto evoca l’immagine di colui che guida un soggetto in condizione di minorità. Per quanto Freire continui a usare la parola, pur ripensando profondamente la cosa, sarebbe opportuno usare una parola nuova per dire una nuova educazione. Si tratta di passare dall’educazione alla co-educazione. Da qualche tempo, adopero per indicare questo secondo approccio la parola sinagogia: educare sun, con. Si ha sinagogia ogni volta che due o più persone fanno insieme cose che contribuiscono alla crescita di ognuno di loro. E quando ciò accade, si realizza una συναγωγή, una assemblea. Quella cosa fondamentale per la democrazia. 
Freire non è contrario, come forse ci si aspetterebbe, alla lezione. Scrive, sempre nell’opera citata (più immediatamente fruibile, per chi insegna, della più nota Pedagogia degli oppressi): “La dialogicità non nega la validità di momenti esplicativi, narrativi in cui l’insegnante espone o parla dell’oggetto. La cosa fondamentale è che insegnante e alunni sappiano che la loro posizione è dialogica, aperta, curiosa, investigativa e non passiva, mentre si parla o mentre si ascolta. L’importante è che insegnante e alunni si considerino epistemologicamente curiosi“. È quella che all’inizio di questo articolo ho chiamato lezione circolare. Nelle prime pagine del suo libro, l’educatore brasiliano scrive che in essa si propone di esporre “i saperi a mio avviso indispensabili per la pratica dell’insegnamento da parte di educatrici o educatori critici, progressisti”, ma aggiunge: “Alcuni di questi saperi, tuttavia, sono egualmente necessari anche per educatori conservatori”, perché sono richiesti dalla pratica educativa stessa, indipendentemente dalle idee politiche del docente. Non sono così sicuro sulla possibilità di accettare il principio appena esposto dell’educazione dialogica anche da parte di chi ha una Weltanschauung conservatrice. Fare sinagogia vuol dire ripensare profondamente il proprio ruolo di docente, porsi con gli studenti in una posizione di simmetria, anche se di simmetria dinamica. Per chi ha una visione conservatrice – non credo che sia il caso di Lo Vetere – questo può sembrare un salto nel buio, un cedimento che può avere effetti catastrofici. Significa passare da una posizione di potere ad una posizione di empowerment. Si dirà: il potere è ineliminabile, e negarsi come figure di potere significa in realtà ingannare gli studenti, presentandosi come loro pari quando in realtà si è, istituzionalmente, loro superiori. Di vero c’è che l’istituzione assegna al docente un potere nei confronti degli studenti. Un potere che, se esercitato fino in fondo, può trasformare la scuola in una istituzione totale. Un docente può imporre agli studenti di star zitti ed immobili per più di un’ora, senza che nessuno possa rimproveragli nulla: è un suo diritto. Naturalmente anche il suo potere ha dei limiti stabiliti dalla legge. Soprattutto, a chi fa una obiezione del genere sfugge un fatto sempre più evidente: il potere del docente non è basato tanto sull’investitura dall’alto, per così dire, quanto sull’accettazione degli studenti. Il docente ha potere se gli studenti pensano che sia giusto che abbia potere. Mi è capitato qualche giorno fa di vedere questo video su Youtube: 
Una classe intera insulta e minaccia in modo pesantissimo l’insegnante, che si limita ad un poco convinto “adesso vado a chiamare il vicepreside”. È lei che non sa insegnare, non sa esercitare la sua autorità? Non ne sarei così sicuro. Ci sono intere scuole in cui entrare in classe vuol dire essere sistematicamente insultati e trovarsi nella impossibilità di fare qualsiasi lavoro didattico o educativo. In questi sistemi non c’è minaccia, rapporto disciplinare, sospensione didattica che basti. Del resto, se quella del docente fosse una figura che ha potere in sé, non occorrerebbe avere qualità personali per far valere quel potere. In realtà se degli studenti, in massa, decidono di non riconoscere il potere dei docenti, questi non hanno alcun modo per far valere il loro presunto potere. Il quale nasce, dunque, sempre da un tacito riconoscimento da parte dello studente. Ora, se sono io che ti accordo potere, al tempo stesso io ho potere su di te. Tu hai potere solo fino a quando io accetto che tu abbia potere su di me; il tuo potere dipenda dal mio riconoscimento. E questo ristabilisce, anche in una situazione asimmetrica, una simmetria latente, per così dire. Fare un lavoro sinagogico vuol dire portare alla luce questa simmetria latente e farla diventare evidente. E, soprattutto, ridefinire il potere, che è anche e soprattutto, come ricordava Danilo Dolci (che contrapponeva il potere al dominio, sua degenerazione), possibilità. La scuola sinagogica è quel luogo in cui più persone, insieme, attraverso il dialogo, confrontandosi con i saperi, possono esplorare insieme le possibilità individuali e collettive. La lezione, portata da polo della frontalità a quello della dialogicità, può essere uno strumento di questa scuola sinagogica. Non l’unico né il primo, ma nemmeno l’ultimo. 
Articolo pubblicato su La letteratura e noi, blog diretto da Romano Luperini, Palumbo editore.

Empatia verso gli animali e violenza

Alessia Parrino, dottoranda presso l’Università di Padova, mi ha scritto chiedendomi una intervista consistente in una sola domanda per la sua tesi di dottorato. La domanda è la seguente: “How in your opinion, educate children to feel (or to improve, or to increase) empathy toward animals could prevent antisocial and violent future behaviour?”. Quella che segue è la mia risposta.
La domanda contiene un implicito: che educare i bambini all’empatia verso gli animali prevenga i comportamenti violenti in futuro. Si tratta di una affermazione che non è possibile dare per scontata, e che va analizzata. In passato, uno degli argomenti in favore di un migliore trattamento degli animali era che la violenza sugli animali porta prima o poi alla violenza sugli esseri umani, e che dunque educare al rispetto per la vita animale – pur essendo questa priva di diritti – può tornare a vantaggio dell’umanità. La tesi opposta a questa sostiene, invece, che la violenza contro gli animali ha una funzione catartica, serve a scaricare una violenza che altrimenti si indirizzerebbe verso l’essere umano. E’ la tesi che sostengono coloro che difendono spettacoli come la corrida. Si tratta di due tesi che hanno in comune la constatazione di un certo livello di violenza presente nell’essere umano, che secondo i primi va contrastata incoraggiando la gentilezza anche verso gli animali, mentre per i secondi va manifestata in qualche modo. 
La questione conduce dunque ad una seconda domanda: l’essere umano è violento? Si tratta di una questione che fa tremare i polsi a filosofi, antropologi, sociologi e psicologi. Proverò ad azzardare una risposta senza alcuna pretesa di offrire nulla più che una ipotesi sulla quale lavorare. 
Una cosa che è facile osservare è che, se la violenza è sempre stata presente nelle società umane, varia sensibilmente la quantità di violenza. Ci sono società ossessionate dalla violenza e società più o meno pacifiche. Ci sono epoche durante le quali popoli interi si sono massacrati ed epoche nelle quali essi sono riusciti a convivere. Il che vuol dire che non esiste una natura umana immutabile, e che l’essere umano può assumere forme e volti diversi nelle diverse sue espressioni storico-culturali. Perché alcuni di questi volti sono più violenti di altri? Le variabili decisive a mio avviso sono due. La prima è l’economia. Sappiamo che le società di caccia e raccolta sono (o meglio: erano, poiché ormai sono quasi del tutto scomparse) società quasi egualitarie, nelle quali i conflitti, mai del tutto assenti, vengono gestiti in modo meno cruento che in società considerate più avanzate. Quella in cui viviamo è probabilmente, invece, la società più violenta che sia mai esistita, una società fondata sulla competizione per il possesso di beni e risorse materiali, che produce guerre, morte e distruzione sotto l’apparenza del benessere. La seconda variabile è la cultura, ed in particolare la religione, che considero il fatto più rilevante della vita culturale di un popolo. Una religione può educare alla compassione o, al contrario, spingere alla guerra ed allo sterminio dello straniero. E’ evidente che credere in un Dio concepito come Signore degli Eserciti non favorisce le tendenze nonviolente e la comprensione dell’altro. 
Economia e cultura/religione sono in strettissimo rapporto tra di loro. Non ritengo la religione una semplice sovrastruttura dell’economia, ma è innegabile che dietro molte convinzioni, miti, figure religiose vi siano precisi rapporti economici e di potere. Una società violenta è caratterizzata da una struttura relazionale piramidale, cui corrisponde una visione del mondo ugualmente verticale. Il mondo viene pensato con un alto ed un basso, ed una gran quantità di confini, linee di separazione, muri. Una di queste linee di separazione – forse quella decisiva – è quella tra umano e non umano. Una separazione che poi tende a riproporsi nel mondo umano, con la distinzione tra chi è pienamente umano e chi è quasi-animale (una distinzione che serve ad identificare l’altro massacrabile). Se le cose stanno così, i due problemi della violenza contro gli esseri umani e della violenza contro il non umano sono strettamente legati. C’è una prima separazione, che è quella tra umanità e natura, con quest’ultima che è oggetto di sfruttamento, e ci sono infinite altre separazioni nel mondo umano. E’ una intera realtà materiata di violenza, asimmetria, sfruttamento. E’ il dominio di alcuni su altri che si esprime in mille forme, e che distrugge ugualmente umani, non umani ed ambiente. 
La domanda iniziale può dunque essere riformulata così: educare all’empatia verso gli animali può servire ad avere una società meno violenta? Si può rispondere affermativamente, ma ad alcune condizioni. Quando parliamo di animali, tendiamo a riferirci ai cosiddetti animali da compagnia: cani e gatti, soprattutto. Mi è capitato di chiedere a degli studenti di scuola secondaria se gli animali hanno diritti. Quasi tutti, nei diversi incontri, hanno risposto di sì. Una certezza che poi è diventata problematica quando ho chiesto se allora hanno diritti anche i ragni o le formiche. Vivendo con un cane, so quale rapporto straordinario è possibile creare con un animale capace di comunicare con una intensità ed una profondità che spesso sono negate a noi umani, e mi sembra che la presenza di un cane nella vita di un bambino possa aiutarlo notevolmente nella sua crescita affettiva. Ma è insufficiente portare alcuni non umani dalla nostra parte, e lasciare tutti gli altri al di fuori del cerchio della rispettabilità etica. Quello che ci occorre è uno sguardo che consideri con rispetto ogni essere vivente: qualcosa come il “rispetto per la vita” di cui parlava Albert Schweitzer. Rispetto, sì, anche per il ragno e lo scarafaggio. Un rispetto fondato sul fatto che ogni vivente vuole vivere, dice sì alla vita. 
Se un bambino comprende che nessuna vita, nemmeno quella che occorre dolorosamente sopprimere (perché anche solo coltivare una pianta vuol dire scegliere di sopprimere alcune vite), è priva di valore, e se impara a cogliere il valore non in qualità come la ragione o l’intelligenza, ma in questo fondo vitale, in questa tensione verso la sopravvivenza, è probabile che sia più difficile che nella sua mente si imponga lo schema piramidale del dominio. Quella di cui abbiamo bisogno per uscire dalla violenza è una Weltanschauung orizzontale, aperta, fraterna, che sostituisca la dimensione dello stare-accanto a quella del dominare-su. Educare in senso autentico vuol dire immettere fin da subito il bambino in questi rapporti liberati dal dominio, aperti, fraterni. Senza questa pratica sinagonica (nel senso dell’educarsi insieme, syn) più che pedagogica, una educazione al rispetto della vita non umana sarebbe completamente inutile, come sarebbe inutile qualsiasi forma di educazione civica.

Dodici tesi per una scuola conviviale

Vorrei dare il mio contributo alla discussione sulla possibilità di una scuola diversa, avviata da Paolo Mottana (25 idee per una scuola diversa), presentando dodici tesi che costituiscono il nucleo di un libro che sto scrivendo, ed il cui titolo sarà La scuola conviviale. L’aggettivo conviviale fa riferimento da un lato al Convivio platonico e dall’altro alla convivialità di Ivan Illich (La convivialità). Si tratta, in breve, di ripensare la scuola – la scuola pubblica – mettendo al centro due cose: le relazioni, che devono essere aperte, simmetriche, dialogiche, ed il rapporto tra scuola e mondo economico-sociale, che non deve essere di riproduzione, ma di ripensamento critico, alla ricerca di nuovi modelli di sviluppo e di realizzazione umane.
Sarò grato a chi vorrà discutere le tesi.

Prima tesi

La scuola conviviale è fondata sul dialogo non solo tra studenti e docenti, ma degli studenti tra loro. Studenti e docenti costituiscono una comunità che apprende, studia, ricerca e cresce insieme.

Seconda tesi

La scuola conviviale fa dunque a meno della relazione asimmetrica tradizionale tra docenti e studenti, ed instaura invece una simmetria dinamica, perché tesa verso la crescita comune. Il darsi del tu è il segno esteriore, ma non superficiale, di questo cambiamento.

Terza tesi
La scuola conviviale è una scuola serena, nella quale gli inevitabili conflitti vengono affrontati con gli strumenti del dialogo e della ragione. La serenità, l’armonia, la bellezza che sono elementi indispensabili di una situazione educativa saranno espressi anche esteriormente nell’ambiente dell’aula.


Quarta tesi

La scuola conviviale è un laboratorio di critica sociale. Questo non vuol dire che a scuola si debbano insegnare concezioni critiche verso il sistema e cercare di formare dei rivoluzionari: ciò sarebbe indottrinamento. Vuol dire, invece, che nella scuola si discute in modo aperto e critico del sistema sociale, economico, assiologico. Il problema del rapporto tra scuola e mondo esterno di risolve così: la scuola è il luogo in cui il mondo esterno viene passato al vaglio della critica. Il sistema sociale ed economico ha una straordinaria pervasività; alla scuola spetta il compito di rifiutarsi di essere una delle tante agenzie pubblicitarie del capitalismo, ed offrire agli studenti visioni del mondo alternative.

Quinta tesi
La scuola conviviale mette tra parentesi tutti i sistemi ideologici, religiosi, assiologici. Il suo atteggiamento di fondo è la scepsi, intesa come ricerca. Come tale, è rigorosamente laica, anche se non anti-religiosa.
Sesta tesi
La scuola conviviale riflette criticamente su sé stessa in quanto istituzione, configurandosi come meta-scuola.
Settima tesi
La scuola conviviale non si considera l’unico luogo in cui sia possibile un apprendimento reale ed una crescita umana completa. Ritiene, invece, che sia possibile imparare ovunque, e che la scuola sia solo uno dei tanti luoghi di apprendimento possibile.
Ottava tesi
La scuola conviviale è aperta ai saperi tradizionalmente esclusi dalla scuola, anche per ragioni di classe.
Nona Tesi
La scuola conviviale è aperta al contributo di molteplici soggetti. Sa che ascoltare le persone è uno dei modi migliori per imparare e crescere. E dunque ascolta il contadino, l’operaio, la casalinga, il commerciante, l’immigrato e così via.
Decima tesi
La scuola conviviale non è eurocentrica, ma guarda con interesse a tutte le culture del mondo. La scuola conviviale considera criticamente tutti i contenuti culturali, cercando diverse interpretazioni, punti di vista alternativi, fonti minori.
Undicesima tesi
La scuola conviviale considera il sapere come contributo al bene comune.
Dodicesima tesi
La scuola conviviale si occupa dell’educazione spirituale non meno che dell’educazione intellettuale.
Articolo scritto  per Comune-info.

Figure dell’amicizia educativa

Ceramica di Duride
L’antichità greca e romana ci offre con la figura del pedagogo una icona dell’educatore come amico. Il pedagogo non è il maestro (in greco didaskalos), ma colui che accompagna dal maestro il bambino e poi il ragazzo. Del maestro non ha l’autorevolezza, anche perché il pedagogo è uno schiavo, e spesso nemmeno parla bene la lingua, essendo straniero (ed a Roma è lui a diffondere la conoscenza della lingua greca); si tratta tuttavia di una presenza fondamentale per la crescita dei giovani (e il suo condurre il bambino darà il nome alla disciplina che studia l’educazione). Dopo aver accompagnato il giovane dal maestro, si siede con lui ed ascolta la lezione. Una volta a casa il pedagogo – che viene rappresentato per lo più come un vecchio calvo: non a caso lo stesso aspetto del maieuta Socrate – aiuta il giovane a ripetere la lezione che ha ascoltato presso il maestro. Vi sono dunque due lezioni: quella del maestro, ossia di un insegnante autorevole ed autoritario, che può ricorrere e ricorre di fatto anche alla sferza per insegnare, e la lezione domestica del pedagogo. Non escludo che anche quest’ultimo, in un contesto nel quale l’educazione è ampiamente fondata sulla coercizione, usasse qualche volta la sferza, ma la sua condizione di schiavo riduce ampiamente le sue possibilità in questo campo. L’eventuale durezza non cambia la natura della relazione, che consisteva in uno stare-accanto, e non in uno stare-sopra. Anche quando è costretto ad imporsi (tra l’altro spetta a lui insegnare le buone maniere), il pedagogo resta un compagno di strada, uno che guida camminando insieme, ascoltando, consigliando, spesso perorando la causa del giovane presso i genitori, preoccupandosi costantemente del suo bene.

L’oriente buddhista ha una espressione per indicare l’amicizia educativa o spirituale: kalyana-mittata. Nella tradizione pedagogica e religiosa indiana il maestro è il guru, colui che guida dalla oscurità alla luce, la guida spirituale che è per il suo discepolo, che vive con lui, un vero e proprio secondo padre. Il buddhismo, che alcuni considerano non una religione distinta, ma un movimento di riforma dello hinduismo, ha contestato alcuni dei punti centrali della società e della cultura religiosa tradizionale dell’India: il sistema delle caste, i sacrifici animali, le divinità. Nel buddhismo non c’è posto per alcuna fede in un Dio. Si tratta, invece, di una pratica (una terapia, per molti versi) di liberazione dalla sofferenza, che è in primo luogo psicologica. L’esistenza umana è piena di sofferenza: identificare le radici della sofferenza e trovare un modo per tagliarle è lo scopo dell’insegnamento del Buddha. Il quale non va accettato senza una indagine razionale personale. Nel Kalama Sutta il Buddha invita a non fidarsi né della tradizione, né delle scritture, né dei maestri, ma a “sapere da noi stessi”, a cercare la conoscenza che nasce dall’esperienza diretta e dall’esame autonomo.
Se le cose stanno così, è chiaro che la figura del maestro viene ridimensionata. Non sarà più colui cui affidarsi – un tale affidamento non ha valore, ed è anzi pericoloso – ma colui che ci aiuta ed accompagna nella ricerca. Tale è il kalyana-mitta, il “buon amico” di cui parlano diversi sutra buddhisti. Per quanto predichi la benevolenza non solo verso gli esseri umani, ma nei confronti di qualsiasi essere vivente, il buddhismo avverte anche del pericolo che nasce dalla relazione con persone che non seguono la via della saggezza. “Non si frequentino come amici i cattivi: non si frequenti la gente vile. Si abbia dimestichezza coi buoni amici, si frequentino i migliori fra gli uomini!”, dice il Dhammapada (VI, 78; qui ed oltre la traduzione è di Pio Filippani-Ronconi), uno dei testi fondamentali del buddhismo. Se la frequentazione dello stolto allontana dalla via della liberazione e ci precipita nel gorgo del vizio, e dunque della sofferenza (per il buddhismo, la sofferenza è una conseguenza inevitabile del male compiuto), avere accanto una persona virtuosa ci aiuta nella nostra crescita spirituale ed etica. In un altro testo fondamentale del buddhismo, Itivuttaka (I, 17) si legge: “Monaci, per il monaco che [ancora] è un discepolo e non è ancora giunto a padroneggiare la mente, ma che risiede nell’aspirazione per la suprema pace dai vincoli e ne fa un elemento riguardante il mondo esteriore (= la sua vita di relazione), io non vedo altro singolo fattore così giovevole quanto l’amicizia con un buon amico. Monaci, chi ha un buon amico [e consigliere] abbandona ciò che non è giovevole e rende a se stesso possibile conseguire ciò che è giovevole”.
Il buon amico non ha alcun potere, non occupa nessuna posizione gerarchica, non ha insegnamenti da trasmettere; è soltanto una persona buona, liberamente scelta, che ci sta accanto nel difficile ed accidentato cammino verso il bene. E’ l’amicizia fondata sulla virtù di cui parla Aristotele. Chi voglia assumere su di sé l’impresa dell’educazione dovrà essere per colui che intende educare un tale amico. Il che non vuol dire offrire sempre un modello di virtù, rappresentare la perfezione morale, colui che ha raggiunto la meta che l’altro deve raggiungere. Se così fosse, verrebbe meno il cammino comune, e con esso l’amicizia. Il buon amico invece è colui che è in cammino, che sa camminare insieme. La differenza tra l’educatore e il cosiddetto educando sta nel fatto che se il secondo, seguendo gli insegnamenti del Buddha, farà bene a tenersi lontano dallo “stolto”, il primo riuscirà a vedere ed a favorire la crescita in lui di quella “natura Buddha”, quel luminoso germe spirituale che secondo lo stesso insegnamento del buddhismo ognuno di noi ha dentro di sé, per quanto spesso così sepolto dall’ignoranza che sembra impossibile farlo affiorare e germogliare.
Articolo per Il bambino naturale.

L’amicizia educativa

Jean Leon Gerome Ferris, Aristotele
maestro di Alessandro Magno 
L’educazione è una faccenda di amore. Entrare con qualcuno in una relazione educativa – cosa che non accade soltanto nelle situazioni educative formali: a pensarci bene, anche una relazione sentimentale autentica è una relazione educativa, se si intende l’educazione come co-educazione; e l’amore non finisce forse quando non ci si educa più a vicenda? – vuol dire desiderare ardentemente il suo bene, considerare la sua persona come qualcosa di assolutamente prezioso, fare di quel tu, kantianamente, sempre un fine e mai un mezzo, e vigilarsi costantemente per liberarsi da ogni sentimento negativo che possa nascere nei suoi confronti (perché anche l’amore, come ogni luce, ha le sue ombre).
Se una differenza c’è, tra la relazione sentimentale e le altre forme di relazione educativa, è che nel primo caso c’è un coinvolgimento fisico che negli altri casi manca. Ora, l’amore, tolto il sesso, è amicizia. E la relazione educativa è, appunto, una relazione di amicizia. La più alta.
Pare che educatori e pedagogisti di destra e di sinistra, conservatori e progressisti, siano d’accordo nel disprezzare l’educatore che si pretende amico di suo figlio o del suo studente. E’, dicono, una figura patetica, che rinuncia al suo ruolo nel tentativo di ottenere un riconoscimento ed una soddisfazione tutto sommato narcisistica. C’è una distanza necessaria, assicurano, da tenere nell’educazione; se si annulla questa distanza, pretendendo l’amicizia, si rinuncia semplicemente ad essere educatori.

C’è del vero e del falso, in questa posizione. C’è – è vero – qualcosa di patetico e di ridicolo nell’adulto che scimmiotta l’adolescente, perché è sempre patetico e ridicolo chi cerca di essere quello che non è. Al tempo stesso, c’è della bellezza nella comunicazione tra persone di generazioni diverse, nello scambio culturale, nel confronto non unilaterale ma aperto. Non sempre l’adulto che ascolta la musica degli adolescenti sta cercando di assomigliare a loro; spesso sta semplicemente rifiutandosi di disconfermare l’identità culturale di suo figlio o del suo studente, consapevole che una tale disconferma rende molto difficile qualsiasi dialogo educativo.
Se si pensa il rapporto educativo come un rapporto necessariamente asimmetrico, è evidente che non si può parlare di amicizia educativa, poiché i rapporti di amicizia sono rapporti paritari e simmetrici. Gli amici sono sullo stesso piano; se uno dei due tenta di occupare una posizione di predominio – o la ottiene per un cambiamento di status -, è difficile che l’amicizia continui; certo, non resta la stessa. Ma un rapporto di amicizia non è soltanto simmetrico, è anche dinamico. Quando un’amicizia è autentica, profonda e viva, ha un potere trasformativo. Come gli amanti, gli amici non si limitano a fare cose insieme, a passare del tempo, a divertirsi, ma crescono insieme. Si può considerare la crescita comune come una caratteristica essenziale dell’amicizia, senza la quale essa degenera e diventa qualcosa di inferiore – possiamo parlare, considerando anche le sue implicazioni politiche, di cameratismo.
Afferma Aristotele nell’Etica Nicomachea che esistono tre forme di amicizia. C’è, in primo luogo, l’amicizia fondata sull’utile, che si ha tra persone che “si amano non per se stessi, ma in quanto deriva loro qualche bene all’uno dall’altro” (1156a). Segue l’amicizia fondata sul piacere, vale a dire il legame che unisce persone che sono reciprocamente gradevoli. Queste due forme di amicizia per Aristotele sono accidentali, perché chi è amato non lo è per la sua essenza, per quello che è, ma per l’utile ed il piacere che procura. Il terzo genere di amicizia è quella fondata sulla virtù. E’ il legame che si stabilisce tra persone buone che ricercano la virtù. Questa è per Aristotele l’amicizia perfetta, ed anche la più durevole, perché la virtù non è mutevole come l’utile o il piacere.
Se è vero quello che afferma Spinoza nell’Etica, e cioè che “il bene, che ognuno che persegue la virtù appetisce per sé, lo desidera anche per gli altri uomini” (IV, proposizione 37), allora colui che cerca la virtù è anche colui che è capace della forma più alta di amicizia. Ora, è esattamente questo il profilo dell’educatore. Che non è colui che possiede la virtù e ne rappresenta l’incarnazione più o meno perfetta, ma appunto una persona che si è incamminata verso la virtù: che cerca senza sosta il bene, che si interroga, che si inquieta per la giustizia. Chi è impegnato in questa ricerca desidera che anche gli altri la condividano, ed è questo desiderio che lo porta ad incontrare profondamente gli altri ed a stabilire con loro rapporti di amicizia. Per questa via chi è in cerca del bene è sempre educatore degli altri.
Bisogna notare, tuttavia, una differenza importante tra l’amicizia educativa e l’amicizia così com’è comunemente intesa. Due amici si sono scelti liberamente e continuano a scegliersi ogni giorno, esattamente come due amanti. Il loro legame è fondato sulla stima reciproca, sul fatto che uno avverte nell’altro la presenza di qualità che lo rendono amabile. Questo non sempre accade in una relazione educativa. Può essere che un insegnante si trovi di fronte degli studenti che non hanno alcuna qualità positiva; che gli appaiano, al contrario, chiusi ad ogni ricerca del bene, cinici, arroganti, con atteggiamenti che fanno nascere in lui sentimenti negativi. Che fare? Come potrà amarli, se non sono amabili?
Un educatore si riconosce per la capacità di avere un duplice sguardo. Da un lato, è capace di guardare il volto dell’altro: ha un’attenzione assoluta per quello che l’altro è qui ed ora, sa interpretare con finezza e profondità le esigenze, i bisogni, le emozioni, le aspirazioni positive e negative della persona che ha di fronte. Dall’altro, non si limita a questo sguardo, ma lo completa e lo supera con un secondo sguardo: quello che gli permette di cogliere l’altro dell’altro. L’educatore, cioè, non vede solo quello che l’altro è adesso, ma anche quello che l’altro può diventare. Negli occhi dello studente cinico scorge l’adulto sincero ed appassionato del bene che quello studente potrà diventare, se aiutato. E questo sguardo ha un carattere liberatorio per coloro su cui si posa. Si può dire che, dal punto di vista spirituale, la bellezza emerge grazie allo sguardo dell’altro; e l’educazione è appunto questo sguardo – amorevole, esigente, inquietante – che fa emergere la bellezza lì dove sembra non esserci.
Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.

Educazione e dominio

L’anarchismo è la posizione etica e politica di chi rifiuta ogni forma di dominazione ed assume, se non è già il suo, il punto di vista di chi è vittima di oppressione. Non è una posizione teorica, una filosofia di vita che affermi il valore della libertà o dell’individuo, ma una pratica di liberazione, una lotta per sottrarsi alla presa del dominio e sottrarre tutti coloro che ne sono vittime. Si tratta di qualcosa di più ampio della lotta di classe. L’oppressione dei ricchi sui poveri, dei proprietari dei mezzi di produzione su chi ha solo la propria forza lavoro (di chi deve “vendersi” sul mercato del lavoro) è indubbiamente una delle forme più vistose di dominio; ma non l’unica. C’è dominio ovunque esista una gerarchia, una asimmetria, che comporta sempre una limitazione delle possibilità vitali di chi occupa la posizione inferiore (e, naturalmente, un aumento ingiusto delle possibilità di chi occupa la posizione superiore). C’è dominio nelle relazioni di genere, ovunque la donna venga limitata nelle sue possibilità di espressione o sia ridotta a strumento del piacere maschile. C’è dominio nel mondo culturale, quando culture tradizionali vengono cancellate o deformate dall’imposizione di una cultura altra. In passato, quando la religione era l’aspetto centrale di una cultura, questa imposizione prendeva la forma della conversione religiosa forzata; oggi prende la forma dell’imposizione di una sistema di merci da acquistare e della visione del mondo come un campo di cose da sfruttare ed acquistare.

C’è il dominio sulla natura, nella forma dello sfruttamento indiscriminato della natura (le cosiddette “risorse naturali”), che ha perso ogni sacralità per diventare un immenso ma non inesauribile deposito di cose che servono all’uomo, e c’è il dominio sugli esseri non umani, ridotti anch’essi a cose, oggetti sui quali si può compiere qualsiasi atrocità. E c’è, infine, il dominio sul bambino.
Tutte queste forme di dominio hanno un nesso essenziale tra di loro. C’è un unico dominio che si esprime attraverso il rapporti di produzione, i rapporti politici, lo sfruttamento economico, l’imposizione culturale, la devastazione della natura, l’industrializzazione della vita animale, l’educazione. Si tratta di vie della violenza che nascono tutte da una medesima struttura mentale, che è ben iscritta nella psiche dell’uomo (e della donna) occidentale, e che può essere semplicemente indicata con una piramide. E’ uno schema che nasce, naturalmente, dal modo in cui si è organizzata la produzione, e che a sua volta giustifica quel modi di organizzare la produzione. Platone ed Aristotele, che vivono in un mondo in cui gli schiavi provvedono alle necessità materiali, non hanno nulla da dire contro la schiavitù, che anzi giustificano, così come la giustificherà San Paolo (e senza questa giustificazione il cristianesimo con ogni probabilità oggi non esisterebbe). La visione del mondo greco-cristiana ha al vertice Dio o l’Uno, sotto di lui gli angeli o altri esseri celesti, quindi gli esseri umani, e infine la natura e gli animali. Lo stesso mondo umano è organizzato secondo questo schema: al vertice il re, poi i nobili o la classe dominante, infine i sottomessi. E ancora, all’interno di ognuna di queste classi, una ulteriore gerarchia secondo il sesso e l’età: la donna proletaria è sottomessa al marito, il bambino alla donna. Un mondo piramidale, in cui ognuno è sottoposto a qualcun altro.
Apparentemente le cose oggi sono cambiate. Esistono le democrazie, ossia sistemi sociali, prima che politici, caratterizzati dall’orizzontalità e dall’uguaglianza. All’interno dei sistemi democratici è affermata l’uguaglianza tra uomini e donne e sono stati messi nero su bianco i diritti dei bambini. La realtà tuttavia è diversa. I sistemi democratici sono anche sistemi capitalistici; ora, il capitalismo è, per essenza, un sistema economico violento, la cui logica di incremento costante è incompatibile con le limitazioni imposte dal rispetto dell’etica e dei diritti umani. Se l’economia ha bisogno di un certo metallo che si trova in un paese africano, nessuno scrupolo umanitario impedirà di approvvigionarsi di quel metallo sfruttando un sanguinoso conflitto in atto. Se ci si rende conto che il corpo femminile aiuta a vendere, allora la donna diventerà un semplice corpo, una merce buona per vendere altre merci: con buona pace delle dichiarazioni sui diritti delle donne. Poiché l’economia capitalistica ha bisogno di una classe politica che ne rappresenti gli interessi, la stessa pratica del voto, essenza della democrazia, viene svuotata di significato: i sistemi che si dicono democratici sono sempre più oligarchie sostanziali, nelle quali una casta politica, impermeabile al cambiamento, governa per conto di un ristretto gruppo di magnati della finanza.
L’educazione ha un ruolo chiave nel sistema di dominio. E’ attraverso le relazioni educative che, fin dai primi anni e già in famiglia, si trasmette la struttura mentale propria del dominio. Tranne pochi casi fortunati, il bambino è immerso in un sistema relazionale gerarchico, nel quale occupa una posizione di inferiorità e di subordinazione. Per lunghi anni, dovrà abituarsi a relazionarsi dal prossimo da questa posizione di inferiorità; e quando la società riconoscerà la sua maturità, avrà passato troppi anni in questa posizione di inferiorità per ribellarsi al sistema. Il fatto che milioni di persone accettino una situazione palesemente assurda, quale è la realtà politica anche nei paesi cosiddetti democratici, non si comprende senza questa lunga pratica di sottomissione. Il bambino che si sforza oggi di essere un “bravo bambino”, ossia di conformarsi alle richieste dell’ambiente senza creare problemi, diventerà domani un “bravo cittadino”, legittimando con la pratica periodica del voto un sistema democratico che sempre più viene eroso dall’interno dalla corruzione, dall’affarismo e dalla violenza.

Il bambino è apertura al mondo

Cane da caccia. Disegno di Carlo Michelstedter.

Il bambino incarna una diversità radicale. Gran parte di ciò che comunemente si chiama educazione consiste nell’esorcizzare, limitare, controllare, arginare, incanalare e finalmente spegnere questa diversità. Affinché l’opera riesca occorre che sia tacitamente condivisa la percezione del bambino come non-persona o come persona parziale: occorre, infatti, molta violenza, che sarebbe ingiustificabile ed inaccettabile se al bambino fossero pienamente riconosciuti la dignità ed i diritti di una persona.

Ad inquietare del bambino è, in primo luogo, la sua libertà. Egli si colloca all’origine, sta nella dimensione magmatica dalla quale la società è nata con una serie di progressive solidificazioni, fino a diventare il sistema di regole, di compromessi, di ipocrisie che è. Non dà per scontato, il bambino, nulla di ciò che è scontato, ed in questo modo ci mostra quotidianamente che il mondo in cui viviamo, il mondo che abbiamo costruito o cui abbiamo dato il nostro tacito consenso, evitando di ribellarci, non è che uno dei mondi possibili: e non il migliore.
Non sa che farsene, il bambino, di cose per le quali gli adulti darebbero la vita, ed è pazzamente innamorato di cose che per gli adulti valgono meno di nulla. Per un bambino – per un bambino che non sia stato corrotto dagli adulti – non esiste lo status, quella cosa per la quale gli adulti sono disposti a fare ogni cosa. Perché non è per il denaro che un adulto cerca il denaro, né desidera il potere per il potere. Cerca queste cose per essere riconosciuto dagli altri, affinché la sua misera persona risplenda quanto più è possibile.
Diceva Hegel che nessuno è un eroe per il proprio cameriere. Deve sentirsi un po’ imbecille, al cospetto del proprio bambino, l’uomo che consuma la sua vita nell’impresa di far carriera, sacrificando tutto il suo tempo e le sue energie, accettando compromessi ed inghiottendo rospi. Deve sentirsi imbecille, di fronte a quella vita beata, al di qua di ogni preoccupazione sociale, di quell’ansioso e insensato inseguire sé stesso. Ma è un imbarazzo che dura un attimo, presto soccorso dalla commiserazione per quell’esserino che non sa come va il mondo, e cui bisogna insegnare tutto.

Cominciando dal dovere. Anzi, dai doveri: perché c’è il dovere morale e c’è il dovere sociale. Il primo consiste nei criteri del bene e del giusto, del fare e del non fare, che i genitori consegnano con qualche trepidazione ai loro figli, sperando spesso che non li prendano troppo sul serio. L’altro, il dovere sociale, consiste nell’impegno, posto precocemente sulle spalle del bambino, di contribuire alla ricerca familiare dello status. Dovere che si concretizza, per ora, nel dovere scolastico, che è il primo gradino del dovere sociale. Gli piaccia o no, serva o no alla sua crescita, abbia a che fare o meno con l’apprendimento, il bambino deve studiare e prendere buoni voti. Il successo scolastico è la prima forma di conquista dello status. Un bambino che non va bene a scuola è, per una brava famiglia borghese, motivo di vergogna: uno che pianta in asso la sua famiglia, dopo tutto ciò che essa ha fatto per lui. Il bambino che ha successo è invece un trofeo da esibire in società. Non è un caso che abbiano introdotto i voti fin dalla prima elementare. Già il bimbo di sei anni ha da essere fiero della sua pagella piena di dieci e guardare con qualche disprezzo chi ha voti meno buoni. E’ così che gli adulti portano la guerra nel mondo dei bambini. E’ così che comincia la corruzione, l’uscita dal paradiso infantile e l’ingresso nell’inferno degli adulti.
Il piccolo Carlo Michelstaedter raccoglie per strada un cane randagio, lo porta in casa e gli fa il bagno. E’, per lui, un modo per mettere in pratica i valori di amore e bontà che gli ha insegnato la sua famiglia. Ma qualcosa va storto: scoprendo la cosa, i genitori si arrabbiano a cacciano via il cane. Probabilmente si ricorderà di questa scena quando anni dopo scriverà, in quel capolavoro che è la sua tesi di laurea (La persuasione e la rettorica), una critica durissima dell'”educazione civile”, quel sistema di premi e castighi con il quale si fa del bambino un membro adattato ed irresponsabile (adattato in quanto irresponsabile) della società.
Il bambino è apertura al mondo. Considerarlo un organismo dedito esclusivamente alla ricerca del piacere – un piccolo mostro di egoismo – è uno dei modi per esorcizzare la sua differenza. Questo piccolo narcisista è in realtà un essere capace di guardare le cose e gli esseri con interesse assoluto: sta, etimologicamente, tra e nelle cose. Non ha ancora conquistato lo sguardo dall’alto, distaccato ed analitico, di chi domina, usa, riduce a sé. E’ un soggetto che non è emerso ancora dalla natura, non si è distaccato da essa per studiarla scientificamente e sottometterla attraverso il lavoro. Attraverso l’educazione questo essere che sta tra le cose e gli esseri imparerà l’arte del dominio, si avvertirà signore e padrone, diventerà l’homo faber che trasforma il mondo e ne fa il suo strumento. Dominatore e al tempo stesso dominato, signore della natura ma schiavo del suo sistema sociale ed economico, manipolato in ogni istante della sua vita, costretto alla produzione ed al consumo compulsivo, riuscirà a salvarsi, forse, solo se si ricorderà di essere stato bambino.

Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.

Storia di un bambino andato (quasi) a male

Il giudizio di terza media

Lo scorso anno Maurizio Parodi, tra gli interpreti più interessanti delle istanze della pedagogia libertaria nel nostro paese, mi ha chiesto di collaborare con un mio contributo ad un libro che stava scrivendo. Si trattava di rispondere alla domanda: Cosa bisogna fare perché i bambini non vadano a male? Ho risposto a questa domanda con un contributo intitolato “Camminare insieme”, che si trova nel libro uscito quest’anno: Gli adulti sono bambini andati a male (Sonda editore).

Se ripenso al mio percorso scolastico, mi pare di potermi riconoscere nella categoria dei “bambini andati a male”. Me lo conferma la rilettura delle mie pagelle scolastiche, che segnano una progressione negativa, da una iniziale quasi perfezione al disastro della scuola secondaria. Il fatto di essere un ex bambino andato a male (che poi si è ripreso per tempo, comunque) è un grande vantaggio per un pedagogista, appunto perché permette di rispondere alla domanda di Parodi con una qualche base di esperienza.
Il mio esordio scolastico è stato esaltante, almeno a giudicare dalla mia prima pagella:
Alunno dotato di una pronta e vivace intelligenza, molto serio e silenzioso prende però parte attiva alla vita della classe e riesce bene in tutte le attività scolastiche nonostante i primi tre mesi di assenza. Costante nel rendimento predilige le attività matematiche e la recitazione.
Intelligente, silenzioso, partecipe: alunno modello. Ero arrivato a scuola con tre mesi di ritardo per via di problemi di salute, gli stessi che mi hanno salvato dalla scuola dell’infanzia. Ma non arrivi in una classe tre mesi dopo senza pagarne le conseguenze. Ricordo poco della prima elementare, più che altro sensazioni: e tra tutte questo senso di estraneità che mi ha accompagnato per tutto il percorso scolastico (fino all’università, direi).
Della maestra della prima elementare ho un bel ricordo. Paziente, dolce, buona. Tra i pochi ricordi c’è l’immagine di lei che alla cattedra legge Zanna bianca, e tutti in silenzio ad ascoltarla. Io sono all’ultima fila, il mio compagno di banco è uno bambino precocemente obeso, ed a pensarci oggi c’è il sospetto di essere finito subito nel settore sfigati della classe. Ho bisogno di andare in bagno, ma sono troppo timido per chiederlo. E così il piacere dell’ascolto della lettura si mischia subito al disagio.
Terza elementare. La maestra brava non c’è più: si è trasferita a Bologna. Al suo posto c’è un maestro. Uno anziano, massiccio, autoritario. Ha una mazza di legno con la quale ci colpisce sulle mani quando sbagliamo qualcosa. Se ci ripenso, ricordo ancora il dolore sulle mani, ma soprattutto l’umiliazione. Sono fortemente a disagio in classe. Ho legato solo con il mio compagno di banco – questa volta uno smilzo pel di carota. Senza alcun dubbio faccio parte del settore sfigati. Oltre alla bacchettate sulle mani, di questo periodo della mia vita scolastica ricordo un metodo escogitato per rendere più sopportabili le ore scolastiche: pensare al dopo. Immaginare che a casa vi sia qualcosa di buono – le figurine Panini, ad esempio – che mi aspetta, e pregustare in ogni istante il momento in cui le attaccherò sull’album, godendo il loro inconfondibile odore di colla.
Il maestro, è appena il caso di dirlo, non si accorge del mio disagio. In terza scrive:

Alunno dotato di pronta e vivace intelligenza, socievole con i compagni, segue il corso con ottimo profitto in tutte le discipline di studio. Frequenta con evidente piacere e collabora con gioia con tutti i compagni nelle attività di gruppo. Ama molto il disegno e la recitazione.

Bisogna essere davvero molto distratti per scorgere un “evidente piacere” lì dove c’è un disagio costante.
Il giudizio dell’anno seguente è quasi la fotocopia di quello della terza:

Alunno dotato di una pronta e vivace intelligenza, serio e silenzioso, segue il corso con grande profitto in tutte le discipline di studio. Frequenta con molto piacere e collabora con i compagni nelle attività di gruppo. Bravo nella lettura e nella recitazione, ma un po’ incerto nella risoluzione dei problemi. Bravissimo in disegno e nella recitazione.

E’ evidente che il maestro ha dei giudizi standard corrispondenti alle classiche tre fasce di studenti: quelli bravi, quelli così così, quelli mediocri. Quelli bravi hanno tutti una pronta e vivace intelligenza e frequentano con molto piacere. Chissà come erano i giudizi sull’intelligenza di quelli meno bravi.
Da notare che nel passaggio dalla prima alla quarta elementare ho perso per strada la mia predilezione per le attività matematiche.
In quinta elementare, non ricordo per quali peripezie, mi sono liberato del maestro e mi sono ritrovato in una classe nuova con una nuova maestra. Anche qui senso di estraneità. Mi rivedo al secondo banco della fila centrale, con dietro di me una tipa che mi è ostile: e mi imbarazza molto sapere che l’ho costantemente alle spalle. La maestra non è male, ma ha una fissa per la religione. Stiamo sempre a pregare ed a cantare canzoni di chiesa. Comunque me la cavo:

Alunno molto tranquillo ed educato, ma un po’ timido. Lavora con serietà e profitto, impegnandosi con costanza e amore nello studio. Approfondisce i contenuti culturali, esprimendosi con molta chiarezza. Nel disegno si evidenzia in modo così notevole da rivelare spiccate doti di fantasia e di espressività.

Questa cosa del disegno va approfondita. Sono sempre stato bravino a disegnare, anche se al secondo anno delle superiori sono stato rimandato in disegno. Temo però che giudizio così positivo risenta del fatto che all’epoca amavo particolarmente disegnare soggetti religiosi, e soprattutto madonne doloranti e sante lucie con gli occhi al cielo, che mandavano in visibilio la mia maestra e venivano esposte nel corridoio.
Una cosa ricordo della mia quinta elementare. Si era nel 1982, l’anno della guerra delle Falkland. La prima guerra della mia vita. Devo dar atto alla mia religiosissima maestra di averci fatto partecipare emotivamente all’evento. Certo, non ci capivamo granché, dal punto di vista politico. Ma sentivamo che era una cosa brutta: e naturalmente pregavamo. Mi piace pensare che il mio successivo orrore per la guerra abbia qui le sue radici.
Veniamo alle medie. Si dice che le medie costituiscono il ventre molle del nostro sistema scolastico. In base alla mia esperienza, mi pare che sia così. Se alle elementari mi vedo a disagio, impacciato, bloccato, alle medie mi pare di essere addirittura angosciato. Anche qui, però, la mia angoscia viene scambiata per buona educazione, e riesco a strappare un giudizio positivo. In seconda media il giudizio è:

Dato il carattere riflessivo e ritroso, l’alunno rifugge da qualsiasi forma di ostentazione e da ogni intervento che non sia opportuno e meditato. Così facendo, egli dimostra maturità e serietà di propositi, metodo, propensione e disponibilità all’ascolto, ma soprattutto disponibilità ad accettare positivamente ciò che gli viene proposto. Possiede sufficienti mezzi espressivi e buon livello di preparazione. Qualche prova deludente in matematica.

Insomma, me la cavo ancora. Non sarò il primo della classe, ma si vede che piaccio. Sto al mio posto, sono docile e tranquillo: e questo per i miei professori è senz’altro segno di maturità. Non di timidezza, non del sentirsi spaesati, fuori posto, bloccati. Di maturità.
L’anno del mio andare a male è quello successivo. Nel giudizio finale della terza media si legge:

L’azione didattico-educativa nei suoi confronti ha incontrato qualche difficoltà a causa di certe sue immotivate resistenze psicologiche, che non gli hanno permesso un approccio proficuo al colloquio. Nel complesso, comunque, la sua formazione è di livello accettabile soprattutto nella lingua straniera e nel campo tecnico-pratico. Ha rivelato attitudine e abilità nel disegno ornato.

Che è successo al nostro studente maturo e riflessivo? E’ successo che, in seguito ad un episodio increscioso, si è posto la domanda: ma i miei professori mi apprezzano per quello che sono, come persona, o solo perché faccio tutto quello che dicono loro, studio e non rompo le scatole? ci tengono a me? si interessano a me? Domande cui è seguito l’esperimento: provare a non studiare, a mostrarmi indifferente, perfino sfrontato. E vedere se qualcuno mi chiede che è successo. Risultato dell’esperimento: a nessuno dei miei docenti importa molto di me. Di quello che sto vivendo davvero. Il mio professore di italiano – in italiano sono tra i primi della classe – commenta il mio calo così: “Fino ad ora ti abbiamo sopravvalutato, ora si vede quanto vali davvero”. Ho capito, insomma, che quello dei professori è un amore (sì, uno studente pensa che i suoi professori possano amarlo) condizionato. Se fai quello che dico io, ti faccio sentire amato; altrimenti, per me diventi meno di niente.
Qualche altra noterella a margine del giudizio. Ero bravo nella lingua straniera: che era il francese. Nella scuola media che frequentavo in quegli anni gli studenti erano divisi nelle sezioni a seconda dell’appartenenza di classe: quelli più borghesi nelle classi con lingua inglese, quelli più proletari nelle classi con lingua francese. Io, figlio di operaio, ero destinato al francese.
La mia predisposizione per il “campo tecnico-pratico” è una invenzione bella e buona. Non ho avuto mai nessuna predisposizione per nulla di tecnico o di pratico (e, sia chiaro, è una cosa di cui non mi vanto affatto). Ero bravo nelle materie umanistiche, soprattutto in italiano. Ma cerchiamo di metterci nei panni dei professori. Ero un ex-studente brillante che però ultimamente aveva dato problemi, e poi ero figlio di un operaio. Bisognava indirizzarmi al liceo? Cosa rischiosa. I figli degli operai in quegli anni venivano indirizzati all’industriale o al professionale, a meno che non fossero brillantissimi, senza la minima macchia. Non era chiaramente il caso mio. Licenziandomi con la sufficienza, mi consiglieranno dunque di iscrivermi in un istituto professionale. Consiglio che fortunatamente non ho seguito.
Mi sono iscritto all’istituto Magistrale, che aveva il vantaggio di essere una scuola umanistica ma di non essere un Liceo, scuola proibita ai figli degli operai. Gli anni della secondaria superiore sono stati anni di lotta continua con i professori. Ormai come studente ero andato definitivamente a male. Le premure dei miei professori erano ammirevoli: il professore di musica mi invitava ripetutamente – per il mio bene, sia chiaro – a lasciar stare la scuola per tentare il concorso in polizia, quella di latino aveva a cura la mia salute psicologica, raccomandandomi lo psichiatra, mentre quello di matematica si occupava concretamente del mio benessere mandandomi a prendere aria nel corridoio, dove si stava certamente meglio che nell’aula. Eppure qualcosa mi è rimasto, di quegli anni. Il mio professore di pedagogia aveva tanta stima nei miei confronti, da consentirmi di sostenere le interrogazioni su qualsiasi argomento. Potevo parlare, se volevo, di filosofia indiana, l’argomento che a quel tempo più di qualsiasi altro mi appassionava. Ricordo una interrogazione-discussione sul Vedanta, che è uno dei pochi ricordi piacevoli della mia vita scolastica. E, penso, è anche per questo che poi ho studiato pedagogia. E che oggi sono un pedagogista, uno che cerca di capire come impedire che i bambini vadano a male.

La relazione educativa

Una scuola ad Islamabad. Foto di Muhammad Muheisen
Una delle convinzioni più radicate in chi educa è che la relazione educativa debba essere inevitabilmente asimmetrica: l’educatore in alto (il padre, il professore), l’educando in basso (il figlio, lo studente). Certo, i segni esteriori di questa asimmetria – le tante cattedre con la pedana che ancora esistono nelle nostre scuole, ad esempio – suscitano qualche disagio, ma la struttura mentale, per così dire, è ancora ben salda. Da chi è nella posizione di figlio o di studente ci si aspetta un atteggiamento di sottomissione più o meno palese. A scuola il professore dà del tu allo studente, il quale darà del lei o addirittura (soprattutto al sud) del voi al docente. Uno degli affronti che i docenti tollerano meno è quando lo studente “risponde”, vale a dire quando tenta di porre il confronto con il docente su un piano di parità. I docenti ne parlano come di un azzardo inaudito, che bisogna rintuzzare prontamente; e quando si tratta di attribuire il voto di condotta, a fine anno, non si mancherà di tener conto di questi azzardi. L’alunno da nove o dieci in condotta è per definizione l’alunno che “non risponde”.
Una delle lamentele più diffuse nella pubblicistica pedagogica di largo consumo riguarda l’assottigliarsi reale o presunto di questa asimmetria. I genitori, si dice, oggi non vogliono più fare i genitori. Accorciano le distanze con i loro figli: vogliono essere loro amici. Non solo non sono più autoritari, non sanno essere nemmeno autorevoli. C’è qualcosa di vero in queste lamentele. E’ vero, mi sembra, che oggi non vi sia in giro molta voglia di impegnarsi in una relazione educativa, vale a dire in una relazione profonda, impegnativa, anche destabilizzante. E’ una conseguenza della deriva generale delle nostre relazioni umane, legata al tipo di società che abbiamo creato – o che abbiamo lasciato che altri creassero. Da un lato c’è l’individualismo, il mito dell’io, che ostacola (ma non sempre) la dedizione all’altro senza la quale non c’è educazione; dall’altro c’è il consumismo che brucia il tempo della relazione, erode la calma necessaria per un incontro significativo, mercifica tutto quello che può mercificare, rendendo sempre più esigui gli spazi – umani, sociali, esistenziali – per essere oltre sé stessi.

Una relazione educativa è una relazione umana autentica. Essa si riconosce in primo luogo per l’impegno: ci coinvolge, ci prende, ci costringe a metterci a nudo, ad abbandonarci. In una relazione educativa non solo si comunica, ma ci si comunica, ossia si mette in comune il proprio essere. In secondo luogo, in una relazione educativa l’altro è fine e non mezzo. Se l’io fa ombra al tu, se chiediamo all’altro di farci da specchio e di rimandarci un’immagine gratificante di noi stessi, che sostenga ed alimenti il nostro narcisismo, non siamo in una relazione educativa. Infine, una relazione educativa è dinamica, è uno star-dentro, ma anche un camminare-verso. L’educazione è sempre una situazione di ricerca – del bene, del vero, del bello, del giusto. Cose che non sono mai un possesso, ma indicano una direzione verso la quale muoversi.
Nulla di tutto ciò è possibile in una relazione asimmetrica. Non è possibile il coinvolgimento personale. In una relazione asimmetrica chi occupa la posizione superiore è distante, nascosto dietro la maschera del suo ruolo, e di sé comunica solo ciò che il ruolo prevede. Non c’è comunicazione, ossia lo scambio reciproco di due persone che mettono in comune il loro essere e cercano una forma di comunione, ma mera trasmissione, secondo la distinzione di Danilo Dolci. Per comunicare bisogna essere sullo stesso piano, altrimenti c’è il semplice passaggio di un messaggio dall’emittente al destinatario, che non ha facoltà di replica (o ha una facoltà di replica molto parziale). In una relazione educativa (meglio: pseudo-educativa) asimmetrica, chi educa rappresenta il modello verso il quale l’educando deve muoversi, l’ideale umano che deve adeguare e realizzare. L’io dell’educatore occupa tutto lo spazio della relazione educativa, schiacciando il tu dello studente. Peraltro, il proporsi come modelli ha come inevitabile risvolto l’inautenticità, poiché chiunque ha debolezze più o meno gravi, fragilità, contraddizioni, incoerenze. Per proporsi come modelli occorre nasconderli agli occhi dell’educando; una cosa non difficile, se si resta dietro la maschera del ruolo.
In una relazione asimmetrica il dinamismo è parziale. C’è un movimento che va dall’educando all’educatore. L’educatore è il modello, l’educando si muove verso di lui. Così, almeno, crede l’educatore. Provate a chiedere a degli studenti se considerano i loro docenti dei modelli. Molti di loro risponderanno semplicemente ridendo. In famiglia va diversamente – la famiglia è il valore fondamentale dei ragazzi di oggi: le ribellioni degli anni Settanta sembrano essere definitivamente alle spalle -, ma non sono comunque molti i genitori percepiti come modelli dai figli.
C’è vera educazione quando il dinamismo è totale, ossia riguarda tanto l’educatore quanto l’educando. Il dinamismo, in realtà, fa saltare anche questa distinzione terminologica. Poiché l’educazione è un processo che non ha mai fine, l’educatore non esiste: ognuno è sempre un educando. Il cosiddetto educatore si sta educando, e molto può imparare dal cosiddetto educando. Nella relazione educativa abbiamo dunque due soggetti in formazione che si muovono insieme. Può essere che uno sia più avanzato, che cammini davanti all’altro, ma il cammino resta comune. Nessuno sa esattamente dove porterà il cammino. Quello che si sa, è cosa spinge a mettersi in cammino: la ricerca della verità, della giustizia, del bene. Nella società delle cose, i valori sono non-cose per eccellenza; non sono mai dati, disponibili, tangibili. Sono stelle distanti, a volte occultate dalle nuvole, spesso così fioche che sembra che stiano per spegnersi.
Gli pseudo-educatori, quelli con la maschera, fanno un gran parlare di valori. Interpretano il loro ruolo come quello di chi consegna e trasmette i valori più sacri. Ma i valori di cui parlano spesso non sono affatto valori. Un valore si riconosce anch’esso per il dinamismo: esso è al di là dell’esistente, lo giudica, lo inquieta, lo costringe al cambiamento. I valori di cui parlano gli pseudo-educatori sono invece i valori dell’esistente, l’accettazione e glorificazione della società così com’è: ossia ingiusta, falsa, violenta, inautentica. Gli pseudo-educatori sono rappresentanti dell’ordine costituito, sicari dello status quo, nemici del sogno e dell’utopia. Quella che chiamano educazione è la riproduzione dell’esistente, la replica delle vecchie generazioni nelle nuove.
Il compito dell’educazione sembra essere quello di fare in modo che la società cambi pur restando la stessa. Cambino pure le tecnologie, le abitudini, gli stili di vita, purché restino immutati i rapporti di potere. Le istituzioni scolastiche educano all’individualismo, alla ricerca personale del profitto e del successo. Ad inserirsi nel modo migliore nel mondo così com’è, senza avere la presunzione di cambiarlo.
Per cambiarlo bisognerebbe uscire dall’individualismo. Legarsi all’altro, comunicare con lui, condividere il proprio disagio – che ordinariamente ognuno soffre per sé: perché è convinzione diffusa che, se si è infelici nella società del benessere, è per mancanza propria, non del sistema – e cercare insieme una via d’uscita. Per questo la vera educazione, intesa come un muoversi insieme alla ricerca dei valori, è sempre anche politica.
Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.

La questione cardinale dell’acacia

Il fiore dell’acacia di Costantinopoli
(www.neoplantarum.it)
Ieri sera eravamo seduti sotto un’acacia di Costantinopoli, in piazza Giordano: io, Xho e Happy (il cane che vive con noi). Happy leccava beata il residuo dello yogurt al pistacchio di Xho, tuffando il muso nel bicchiere. Da un capannello di gente a due passi s’è staccata una bambina, attirata da Happy. Ha cominciato a giocarci, accarezzandole la testa e le orecchie; poi ha chiamato la sorella più piccola, all’inizio timorosa, poi conquistata anche lei dalla dolcezza di quella cagnona dalle orecchie enormi.
C’era un profumo molto forte di fiori. “Ma da dove viene?”, ha detto Xho. Saranno i fiori dell’acacia? E per verificare l’ipotesi è saltata sull’erba e li ha annusati. “Sì, sono i fiori dell’albero”. La bambina più grande l’ha subito imitata, saltando anche lei sull’erba ed annusando i fiori (che sono peraltro molto belli): “Sì, sono questi fiori”. In quello stesso istante la madre s’è accorta di lei; e: “Scendi dall’erba, ci sono gli scarafaggi”. Immediatamente le ha fatto eco il padre: “Ci sono gli scarafaggi”. La bambina ha ubbidito. Ha lasciato perdere i fiori dell’acacia di Costantinopoli – bellissimi, profumatissimi – per paura di immaginari scarafaggi.
Ecco, ho pensato, come funziona quella che chiamano educazione. Alla fine il mondo ti pare uno schifo, con scarafaggi che spuntano ovunque: perché hai disimparato ad accorgerti dei fiori.

Educare alla libertà attraverso la libertà

Fonte: http://onsparklingform.tumblr.com

Che l’educazione abbia a che fare con la libertà nessuno, o quasi, lo nega. Tutti affermano che fine dell’educazione è formare persone libere ed autonome. Il problema è che la libertà è concepita come il fine, non come il mezzo dell’educazione. Ci si aspetta che la persona diventi libera attraverso un percorso formativo che comincia con l’assoluta negazione della libertà e diviene man mano meno rigido, fino a lasciare libero il soggetto ormai maturo. Il bambino è considerato un po’ come una pianta (le metafore botaniche sono frequentissime in pedagogia), che dev’essere legata, avvinta ad un palo affinché cresca dritta, e non segua le proprie disordinate inclinazioni. Quando la pianta è ormai adulta e ben formata, la si può slegare e lasciare che cresca come vuole. Come vuole? Crescerà, in realtà, come vuole chi dall’esterno ha pensato il suo sviluppo. Ed è quello che accade ai bambini. Avvinti dall’autorità, impacciati, costretti in mille modi, vengono lasciati in pace solo quando hanno interiorizzato le norme, quando hanno ormai quello che Augusto Boal chiama “il poliziotto nella testa” (flic dans la tete).

Libertà è, essenzialmente, autonomia. La parola autonomia rimanda a due cose: sé stessi (autos) e la legge (nomos). Autonomia può voler dire due cose: o offrirsi spontaneamente, da sé, alla legge, oppure darsi la legge da sé. La prima è la concezione conservatrice della libertà e dell’autonomia. Libero, si dice, è soltanto colui che è giunto a consentire interiormente con la legge, fino al punto di non volere se non ciò che la legge stessa vuole. Un soggetto libero così inteso non viola la legge perché l’ha interiorizzata al punto tale da essere tutt’uno con essa. Non si può dire che la legge venga dall’esterno a limitare la sua azione; la legge è tutt’uno con lui. La seconda concezione considera la legge come qualcosa che il soggetto non interiorizza, ma conquista da sé: e può essere che vi sia un contrasto tra ciò che lui ritiene buono e giusto e ciò che la società impone come buono e giusto. Una libertà di questo genere è indubbiamente pericolosa per la società, poiché mette in discussione i valori, le norme, i rituali condivisi; al tempo stesso è per essa una benedizione, perché le offre il dinamismo che è necessario per farla evolvere, per aprirla a nuove posizioni morali, a più avanzate conquiste civili. Chi oggi è un deviante, domani appare come un precursore. L’obiettore di coscienza che oggi è un criminale da sbattere in galera, domani apparirà come colui che ha difeso il sacrosanto diritto di non uccidere, che non può che essere riconosciuto dallo Stato.

E’ chiaro che i conservatori, quando parlano di libertà, si riferiscono a qualcosa che libertà non è. Ciò spiega il curioso paradosso riguardante i fini ed i mezzi. Come è evidente, esiste una relazione necessaria tra fini e mezzi: non è possibile raggiungere certi fini, se non con mezzi che ad essi sono omologhi. C’è un rapporto tra il seme e l’albero, tra l’azione e la sua conseguenza. Educare alla libertà attraverso la coercizione è semplicemente impossibile, se intendiamo la libertà come darsi da sé la legge. Una persona che fin dalla prima infanzia è stata educata a seguire la legge imposta da un’autorità difficilmente riuscirà, da adulta, ad essere realmente autonoma. Ciò non vuol dire che non potrà esserlo affatto. Fortunatamente, l’educazione ha influenza sullo sviluppo personale solo fino ad un certo punto. Il processo educativo è guidato dall’interno non meno che dall’esterno; e spesso accade che il movimento interiore contrasti efficacemente l’azione esteriore e prevalga su essa (ed abbiamo allora i ragazzi rivoluzionari figli di conservatori). La libertà cui si educherebbe in questo modo è la stessa del cane che, ben addestrato, può essere lasciato senza guinzaglio, poiché si è certi che non scapperà. Ma essere liberi vuol dire essere capaci di scappare.
Non si educa alla libertà se non attraverso la libertà. Tornando alla metafora botanica, ciò significa riconoscere alla pianta il diritto di crescere come vuole. C’è una saggezza vitale nella pianta, come nel bambino. A Maria Montessori va riconosciuto il merito di aver richiamato l’attenzione sul grande, straordinario lavoro che il bambino fa da sé – non un foglio bianco su cui gli adulti scrivono cose via via più complesse, ma un progetto che si svolge progressivamente da sé, assimilando ciò di cui ha bisogno dall’ambiente. Non c’è nulla che un bambino reclami con più forza del fare da sé: è un suo bisogno evolutivo. Ed è compito di chi lo educa provare un profondo rispetto per questo bisogno e riconoscere al bambino tutte le volte che è possibile il diritto e l’agio di muoversi autonomamente.
Coloro che negano la libertà al bambino in nome dell’educazione sono guidati da una visione positiva del mondo adulto. Essi sono consapevoli del potenziale rivoluzionario che c’è nel bambino, e per questo ritengono necessario intervenire al più presto per inquadrarlo, per fargli accettare il sistema socio-economico con le sue regole. Questa consapevolezza del potenziale rivoluzionario infantile è alla base anche dell’educazione libertaria. La differenza è che tale potenziale è in questo caso percepito positivamente, poiché si è dolorosamente consapevoli delle storture della società. Nel bambino, nella sua libertà, nella sua gioia si riconosce la leva per trasformare un mondo malato di tristezza, di autorità, di violenza. Educare il bambino vuol dire al tempo stesso andare alla sua scuola, imparare la sua lezione, ascoltare la sua voce.
Articolo per Il bambino naturale.

Educare è come togliere la polvere

Questo articolo inaugura la mia rubrica Educazione e libertà, nel sito Il bambino naturale.

La conta dei frutti delle azioni nel mondo evanes­cente è una di quelle opere che si situano felicemente all’incrocio tra culture e civiltà diverse: nel caso specifico quella musulmana e quella buddhista del Tibet.
Sull’autore, Khache Phalu (Phalu il kashmiro), nulle sono le notizie certe e molte le congetture: c’è chi vuole che si tratti del quinto o del sesto Dalai Lama, chi di un ricco mercante musulmano amico del Panchen Lama, chi del Panchen Lama stesso. Quello che è certo è che l’autore di quel trattatello che ancora oggi i tibetani venerano come un indispensabile manuale di saggezza popolare conosceva bene la letteratura del sufismo islamico, ed in particolare la mistica di Sa’di.
Nel libretto c’è una sezione dedicata all’educazione che, come il resto del libro, è piena di un buon senso tutt’altro che superficiale. Tra le altre, mi ha colpito questa sentenza: “Finché non vengano rip­ulite dalla terra da cui sono emerse, non puoi sapere se una pietra è preziosa né se una las­tra di met­allo levi­gato è uno spec­chio” (trad. G. Magi).
La pietra è, naturalmente, il bambino. Phalu il kashmiro ci dice che non dovremmo mai dare giudizi affrettati sui bambini o sugli adolescenti, poiché non possiamo sapere cosa c’è davvero sotto la polvere. Quello che verrà fuori non lo sa nessuno. Il bambino che oggi appare indolente, capriccioso, incapace di mantenere un impegno, irresponsabile, potrà diventare un adulto rigoroso, serio, profondo. Ma potrà diventarlo solo se gli adulti lo aiuteranno, e per poterlo aiutare gli adulti – i suoi educatori – dovranno avere la capacità di vedere in lui l’oltre, il più, il diverso. Continue reading “Educare è come togliere la polvere”

Educare nella società delle merci

Tutto è merce, tutto si può comprare e vendere, anzi tutto si deve comprare e vendere. Anche gli esseri umani.
Tutto, in quanto merce, è superficie, apparenza, vetrina. Vivere vuol dire stare nella vetrina ed attrarre i clienti: sedurre, portare con sé. Nessuno è escluso dal gioco universale della seduzione. Ad un corpo non è concesso di diventare vecchio. Occorre che si mantenga sempre giovane, perché non cessi di sedurre. Anche a costo di diventare ridicolo. Donne di quarant’anni si gonfiano le labbra a dismisura, uomini di settant’anni ottengono dalla chirurgia un volto finto in cambio delle loro rughe autentiche. Questo si chiama, oggi, bellezza: il tentativo disperato, triste, patetico di sedurre, di costringere a volgere lo sguardo, di imporre la propria presenza. Una degenerazione della bellezza e del suo senso. Se la bellezza autentica porta sempre con sé una scheggia di sofferenza con la quale ci ferisce e ci commuove, dandoci il presentimento di un altrove, la bellezza sguaiata delle merci, che spesso confina con il mostruoso, tiene avvinti al qui ed ora, è la negazione di ogni trascendimento, avanza una arrogante pretesa di appagamento totale. Continue reading “Educare nella società delle merci”

L’equivoco dello schiaffo educativo

E’ triste, nel paese che ha dato i natali a Maria Montessori, dover scrivere ancora oggi un articolo per confutare l’opinione che gli schiaffi possano essere educativi. E’ triste ma necessario, poiché si tratta di una convinzione ancora ben salda e diffusa, come lo è la pratica corrispondente. Ho avuto modo di constatare che si tratta di una convinzione diffusa anche tra i giovani, ed in particolare tra quei giovani che, per gli studi intrapresi, si troveranno con ogni probabilità a lavorare in futuro nel sociale ed in campo educativo.

Vorrei provare a spiegare per quale motivo ritengo che questa convinzione sia una bestialità pedagogica, e che la pratica corrispondente sia una violenza inaccettabile. Faccio notare, per cominciare, che nessun soggetto può essere preso a schiaffi impunemente. Una donna non può essere presa a schiaffi dal marito, un lavoratore non può essere preso a schiaffi dal suo superiore, un cliente importuno non può essere preso a schiaffi dal commesso, e così via. Nemmeno il giudice, dopo aver letto la sentenza, può prendere a schiaffi l’imputato, e lo stesso vale per le guardie carcerarie. Perché una persona condannata, poniamo, per omicidio non può essere presa a schiaffi, mentre un bambino che ha mangiato di nascosto la cioccolata sì? Perché nella nostra società il detenuto resta, nonostante la condanna, un essere umano dotato di dignità (ed è giusto che sia così); il bambino no. Il bambino è un essere umano a metà, per così dire; per quanto sia grande l’amore che affermiamo di provare per lui, non siamo disposti a riconoscergli piena umanità e piena dignità. Altrimenti mai ci sogneremmo di prenderlo a schiaffi.

Si dirà: ma il bambino non è, appunto, un uomo; non ha ancora sviluppato le sue capacità. E questo è un motivo per negargli dignità? Seguendo questa logica, bisognerebbe dunque prendere a schiaffi i portatori di handicap, le persone con ritardo mentale, i malati, i vecchi ormai spenti. Invece pensiamo il contrario: qualsiasi atto di violenza verso questi soggetti viene considerato particolarmente grave proprio perché si tratta di soggetti deboli. Perché non vale lo stesso con i bambini?

Nel caso dei bambini, la violenza ha l’alibi dell’educazione. Bisogna a questo punto chiedersi cos’è educazione. Senza farla troppo lunga, possiamo con ragionevole approssimazione dire che educare vuol dire aiutare una persona a crescere ed a diventare una persona completa. Ora, chi schiaffeggia un bambino è guidato da questa concezione dell’educazione? Lo dubito. Per chi usa lo schiaffo come risorsa pedagogica educare è evidentemente una cosa diversa: fare in modo che il proprio figlio faccia quello che lui vuole, che ubbidisca, che non dia fastidio, che si lasci guidare dall’esterno. Tutto questo ha naturalmente ben poco a che fare con l’educazione intesa nel suo senso autentico. Un bambino che non dà fastidio, che ubbidisce ai genitori, che si lascia guidare non è un bambino educato. Può essere, al contrario, un bambino infelice, incapace di esprimere i suoi bisogni, inibito. Un bambino che diventerà un adulto conformista, una persona priva di originalità e incapace di scelte autonome.

Lo schiaffo rivela dunque un tragico equivoco di fondo riguardante l’educazione. Si pensa che educare significhi modellare dall’esterno, mentre vuol dire creare le condizioni perché il bambino prenda forma da sé; che voglia dire far tacere, mentre vuol dire dare la parola. Perché vi sia educazione occorre una disposizione preliminare: la capacità di mettersi dalla parte del bambino, di ascoltarne e rispettarne i bisogni. L’adulto che ricorre alla violenza interpreta al contrario il rapporto educativo a partire da sé stesso, dalle sue esigenze, da quello che vuole o non vuole che il bambino faccia. Il bambino come essere autonomo per lui semplicemente non esiste. E dunque non esiste l’educazione.

E’ interessante, poi, che anche coloro che affermano il valore educativo dello schiaffo si guardino bene dal riconoscere ad altre figure educative il diritto di prendere a schiaffi il loro figlio. Genitori che schiaffeggiano normalmente i bambini sono pronti a correre a scuola a protestare se vengono a conoscenza della minima violenza fatta ai loro figli dagli insegnanti. Perché? Se lo schiaffo educa, e l’insegnante educa, l’insegnante dovrebbe poter ricorrere allo schiaffo. E’ un semplice sillogismo. Se si nega agli insegnanti il diritto di schiaffeggiare i bambini, è perché si sa in fondo che non è affatto vero che lo schiaffo educa. Il genitore sa bene, anche se lo nega, che si tratta di una violenza, e pensa di essere l’unico ad avere il diritto di compiere quella violenza. C’è, al fondo, una concezione pericolosissima: l’idea che il bambino sia proprietà della famiglia, che può farne quello che vuole. Un genitore può picchiare il bambino, l’insegnante no, perché il bambino è cosa del genitore, non dell’insegnante.

Ma cosa succede a un bambino che viene preso a schiaffi? Proviamo a guardare le cose dal punto di vista del bambino. Immaginiamo che abbia sei o sette anni. Il suo corpo è minuscolo rispetto all’ambiente ed al corpo di quelli che ha intorno. E’ un nano in un mondo di giganti. Questo è il primo aspetto da considerare: l’impotenza fisica. Il bambino, per la sua inferiorità corporea, si sente debole ed indifeso, in balia dei grandi, che possono fare di lui quello che vogliono. La mano di un adulto è gigantesca per lui. E’ un po’ come, per noi, essere colpiti da un essere mostruoso.
Chiunque riceva violenza sviluppa sentimenti negativi: l’impressione di essere stato vittima di una ingiustizia, la rabbia, la paura. La paura è in particolarmente devastante; meglio la rabbia della paura. Un bambino di quell’età considera i propri genitori come un modello.

Non, si badi, per quello che dicono, ma per quello che fanno. Questa è una cosa fondamentale. Non educhiamo con le parole, educhiamo con i fatti. Se prendiamo a schiaffi un bambino, è poi assolutamente inutile dirgli che la violenza è sbagliata. Con le nostre azioni gli stiamo dicendo il contrario, e per i bambini contano le nostre azioni, non le nostre parole. Ecco dunque una delle conseguenze di questa pedagogia bestiale: il bambino che subisce violenza diventa violento; gli schiaffi ricevuti a casa li restituisce a scuola ai compagni. L’insegnante chiama poi i genitori e si lamenta del comportamento del bambino; ed a casa il genitore punisce il bambino per aver preso a schiaffi il compagno prendendolo a sua volta a schiaffi. Il circolo vizioso continua.

In sostanza, ricorrendo allo schiaffo il genitore baratta lo sviluppo sereno di suo figlio per qualche momento di tranquillità. Qualche momento, non di più. Perché è una illusione credere che il bambino educato a suon di schiaffi vanga su davvero tranquillo ed ubbidiente. Al contrario. In anni di lavoro educativo ho avuto modo di osservare una costante: i bambini più irrequieti (e spesso violenti) sono quelli che vengono educati nel modo più rude. Non occorre essere dei pedagogisti per capire il perché. Il bambino è come una spugna: assorbe dall’ambiente. Ed in particolare, ovviamente, dall’ambiente familiare. Se in quest’ambiente c’è malessere relazionale, il bambino crescerà con questo stesso malessere. Se in una famiglia i conflitti si affrontano con la violenza fisica o verbale, il bambino affronterà i conflitti in questo modo. Inutilmente i genitori gli diranno che non dovrà fare così. Per ottenere un diverso comportamento, dovrebbero cambiare clima familiare. Cosa molto più difficile che dare uno schiaffo ad un bambino o rimproverarlo.

I bambini hanno bisogno di un clima sereno, hanno bisogno di osservare quotidianamente esempi di rispetto reciproco, di ascolto, di amore. Hanno bisogno dell’esempio di adulti che siano in grado di affrontare i conflitti in modo costruttivo. Hanno bisogno di delicatezza, di cura, di armonia. Diamo loro invece minacce, punizioni, regole inutili, perfino violenza fisica. Ogni volta che educhiamo un bambino abbiamo la possibilità di cambiare (in modo infinitesimale, ma non per questo non significativo) il mondo oppure di confermare le sue strutture di dominio. A noi la scelta.

Editoriale per Stato Quotidiano.

Democrazia, educazione e dominio degli adulti

Philippe Meirieu

In un libro dal titolo militante – Pédagogie: le devoir de résister (Esf, Issy-les-Moulineaux 2007) – Philippe Meirieu, una delle voci più ascoltate della pedagogie francese, sostiene, sulla scorta di Hannah Arendt, che occorre segnare un confine netto tra infanzia ed età adulta: l’educazione riguarda solo i bambini, non gli adulti; “non si possono educare gli adulti, né trattare i bambini come dei grandi. (…) All’educazione, nella misura in cui si distingue dal fatto di apprendere, bisogna che si possa assegnare un termine” (Arendt, citata a p. 71). Le ragioni di questa separazione sono in ultima analisi politiche: nei totalitarismi gli adulti sono infantilizzati e sottomessi ad un’autorità. Commenta Meirieu:

Da questo punto di vista, la separazione di cui parla Hannah Arendt è fondatrice della possibilità stessa di ogni democrazia: bisogna istituire una frontiera – anche arbitraria – tra i bambini e gli adulti. E’ l’esistenza di questa frontiera che permette al tempo stesso l’educazione dei bambini e l’esercizio del potere dei cittadini. Il bambino deve dunque essere educato e, durante questo tempo, non può essere considerato un cittadino, a rischio di cadere in una confusione generatrice di gravi abusi. L’adulto, dal suo canto, se può continuare ad apprendere, non può essere educato: è lui che deve decidere cosa apprendere, deve scegliere la propria via e decidere, direttamente o con l’intermediazione dei suoi rappresentanti eletti, sulle leggi che reggono la città. (p. 72)
Secondo questo ragionamento, c’è un momento nella vita di ognuno in cui il processo educativo termina, evidentemente perché ha raggiunto il suo scopo. E’ il momento in cui il bambino diventa adulto; un adulto educato. E’ un modo di concepire l’educazione che contrasta nettamente con l’idea diffusa dell’educazione permanente, la convinzione, cioè, che il processo educativo duri per tutta la vita. Meirieu naturalmente non ritiene che, giunti ad una certa età, la crascita ed il cambiamento si fermino; ma questa crescita non può essere eterodiretta. A questo fine distingue, sulla scorta di Arendt, l’educazione dall’apprendere. L’adulto continua ad apprendere, ed apprende finché vive; ma nessuno può educarlo. L’apprendimento è un processo autodiretto, l’educazione un processo eterodiretto. Nella democrazia i cittadini apprendono, nelle dittature sono educati.

E’ difficile contestare che la pretesa di dirigere dall’esterno la vita di persone adulte sia incompatibile con la democrazia. Aggiungerei che la presenza di figure che pretendano di orientare le masse indicando loro le vie del bene e del male mal si concilia con una democrazia, secondo lo stesso criterio – poiché comporta che milioni di adulti percepiscano sé stessi come minori, persone che hanno bisogno di qualcuno che le diriga dall’esterno. Una democrazia è tale solo se ognuno è autorità per sé stesso. Al tempo stesso, questo discorso ha un implicito che dà da pensare. Educare è, secondo questo ragionamento, un atto di dominazione. Vuol dire dirigere qualcuno dall’esterno. Per Meirieu è una dominazione che va bene per i bambini, non va bene per gli adulti. C’è un’età della vita in cui è bene essere dominati ed un’età della vita in cui ciò è violenza e totalitarismo. Ma siamo sicuri che sia così? E’ veramente democratico un sistema in cui tutti, sistematicamente, nella prima età della loro vita sono sottoposti ad una prassi totalitaria? L’educazione forma la persona. Che persone verranno formate attraverso l’eterodirezione? Se l’educazione è totalitaria, non formerà persone adatte a sistemi totalitari, ossia incapaci di democrazia? Non bisognerà piuttosto, in un sistema democratico, mantenere la distinzione tra educazione ed apprendimento, ed estenderla anche all’infanzia? Cioè: dare anche al bambino la possibilità di apprendere autonomanente, seguendo i propri interessi?
Il ragionamento di Meirieu implica una visione escludente della democrazia. La democrazia è cosa da adulti, che non riguarda i bambini. Gli uni sono liberi, gli altri sono schiavi. Gli adulti sono cittadini, i bambini no. Ma non è l’inclusività la caratteristica più vera della democrazia? Non è la democrazia quel movimento che incessantemente va alla ricerca degli esclusi, per portarli al centro della polis?
La società è attraversata da rapporti di dominio. Una democrazia autentica è quel sistema sociale e politico nel quale non esiste dominazione. E’, evidentemente, un ideale regolativo, proprio perché il dominio si insinua ovunque. Nostro compito è convertire il dominio, che è verticale ed asimmetrico, in potere, che è orizzontale e simmetrico. La scuola è, nei sistemi che si dicono democratici, un’ombra tra le tante. Come può esserci democrazia in un sistema in cui milioni di persone sono trattate come non cittadini, sottoposte a pratiche inferiorizzanti, private del riconoscimento pieno della loro personalità, del diritto di seguire i propri interessi e perfino di disporre del proprio corpo? Il dominio degli adulti sui bambini, lungi dall’essere la premessa di ogni democrazia, è il suo impaccio più grave. Basta entrare in una scuola, anche nel più democratico dei sistemi, per ritrovarsi paracudati in un regime totalitario, in cui tutti sono sorvegliati e puniti se non si adeguano all’ordine costituito. E il fatto che ancora esistano scuole è il segno della lontananza dei sistemi che si dicono democratici dalla realtà autenticamente democratica di una società del potere, priva di gerarchie e di sudditanze.

Ma insomma, cos’ha questo Comenio che non va?

B: Ma insomma, cos’ha questo Comenio che non va? A me sembra un grande precursore. Afferma la coeducazione di ricchi e poveri, di maschi e femmine. Nemmeno Rousseau si spingerà fino a tanto. Non è forse un bene che tutti abbiano accesso all’istruzione?
A: E’ estremamente difficile per noi non riconoscere la grandezza di Comenio appunto per il fatto che lui è un grande precursore. Siamo in una società che afferma la necessità per tutti di passare attraverso la scuola per diventare pienamente umani; siamo stati educati a pensarla così, e non riusciamo a pensare diversamente.
B: Preferiresti una società in cui soltanto ad alcuni fosse concesso l’accesso alla cultura?
A: Il problema è questo: cosa è cultura? Comenio è un critico rigoroso della scuola del suo tempo; con qualche sconcerto, leggendolo ti rendo conto che molti dei punti della sua critica sono ugualmente validi per la scuola di oggi. Vuole una scuola di cose, non di parole; una scuola di esperienze, non di libri. Questo me lo rende simpatico. Ma chi è Comenio? Un intellettuale. Uno, cioè, che rappresenta uno delle tante possibili modalità in cui può esistere un essere umano. Si può essere intellettuali, agricoltori, artigiani, giardinieri e così via. Per Comenio e grazie a Comenio, l’intellettuale diventa l’essere umano per eccellenza; la sua cultura – la cultura scritta – l’unica valida.

B: Ma puoi negare l’assunto di partenza di Comenio: che si diventa umani solo attraverso l’educazione?
A: Non lo nego. Ma distinguiamo due cose: l’acquisizione delle capacità di base della specie e il diventare un certo tipo di persona. Per acquisire cose come la capacità di parlare e la stazione eretta bastano i genitori. Per imparare a parlare non occorre nemmeno una educazione vera e propria: basta che il bambino senta parlare gli altri; impara da sé. Per imparare a parlare ed a camminare non occorre la scuola. La scuola serve per diventare un certo tipo di persona.
B: O magari per avere più possibilità. Saper leggere non è meglio che non saper leggere? Non è necessario per partecipare alla vita comune?
A: La necessità di possedere la competenza della scrittura è un risultato della diffusione della scuola, non la giustificazione della sua esistenza. Se grazie alla scuola si diffonde la scrittura, i pochi che non sanno scrivere hanno qualcosa di meno. Questo non vuol dire che, in assoluto, saper leggere sia meglio che non saper leggere.
B: Ammetti dunque che oggi è necessario imparare a scrivere, anche se poteva non esserlo al tempo di Comenio. Ammetti dunque che, almeno oggi, la scuola è necessaria?
A: Ammetto che oggi, per chi vive nella società occidentale, sia importante acquisire la competenza della lettura e della scrittura. Ma da questo non discende affatto che sia necessaria la scuola, così come la pensa Comenio e come la pratichiamo noi.
B: Cosa vuoi dire?
A: Che non è detto che per imparare a leggere e scrivere i bambini debbano essere concentrati in uno stesso luogo e sottomessi all’autorità di un solo maestro. I bambini possono imparare a leggere e scrivere dai genitori, a casa; nel caso in cui i genitori non siano in grado di farlo, possono chiedere l’aiuto di qualcuno che sappia farlo. Da ciò non discende affatto la necessità di concentrare molti bambini in uno stesso luogo.
B: Cosa c’è di male nel fatto di concentrare dei bambini in un luogo, per insegnare loro in modo più rapido ed economico?
A: Ovunque più bambini sono concentrati in un luogo, lo spirito dell’Istituzione è presente. Ovunque più bambini sono concentrati in un luogo, educazione ed istruzione sono solo parte del lavoro; ad essi si accompagna quello che Illich chiama “il programma occulto”. Concentrare dei bambini in un luogo sotto la guida di un’autorità socialmente riconosciuta vuol dire insegnare loro, oltre la lettura e la scrittura, una serie di cose: che devono obbedire; che unica cultura valida è quella che l’autorità considera tale; che, come dice Comenio, ognuno deve stare al proprio posto; che, se lo Stato non ti riconosce come tale, non sei nemmeno un essere umano in senso pieno; che il lavoro manuale non è veramente degno di un essere umano, e che quello intellettuale è segno di distinzione; ed altro ancora. Lo Stato ha un potere immenso: il potere di decidere che tipo di forma, tra le mille possibile, devono assumere le persone; e chi è più degnamente essere umano e chi meno.
B: Ma non sarebbe peggio se le scuole fossero riservate ai ricchi, ed i poveri fossero condannati all’ignoranza?
A: Continui a maneggiare in modo discutibile le categorie di cultura ed ignoranza. L’origine di questa categorizzazione è, appunto, la scuola. E’ la scuola che decide che alcune cose sono cultura ed altre ignoranza. E’ pacifico che dal punto di vista di chi è stato a scuola chi non è stato a scuola è semplicemente ignorante. Questo conferma la mia critica: la scuola ha la pretesa di dare patenti di umanità, e discrimina chi è al di fuori della sua presa, considerandolo un essere umano minore.
B: Ma non hai risposto alla mia domanda. Non sarebbe peggio se le scuole fossero riservate ai ricchi?
A: I ricchi a scuola si perfezionerebbero nella loro cultura, ed i poveri avrebbero la cultura dei poveri. Esisterebbero culture diverse per le diverse classi sociali.
B: Ma se la cultura dei ricchi è indispensabile per andare al potere, non è bene che tutti vi abbiano accesso?
A: Non dimenticare quell'”in che modo ognuno debba stare al posto suo” di Comenio. Se la scuola servisse davvero a consentire ai poveri di andare al potere, semplicemente non esisterebbe; le classi al potere non avrebbero mai consentito la nascita di uno strumento così egualitario. Il figlio di qualche povero, attraverso la scuola, può certo diventare magistrato. Si tratta di un fatto spiacevole che la classe dominante accetta di buon grado, perché è il prezzo da pagare affinché le grandi masse possano essere educate a stare al loro posto, e si possa riconoscere allo Stato, ossia alle classe dominanti, il diritto e il potere di decidere e quantificare attraverso una sua istituzione il valore degli esseri umani.

Comenio e la religione della scuola

Comenio
Se si cercano le radici della religione della scuola, bisogna rileggere la Didactica Magna di Comenio, opera che ha una importanza centrale nella nascita della pedagogia moderna.
Il ragionamento di Comenio è talmente semplice e lineare, che può essere distinto in punti.
Primo punto: “L’uomo, per divenire uomo, ha bisogno di essere educato” (è questo il titolo di un paragrafo della Didactica Magna). Per argomentare questo assunto Comenio evoca il caso di un bambino di tre anni disperso nei boschi, predecessore del più noto fanciullo selvaggio dell’Aveyron che Jean Marc Itard cercherà di educare nella Francia dell’Ottocento. Anni dopo, racconta Comenio, fu ritrovato: era uno strano lupo di aspetto umano; solo dopo l’intervento dell’educazione riacquistò la posizione eretta ed imparò a parlare e ragionare. Dunque: ove manchi l’educazione, un bambino non acquisisce nemmeno le caratteristiche comuni della sua specie, come il linguaggio o la stazione eretta. E’ difficile contestare questo punto. L’uomo è, per essenza, un essere che necessita di educazione. Il problema è quale educazione.
Secondo punto: Per educare i figli non bastano i genitori, perché sono pochi coloro che hanno abbastanza tempo per occuparsi dell’educazione dei loro figli; per questo “con singolare avvedutezza si è introdotto da tempo il costume di affidare i figli a molte persone elette, segnalate per sapere e moralità, affinché li istruiscano” (Comenio, Didactica Magna e Pansophia, La Nuova Italia, Firenze 1952, p. 31).

Terzo punto: Occorre dunque che in ogni città, borgo o villaggio vi sia una scuola, e che questa scuola sia frequentata da tutti i bambini, siano ricchi o poveri, maschi e femmine. Questo perché tutti, quale che sia la loro condizione di nascita, “sono nati con il medesimo fine principale, di essere uomini, ossia creature razionali, signore delle altre creature, immagini vere del Creatore” (ivi, p. 34). Attraverso la scuola tutti potranno, “avvedutamente ammaestrati nel sapere, nella morale, nella religione, trascorrere utilmente la vita presente, e preparare degnamente l’altra vita” (ibidem).
Ma se tutti riceveranno la stessa educazione, la società non diventerà egualitaria? Che accadrà ai contadini che saranno istruiti quanto i nobili? Comenio tranquillizza i suoi lettori: accadrà semplicemente che saranno contadini pii, buoni ed operosi; nulla più. Con l’istruzione universale “Saprebbero tutti a che debbono mirare tutti gli atti e i desideri della vita; entro quali confini si debba procedere, in che modo ognuno debba stare al posto suo” (ivi, p. 37; corsivo mio).
Tiriamo le fila del discorso. Nessuno diventa uomo (o donna) senza l’educazione; l’educazione vera è quella data dalla scuola. Nessuno dunque diventa davvero uomo (o donna) senza la scuola. La scuola è l’istituzione che fa di un animale un essere umano. Le scuole sono “officine di umanità” (ivi, p. 38), “fabbrica di uomini” (ivi, p. 40). Di più: nell’ottica di Comenio, la scuola ha una funzione anche religiosa: educa ad essere pii ed a conquistarsi la salvezza eterna. Si può parlare dunque di religione della scuola in senso pieno: la scuola è essenziale per la salvezza dell’anima. Questo vuol dire che tutti coloro che restano al di fuori della scuola sono da considerare ugualmente lontani dal sapere, dal bene e da Dio. 
La scuola universale e gratuita impedisce che gli ingegni che si trovano presso i poveri “passino inosservati e si perdano, con grave danno per la chiesa e per lo stato” (ivi, p. 41). Essa ha dunque anche un compito di promozione sociale, ma limitato ai poveri particolarmente ingegnosi (i “capaci e meritevoli” della nostra Costituzione); a tutti gli altri, la scuola insegna a stare al loro posto. Con ogni evidenza, ha una funzione ideologica che è in linea con quella svolta per secoli dalla Chiesa cattolica. La scuola è fabbrica di esseri umani, ma non forgia tutti con lo stesso stampo: alcuni li fa classe dirigente, altri sudditi; alcuni li fa dominatori, altri dominati. Dominatori e dominati stanno, grazie alla scuola, in uno stesso cerchio culturale, che giustifica il domini dell’uno e richiede l’obbedienza e la sottomissione dell’altro. Fuori dalla scuola c’è un mondo selvaggio, una terra non arata nella quale possono crescere le cattive piante della ribellione e della rivendicazione egualitaria. Grazie alla scuola ognuno si fa prossimo al padrone quel tanto che basta per non ribellarsi – per non essere radicalmente altro da chi comanda -, ma non quanto è necessario per rivendicare un uguale ruolo sociale, a parità di cultura.

Educazione?

Questa mattina ho posto nella mia terza la domanda: Che cosa vuo dire educare? Dalla raccolta di idee è emerso il seguente quadro:

Ci sono diverse cose interessanti su questa lavagna. In genere quando faccio questa domanda accade che quasi tutti rispondano che educare è imporre le regole; qui invece emergono aspetti più raffinati, come “tirare fuori i valori”, “formare la personalità” e “portare al rispetto degli altri” – e sorprende quel “non imporre nulla”.

La discussione di questi punti ci ha portati a riflettere sulla relazione educativa. Cosa accade quando uno educa un altro? Che tipo di relazione è? Tutti sono stati d’accordo nel ritenere che sia un rapporto biunivoco, di dare e ricevere: anche l’educando, in qualche modo, educa l’educatore. Quindi ci siamo chiesti in che modo l’educazione ha a che fare con la società. La vera educazione non riproduce la società, ma cerca di cambiarla, sottoponendola a critica. Cosa non va della società? Cinque cose, dicono gli studenti: l’egoismo, la corruzione, il vendersi, la falsità, la violenza. Non è sufficiente che chi educa critichi questi aspetti della società. Occorre che l’educazione, se vuole preparare la società di domani, sia libera da questi mali.
Ma la scuola è libera da questi mali? La risposta è unanime: no, non lo è.

Gianfranco Zavalloni, maestro

In anteprima un ricordo di Gianfranco Zavalloni che uscirà nel prossimo numero di Educazione Democratica (gennaio 2013).

Gianfranco Zavalloni, scomparso a soli cinquantaquattro anni per un male incurabile lo scorso mese di agosto, è stato uno dei più validi educatori del nostro paese. Dirigente scolastico, ma soprattutto maestro di scuola materna; e ancora: disegnatore, calligrafo, attore, creatore di burattini, animatore dell’Ecoistituto di Cesena, straordinario sperimentatore delle vie di una educazione nonviolenta, ecologica, creativa. Mentre la scuola si avvia a diventare digitale (pur con le solite contraddizioni del nostro paese: si montano le lavagne elettroniche in aule fatiscenti, in edifici che spesso non rispettano i più elementari criteri di sicurezza), Zavalloni ha praticato e teorizzato una scuola analogica: lenta, non competitiva, alla riscoperta della manualità e del contatto con la terra.

In una comunicazione mandata ad un convegno al quale non aveva potuto partecipare raccontava così, con la sua straordinaria umanità, la sua malattia:

Amo le fiabe, amo i burattini. Nei 33 anni di esperienza da educatore, maestro e dirigente scolastico la passione per fiabe e burattini è stata una costante. E anche oggi, dall’alto di un boccascena del teatro dei burattini, se chiedessi a bimbi e bimbe qual è la storia che desiderano vedere, il 99% delle risposte (ne sono sicuro) sarebbe «Cappuccetto Rosso!!». Evidentemente c’è qualcosa di universale. C’è un momento della fiaba (nella mia versione burattinesca) che mi affascina particolarmente. È il momento in cui il lupo, dopo aver divorato la nonna e cappuccetto rosso, si concede un meritato riposo. A quel punto il cacciatore, dopo aver aperto la pancia al lupo e fatte uscire le malcapitate, con l’aiuto dei bambini riempie di sassi la pancia del lupo per poi ricucirla. Al risveglio il lupo, con la pancia appesantita dai sassi, viene investito dal vociare dei bambini che gli evidenziano la realtà: la pancia è piena di sassi. Ma lui non crede a queste «frottole» e pensa che sia una semplice indigestione, pesantezza di carne umana, ingerita voracemente senza masticare.
Ebbene quel lupo, il 18 ottobre scorso, improvvisamente, ero io. Pensando ad una possibile indigestione, dopo una notte passata con un doloroso mal di pancia, mi sono recato ad uno dei pronto soccorso di Belo Horizonte. E dopo diverse ore, con la pancia piena d’acqua per favorire l’esame, mi sono sottoposto ad una ecografia. L’esito è stato immediato: qui ci sono un po’ di sassi da togliere, ha sentenziato il medico chirurgo. Così, come il lupo contesta i bimbi e le bimbe rispondendo loro «…non è vero, non è vero, state scherzando, mi prendete in giro!!», così anch’io non volevo crederci. E dentro di me pensavo: «si sono sbagliati, la diagnosi è inesatta!». Ma la realtà a volte è cruda. Dopo poco più di un mese, il 2 dicembre, sono entrato (come il lupo poi entra nel pozzo per bere) in una sala operatoria dell’Ospedale S. Orsola di Bologna. Tre chirurghi e una schiera di collaboratori hanno lavorato per 9 ore e mezza per togliere dalla mia pancia tutti i sassi grossi (un rene, il surrene, una enorme massa tumorale, un trombo formatosi nella vena cava…). Sono restati tanti piccoli sassolini sparsi qua e là. Ma questa è già la storia di Pollicino oppure quella di Hansel e Gretel.

La morte è uno dei temi de La pedagogia della lumaca, l’opera più importante di Zavalloni: ed è una cosa che può sorprendere, in un libro che è una esaltazione della gioia di educare, che viene dalla gioia di vivere, solo se non si considerano le sue origini contadine, anzi il suo esser rimasto fino alla fine un uomo della campagna. Per la civiltà contadina la morte non è una minaccia da allontanare per affermare la vita, ma è un momento della vita stessa, fa parte della natura e dei suoi cicli. Zavalloni ricordava con approvazione la proposta di Hundertwasser, il grande pittore, architetto ed ecologista austriaco, di seppellire i defunti sotto ad un albero, che crescendo si nutra di essi, facendoli vivere in sé. E’ l’unica sepoltura che rispetta fino in fondo la legge della natura, che vuole che tutti gli esseri siano alimenti per altre vite.

Non so se la sua sepoltura sia avvenuta in questo modo; mi sembra improbabile. Ma in molti modi chi non è più può continuare ad essere nutrimento. Nel caso di Zavalloni, restano le sue opere, il suo esempio, le sue molteplici iniziative. L’albero è stato piantato, ed è saldo.

Oltre alle origini contadine, hanno contribuito a formare l’uomo e l’educatore Zavalloni le assidue letture della giovinezza. Accanto a don Milani troviamo gli anarchici Bernardi e Ivan Illich e il discepolo di Gandhi Lanza del Vasto, oltre a Fromm, a Schumacher ed al giornalista e scrittore Massimo Fini. Su tutti però prevale ancora un anarchico: l’urbanista Carlo Doglio, vicino al movimento di Comunità di Olivetti ma anche a Danilo Dolci. Doglio è per Zavalloni un maestro in senso pieno: è stato non solo il suo docente di Pianificazione territoriale a Bologna, ma anche il relatore della sua tesi. Alla fine di una commossa rievocazione, Zavalloni scrive: “E’ vero maestro non quello che ti dice qual è la strada da percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante strade sulle quali puoi liberamente inoltrarti” (Zavalloni 2010a, 106).

La strada sulla quale si è inoltrato l’educatore Zavalloni è, come accennato, una strada che va in direzione opposta a quella percorsa oggi dai più. Un piccolo sentiero di campagna, si direbbe, poco praticato ma pieno di sorprese per chi vi si inoltra. E’ il sentiero di una pedagogia consapevole delle molte violenze che possono essere giustificate in nome dell’educazione. L’elogio della lentezza non è un vezzo, ma nasce dal semplice rispetto dei soggetti, che è in fondamento stesso dell’educazione. In educazione non è possibile correre e rispettare al contempo la personalità degli educandi; correre vuol dire fare pessima educazione, o non fare affatto educazione. Ma noi siamo in una civiltà della corsa. Non dovrà l’educazione adeguarsi? Se si concepisce l’educazione come semplice socializzazione, portare l’educando allo stato attuale della società, senz’altro. Ma gli scopi dell’educazione sono, per Zavalloni, più complessi. L’educazione è, anche, riflessione critica sulla società e ricerca di una società migliore, come spiegava don Milani ai giudici. Non è possibile, oggi più che mai, fare educazione senza fermarsi a riflettere sulla società attuale, senza chiedersi dove ci sta portando la strada che abbiamo imboccato con la rivoluzione industriale. Zavalloni è tra quelli che ritengono che sia necessaria una svolta, che la civiltà industriale e capitalistica, con la sua ansia produttivistica, ci abbia condotti in un vicolo cieco, dal quale sarà possibile uscire soltanto ripensando criticamente i fondamenti culturali e psicologici del mondo attuale.

La scuola può muoversi tra due poli: quello del soggetto e quello del sistema. Può, cioè, occuparsi dello sviluppo delle persone che le sono affidate, lavorare perché crescano in più dimensioni in un ambiente sereno, oppure preoccuparsi di adattarli a vivere in società, facendo accettare loro i valori dominanti, affinché la società stessa mantenersi salda e perpetuarsi. In teoria, la scuola italiana (ed occidentale) non sceglie uno dei due poli, ma rispetta entrambe le istanze: è una scuola al tempo stesso per la persona e per il sistema, che educa alla formazione piena della personalità ma non trascura la socializzazione e l’inserimento nel mondo del lavoro. In realtà, in una società capitalistica è semplicemente impossibile tenere insieme le due cose. Occuparsi in modo reale, e non solo retorico, dello sviluppo personale, vuol dire giungere a mettere in discussione l’assetto sociale e soprattutto economico. Non è difficile accorgersi che la scuola italiana ha scelto di fatto il polo della società. E’ una scuola che educa al capitalismo, vale a dire all’individualismo, alla competizione, alla quantificazione, alla considerazione della stessa cultura ed educazione come una merce da spendere sul mercato. Non si spiegherebbero altrimenti cose che sembrano far parte in modo naturale della scuola, e che invece sono il risultato di una scelta. Tale è, ad esempio, il voto, che fin dalla scuola primaria separa i bambini gli uni dagli altri, li divide in bravi e meno bravi e li contrappone, in una sorta di insensata gara educativa. Tale è lo stesso setting dell’aula, con i banchi separati in file parallele, in modo che gli studenti possano comunicare tra di loro il meno possibile.

Da dirigente scolastico, Zavalloni è stato un uomo inserito in questo sistema. Ma ha anche mostrato come è possibile aprirlo dall’interno, inserire in esso logiche nuove, approfittando di ogni spiraglio. Così per i voti. Dal momento in cui vengono introdotto i voti, osserva, accadono due cose: i bambini fanno le cose non più per piacere, ma per il voto, e nasce la competizione. Ma non è proprio possibile abolirli? La sua risposta è sì. Non si parla, in fondo, di scuola dell’autononomia? E a cosa serve, l’autonomia, se non a fare scelte autonome, anche coraggiose? E’ ben possibile, nella scuola dell’obbligo, “provare strategie di cooperazione didattica e di tutoraggio che possono far scomparire, ad esempio, il fenomeno della concorrenza e della competizione” (Zavalloni 2010a, 67). Un cambiamento che richiederebbe anche la scomparsa di termini ed espressioni che sono entrati nel linguaggio scolastico provenendo dal mondo dell’economia, come quello di “profitto scolastico”. Cosa vuol dire studiare “con profitto”? Perché non si parla, piuttosto, di “piacere scolastico”? Non avrebbe più senso? Fin dalla scuola primaria i bambini sono, nella percezione dei loro insegnanti, dei piccoli risparmiatori che da subito devono cominciare ad accumulare, per godere poi da adulti di un discreto capitale. Se si considera poi la prassi di assegnare compiti a casa, viene da pensare che questo percorso di accumulo capitalistico dello pseudo-sapere scolastico e del riconoscimento sociale debba essere anche, per scelta deliberata, un percorso ad ostacoli: come se si cercasse di rendere la vita dello studente il più possibile spiacevole e dura, al fine di eliminare del tutto il piacere ed il desiderio. Per Zavalloni i compiti andrebbero aboliti durante le vacanza (e ai suoi maestri manda una lettera che suona come avvertimento: se si ostineranno a dar compiti agli studenti, sappiano che ci sono “alcuni lavori che possiamo fare benissimo insieme nel periodo delle vacanze pasquali”: Zavalloni 2010a, 85), ma soprattutto vanno ripensati. Gli esercizi ripetitivi possono essere fatti in classe (lì dove, occorre notare, lo studente potrà essere seguito – come è giusto che sia – dall’insegnante, senza che nello svolgimento dei compiti pesi dunque il fatto di avere genitori con la laurea o con la licenza elementare); per casa, si possono assegnare attività interessanti, piacevoli e soprattutto creative, che lo studente faccia senza avvertire alcun peso. Quanto al setting dell’aula, come dirigente scolastico Zavalloni aveva richiesto banchi e sedie rispettosi al tempo stesso degli studenti e della natura. E dunque: sedie e banchi ergonomici in legno massello, con i banchi progettati in modo da poter essere uniti per formare un tavolo unico. Poiché banchi e sedie simili non erano in commercio, sono stati appositamente progettati e prodotti da una azienda locale: un esempio di come sia possibile ripensare la scuola dal basso anche strutturalmente, invece di rassegnarsi all’insensato setting tradizionale.

La scuola capitalistica è la scuola della classe borghese. E’, notava Zavalloni, la scuola nella quale i figli dei contadini si vergognano di essere tali, e cercano di nascondere la loro origine. Lo stesso si potrebbe dire dei figli degli operai. Lo studente modello, quello che otterrà più facilmente il “profitto scolastico”, è il figlio del libero professionista, dell’avvocato o dell’ingegnere: ancora il Pierino di cui parlava don Milani. A scuola si studia: non si lavora. Bisogna usare la testa per diventare intellettuali, non le mani. L’agricoltura e l’artigianato non hanno, per chi ha pensato la nostra scuola pubblica, alcun valore formativo. Alla scuola primaria si potranno usare le mani per fare “lavoretti”, ma lavori veri e propri no. Lavorare il legno, lavorare la creta, lavorare la terra: tutto ciò è troppo concreto, troppo materiale per la scuola italiana.

Il contadino-educatore Zavalloni è stato tra gli ispiratori del progetto degli orti di pace, espressione che ribalta quella di orti di guerra, gli orti improvvisati che si diffusero nelle città durante la guerra per rispondere ai bisogni alimentari della popolazione. La diffusione della scuola di massa, in Italia, ha coinciso con la fine della civiltà contadina e l’avvio di un processo di omologazione culturale che ha progressivamente smussato le differenze culturali tra classi sociali, imponendo il modello borghese. Oggi non esiste più, in Italia, qualcosa come una “cultura contadina”. Chi ancora vive del lavoro con la terra quasi se ne vergogna. Zavalloni ricorda che quando, entrando in una classe, chiedeva quanti studenti erano figli di contadini, si alzavano pochissime mani; quando poi raccontava di essere lui stesso figlio di contadini, e spiegava l’importanza del mondo agricolo, le mani alzate aumentavano (Zavalloni 2010b, 11). Il progetto, che intende portare nelle scuole gli orti ed il lavoro della terra, dimostra come l’innovazione nella scuola non debba passare necessariamente attraverso la tecnologia. Lavorare la terra, per dei bambini di città, vuol dire recuperare abilità manuali, sviluppare l’osservazione, fare esperienze utili anche per la crescita delle conoscenze e della riflessione. Ma soprattutto, notava Zavalloni, significa “attenzione ai tempi dell’attesa, pazienza, maturazione di capacità previsionali” (Zavalloni 2010b, 24). Vuol dire imparare a fermarsi e ad aspettare: in una parola, a rispettare. E forse nulla è più urgente da imparare, per i bambini e per gli adulti che insegnano ai bambini.

Mi hanno sempre colpito molto i disegni di Zavalloni. Sono, a ben vedere, i disegni che potrebbe fare un bambino con la consapevolezza tecnica di un adulto. Nei disegni c’è tutta la spiritualità di Zavalloni, il suo amore per le cose essenziali, la sua fantasia, la poesia, l’amore per l’infanzia – anzi, la capacità di vivere, di stare nell’infanzia anche nell’età adulta. Ogni educazione autentica è al tempo stesso un educarsi; ogni rapporto educativo è bidirezionale e reciproco. Chi educa viene educato nell’atto stesso di educare. Questa verità semplice – che molti negano quasi con sdegno, perché mette in discussione i rapporti di dominio in campo educativo – è stata vissuta quotidianamente da Zavalloni ed era, probabilmente, il suo segreto. Educava i bambini, ma al tempo stesso era a scuola da loro: e questo gli ha permesso di non smarrire mai il rapporto con la poesia, la bellezza e la verità.

Bibliografia

Zavalloni G. (2010a), La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Bologna. Seconda edizione.
Zavalloni G. (2010b), A scuola dai contadini, in Aa. Vv., Orti di pace. Il lavoro della terra come via educativa, a cura di G. Zavalloni, EMI, Bologna 2010.

Il paradigma dell’imbuto e il paradigma della situazione

Un paradigma ben consolidato in campo educativo è quello dell’imbuto. Che se ne sia consapevoli o meno, si pensa che il compito di chi educa sia quello di selezionare, tra i comportamenti dell’educando, gli unici che sono degni di restare, e di far in modo che gli altri scompaiano. All’inizio c’è un soggetto con una molteplicità di modi di essere, alla fine c’è un soggetto che è adatto ad entrare in società, che si è lasciato alle spalle ogni sgradevolezza. Tra l’inizio e la fine – tra la bocca larga dell’imbuto e la sua uscita stretta – c’è l’azione di modellamento dell’educazione, la cui essenza è quella di vietare alcune cose e di permetterne altre.

A causa della diffusione del paradigma dell’inbuto la situazione educativa è spesso, per chi la vive, una situazione di malessere. Nei posti in cui si fa intenzionalmente educazione – nelle scuole e nelle famiglie, prima di tutto – si sta più male che bene.

Alcuni degli scrittori maggiori del Novecento hanno demitizzato la famiglia, mettendo a nudo quel groviglio di ostilità, incomprensioni, ossessioni, piccineria borghese, violenza che è la quotidianità di molte famiglie; alcuni dei maggiori pedagogisti del secolo hanno invece demitizzato la scuola, evidenziando le dinamiche di dominio, la passivizzazione, le logiche di classe, la mancanza di vera conoscenza e di creatività. Il malessere degli studenti si esprime in forme diverse, ma ugualmente eclatanti: dai dolori psicosomatici dei bambini più piccoli fino agli atti vandalici degli adolescenti.
E’ diffusa la convinzione che questo star male, che paradossalmente caratterizza i luoghi dell’educazione, sia tuttavia necessario in vista del bene futuro. La convinzione da cui muove questo studio si situa esattamente all’opposto. La situazione educativa è tale, come vedremo, solo se consente al soggetto di sperimentare una forma di benessere e di pienezza; ogni situazione di disagio e malessere è diseducativa.
Il paradigma dell’imbuto porta in primo piano domande come: quando è lecito dire di no ai propri figli? Cosa bisogna consentire e cosa vietare? E’ il problema di come far sì che l’educando, una volta entrato nell’imbuto, si riduca progressivamente fino ad uscire dall’altra parte ed a riversarsi nel recipiente della società. Molti genitori sinceramente preoccupati dell’educazione dei loro figli pensano che sia importante saper dire di no, evitare di assecondarli costantemente e di non frustrarli, saper porre loro limiti e divieti. Quello educativo è il rapporto tra un soggetto che va limitato ed un altro che deve limitarlo; e questa limitazione, questa progressiva selezione dei comportamenti è l’educazione.
Non è difficile accorgersi che il paradigma dell’imbuto è fondato sul disconoscimento di quello che il bambino è. L’educazione è erudizione nel suo senso peggiore. Il bambino è rude, rozzo, incivile, e l’educazione è dirozzamento, raffinamento, eliminazione delle scorie e del superfluo. Il processo è unidirezionale: l’educatore non ha nulla da imparare dal bambino, è al di qua del suo mondo, è un rappresentante della società e delle sue richieste. La socializzazione è il fine dell’educazione secondo il paradigma dell’imbuto; la scolarizzazione uno dei suoi mezzi più efficaci. Scolarizzare vuol dire adattare un soggetto alle richieste di una istituzione totale. Abituato al movimento libero ed alla libera parola, a scuola il bambino impara a stare seduto per cinque ore ed a parlare solo quando vuole l’insegnante; il suo dare del tu a tutti lascia il posto ad un rispettoso lei, offerto a chi rappresenta l’autorità pedagogica; la possibilità di seguire i propri interessi cede il passo allo studio imposto di cose che gli risultano per lo più indifferenti. Il paradigma dell’imbuto giustifica qualsiasi situazione in vista del risultato finale. Esso impedisce di porsi altre domande, che dovrebbero invece essere al centro della riflessione dell’educazione. Il genitore che si chiede: quando e come devo dire di no a mio figlio?, potrebbe e dovrebbe invece chiedersi: quali cose belle posso fare insieme a mio figlio? E’ tutto qui il passaggio dal paradigma dell’imbuto al paradigma della situazione. L’insegnante che programma la propria azione educativa, che mette per iscritto che tipo di persona vuole che i suoi studenti diventino, potrebbe e dovrebbe riflettere invece su quale tipo di situazione vuole che vi sia nella classe. Quanta serenità c’è a scuola? Quanta gioia? Quanta curiosità? Quanta creatività? Quanta ricerca? La scuola è un luogo in cui si sta con piacere, in cui gli studenti vorrebbero andare anche se non fossero costretti? Fare in modo che lo sia dovrebbe essere l’unica preoccupazione degli insegnanti, e l’analisi della situazione e la riflessione su come cambiarla dovrebbe prendere il posto dell’astratta programmazione.
Secondo il paradigma dell’imbuto l’educazione è una questione di contrazione, di selezione, di limitazione. Secondo il paradigma della situazione, al contrario, l’educazione ha a che fare con l’espansione, con l’ampiamento dell’esperienza: è vita nel senso più pieno. L’educazione, scriveva Dewey ne Il mio credo pedagogico, «è vita, e non preparazione alla vita». La vita è ciò che accade qui ed ora; la vita è situazione. In quali situazioni la vita si esprime nella sua pienezza? E’ questo il problema educativo fondamentale. Le situazioni nelle quali la vita è piena sono le situazioni nelle quali l’educazione accade; ed educare non è altro che creare le condizioni perché si realizzino queste situazioni.

[Da uno studio in preparazione.]

Essere dentro (o dietro) di sé

Ognuno avverte di subire violenza ogni volta che viene costretto a fare qualcosa contro la sua volontà, viene privato della propria libertà ed oppresso da circostanze esteriori. Se si è sfortunati, queste situazioni si verificano quotidianamente per molte ore. Per alcuni il lavoro non è altro che questo: fare per diverse ore al giorno cose che non vorremmo fare; il lavoro è, cioè, non un fattore di crescita e di realizzazione personale, ma una vera e propria maledizione.

Il tempo lasciato libero dal lavoro è per molti il tempo della distrazione, del divertissement in senso pascaliano. Si guarda la televisione, si va al bar, si parla con gli amici: ci si rilassa. E si sta bene, indubbiamente. Dobbiamo dunque considerare il divertimento una situazione educativa?

In ogni situazione educativa le persone sperimentano una situazione di pienezza, di vita intensa. Non ogni star bene, tuttavia, è una situazione educativa. E’ opportuno distinguere lo star bene dall’essere bene. Delle persone che passino la serata a bere e divertirsi in un locale indubbiamente stanno bene, si divertono e passano il loro tempo nel modo che desiderano. Non si può dire tuttavia che bere e divertirsi in un locale sia una situazione educativa e di pace, perché queste attività restano alla superficie, non toccano realmente l’interiorità e la relazionalità. Un gruppo di amici che comunichino in modo attento su temi importanti è cosa diversa. In questo caso si va a fondo: ognuno può constatare che il benessere che si prova è diverso; non riguarda la situazione passeggera, contingente, ma ha conseguenze durevoli su sé stessi: riguarda, cioè, l’essere, e non lo stare.

Quella in cui siamo è una civiltà dello star bene. Si cerca di evitare il disagio, la sofferenza, il brutto, il negativo. Tutto ciò non scaturisce tuttavia da una forte opzione in favore della vita; al contrario: lo stesso rifiuto del negativo finisce per avere un risvolto necrofilo. Il negativo, che non va idealizzato come un una certa retorica cattolica, riesce tuttavia a metterci profondamente in contatto con noi stessi, ci costringe a porci le domande fondamentali, a considerare la nostra finitezza, a ragionare su ciò che ci oltrepassa (e non necessariamente in senso religioso). Il negativo non può essere semplicemente rimosso. Quando ciò accade, non si ha l’affermazione della vita, ma il suo evitamento. Vivere in modo intenso vuol dire avere a che fare col negativo, con la morte. La poesia e la letteratura hanno tematizzato più volte il nesso inscindibile tra sesso e morte, tra l’affermazione vitale e la negazione dell’essere. Rimosso il negativo, resta una vita che si svolge alla superficie del sé, correlato soggettivo del sistema dei consumi. Il soggetto è un estraneo a sé stesso: lavora, si diverte, ama costantemente fuori di sé, in modo automatico, con una identità tenuta insieme artificialmente, priva di verifica. Indossa l’io come un abito, senza nemmeno più accorgersi che sotto c’è dell’altro.

L’urto del negativo ci costringe a fare i conti con la nostra identità fittizia. Chi sono io? Chi sono davvero? Esiste davvero qualcosa come un io? C’è una unità oltre il fluire dei pensieri, delle impressioni, dei sentimenti? E che legame c’è tra ciò che considero interno e ciò che mi pare esterno? Che rapporto c’è tra le cose e la mia coscienza? Quali sono i confini della mia coscienza? C’è un retroscena dell’io?

Porsi queste domande vuol dire entrare nel campo della spiritualità. Se l’etica riguarda il rapporto con l’altro e la religione il rapporto con Dio, la spiritualità è la dimensione del rapporto con noi stessi. E’ una cosa scomoda, la spiritualità; che infastidisce. L’inizio della spiritualità è un sentimento molto forte di angoscia, l’impressione disperante di aver smarrito ogni certezza, il senso di essere niente – e che niente sia tutta la vita. Un documento interessante della crisi che segna l’ingresso nel campo della spiritualità è la Confessione di Tolstoj. Lo scrittore vi racconta il periodo di smarrimento che lo conduce alla soglia del suicidio. C’era una inquietudine di fondo, che tenta di coprire dedicandosi alla scrittura, all’educazione dei figli dei contadini, all’attività di giudice popolare, ma presto queste attività non riescono più a distrarlo, e torna ad emergere prepotente la domanda sul senso della vita: «Cosa risulterà da ciò che faccio oggi, da ciò che farò domani e da tutta la mia vita?» (1). E’ la stessa domanda del libro di Qohelet (1, 3): «Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?». Il problema è quello della morte, della finitezza. Qualunque cosa si faccia, la morte si presenta come l’orizzonte ultimo, nullificante. Se la morte c’è, non c’è azione che abbia valore e senso, ogni cosa appare vana, e la vita scivola via inconsistente. Il suicidio appare l’unica tragica via d’uscita, il modo paradossale per dare consistenza ad una vita vuota. L’alternativa è, per Tolstoj, una fede sui generis, che più che la devozione ad un essere divino implica una visione radicalmente differente della vita.

Nel 1882, in un post-scriptum alla Confessione, racconta una sogno che a suo dire sintetizza tutta la vicenda della sua crisi e della sua conversione. Lo scrittore è coricato su un giaciglio fatto di cinghie, sospeso nel vuoto. Alcune cinghie si staccano ed si trova a penzolare pericolosamente, con il rischio di scivolare ed annientarsi nell’abisso. Ad un certo punto però smette di guardare in basso e guarda il cielo, l’abisso speculare che è sopra di lui. Tutte le cincghie cedono, tranne una, eppure lo scrittore si sente saldo nella sua posizione, non ha più paura di cadere. La situazione è diventata anc he più precaria, ma è cambiato il punto di vista: non più verso il basso, ma verso l’alto.

Il negativo ed il positivo in questa immagine onirica si implicano a vicenda. E’ solo in quanto sospeso sull’abisso, che Tolstoj può avvertirsi appeso al cielo. La precarietà e la disperazione sono la condizione della solidità e della gioia. Chi non rischia di cadere non può sollevarsi. Cosa vuol dire sollevarsi? Non c’è una risposta univoca a questa domanda. Per alcuni, può essere l’incontro con il Dio di una tradizione religiosa; per altri, come lo stesso Tolstoj, la conquista di una visione assiologica della vita; per altri ancora, un sentiero che porta verso il non dicibile, lì dove le parole non servono; ed altro ancora. Si tratta di percorsi personali, che vanno oltre le distinzioni correnti tra fede ed ateismo (esiste anche una spiritualità ateistica).
La spiritualità sembra dunque una faccenda personale, un sentiero che ognuno di noi deve percorrere in solitudine. E’ così solo in parte. E’ vero che alcune delle esperienze che predispongono alla spiritualità (la malattia, la perdita di una persona cara, la solitudine eccetera) semplicemente accadono, ed è anche vero che, una volta accadute, attivano processi di riflessione e di ricerca del tutto sono personali. Questi processi autoeducativi possono tuttavia procedere con difficoltà ed arrestarsi se non c’è nel soggetto una abitudine alla riflessione ed alla ricerca, che è compito dell’educazione favorire. Così come spetta all’educazioen contrastare la tendenza, propria della civiltà dei consumi, alla superficialità ed alla distrazione.

In una situazione educativa le persone stanno insieme in un modo che le riporta intensamente a sé stesse. E’ quanto accade ogni volta che si discute in gruppo, con la serietà e la calma necessaria, di temi esistenziali. Lo studio della filosofia e quello della religione – quest’ultimo con una prospettiva ampia e comparativa, ed al di fuori di ogni confessionalismo – possono favorire questa trattazione comune di temi esistenziali, a condizione che siano affrontati al di là di ogni nozionismo, affrontando possibilmente i testi stessi e discutendoli insieme. Poiché siamo in una società che rigetta il negativo, l’avvio di una attività di questo genere, soprattutto con i più giovani, sarà tutt’altro che facile; prevarranno il fastidio, l’impressione di fare qualcosa di insolito, forse anche la paura. Superata questa difficoltà iniziale, ci si abituerà progressivamente all’intensità di questi confronti, che rispondono ad un bisogno reale di consistere, di andare a fondo nella propria vita.
Un’altra possibilità è quella del silenzio. Stare insieme in silenzio, creare uno spazio comune aperto al silenzio, custodirlo, e in questo spazio muoversi in modo nuovo: anche questa è una esperienza densa di significato, che manca del tutto nelle nostre scuole, nelle quali, quando si fa silenzio, è solo per lasciare spazio alla parola del docente. Il silenzio è, se non altro, una igiene necessaria in un tempo in cui la parola, il suono, il rumore invadono, seducono, fanno violenza.

V’è poi la meditazione. Del tutto sconosciute ai sistemi educativi occidentali, alcune tecniche di meditazione – come la meditazione buddhista vipassana – possono essere adoperate in una prospettiva laica, perché non comportano l’adesione ad alcuna visione religiosa, e consistono in una serie di pratiche che favoriscono il contatto con sé stessi. Il meditante si concentra sul respiro, poi sulle posizioni del suo corpo, sulle sensazioni, sugli stati mentali. Il fine è quello della presenza mentale, che vuol dire compiere ogni azione, comprese quelle più insignificanti, essendo pienamente presenti, concentrati, attenti; una vera e propria arte del vivere intensamente, scoprendo un significato nuovo nella propria quotidianità. Una volta conquistata questa prospettiva, ogni azione diventa spirituale, poiché compiuta con la piena presenza di sé stessi ed a sé stessi. E’ bene ribadire che la via della spiritualità attraversa il negativo per giungere al positivo. C’è una possibilità di vita più piena e vera, che va scoperta.
E’ per questo che stare in una situazione spirituale, se può suscitare imbarazzo iniziale, è una esperienza di essere bene.

Note

(1) L. Tolstoj, La confessione, tr. it., Studio Editoriale, Milano 2000, p.34.

[Da uno studio in preparazione]

Per una scuola maieutica

ALL’INIZIO degli anni Settanta Danilo Dolci maturò il progetto di creare un centro educativo che impiegasse la metodologia della maieutica reciproca, già sperimentata con successo come strumento per lo sviluppo comunitario. Il progetto non era particolarmente audace per chi, con la sola forza della maieutica e della protesta nonviolenta, era riuscito tra l’altro a creare una diga, quella sullo Jato, sottraendo alla mafia il controllo dell’acqua. Doveva essere, il centro educativo, una struttura progettata maieuticamente, vale a dire ascoltando le aspirazioni di bambini e ragazzi, padri e madri, educatori della zona. Nasce così il centro educativo di Mirto, in una bellissima posizione collinare che consente di vedere il mare, come richiesto soprattutto dai bambini. Ma le difficoltà non sono poche.

Per la mancanza di fondi si riesce a costruire solo una parte dell’edificio progettato, e ciò consente una sperimentazione limitata ai bambini più piccoli, mentre le cattive condizioni della strada di accesso al Centro costringono perfino alla chiusura per assicurare l’incolumità dei bambini. La sperimentazione procede comunque per qualche anno, con esiti interessantissimi, grazie anche alla collaborazione di pedagogisti come Paulo Freire e Bogdan Suchodolski, finché si decide di chiedere che il centro venga riconosciuto come scuola statale sperimentale. Il riconoscimento arriva nell”83, ma per Mirto è l’inizio di una rapida normalizzazione, che renderà sempre più labile l’impronta del suo fondatore e la presenza del metodo maieutico.

Negli anni successivi Dolci si è impegnato in una attività capillare per la diffusione del metodo maieutico presso le scuole: ha incontrato centinaia di docenti, mostrando loro la possibilità di fare scuola in modo diverso, di aprire uno spazio comunicativo autentico pur nel contesto scolastico. La sua visione della scuola statale è così duramente critica, da far pensare all’analisi di descolarizzatori come Illich e Reimer. La scuola non comunica realmente, ma si limita a trasmettere nozioni; è fatta di rapporti unidirezionali, e perciò inautentici; non educa ad esercitare creativamente il potere, ma abitua al conformismo ed all’ipocrisia. Questa visione così critica è però accompagnata dalla fiducia nella possibilità di cambiare il sistema scolastico introducendo in esso il germe della maieutica reciproca.

A distanza di quasi quindici anni dalla sua scomparsa (Dolci è morto nel ’97), sembra che ben poco sia rimasto di questa speranza di trasfigurazione, di cambiamento dall’interno della scuola. Stiamo vivendo una stagione di ulteriore chiusura dell’istituzione scolastica. Mentre vengono tagliati i fondi e si moltiplicano le classi «pollaio», nelle quali un vero lavoro educativo è sostanzialmente impossibile (a danno degli studenti più fragili, che hanno bisogno di maggiore attenzione), molti docenti si abbarbicano alla routine della loro professione, alla cara vecchia scuola fatta di lezioni frontali, interrogazioni, voti e note disciplinari. È per questo che si accoglie con particolare piacere l’uscita di un libro come Seminare domande. La sperimentazione della maieutica di Danilo Dolci di Francesco Cappello (EMI, Bologna 2011; con prefazione di Johan Galtung). Cappello, che è stato amico e collaboratore di Dolci ed è un insegnante di scuola secondaria, è la persona più indicata per mostrare in modo non accademico le possibilità reali della maieutica reciproca nella scuola di oggi.

La maieutica reciproca, è bene ricordarlo, è un metodo per la ricerca comune della verità. Si tratta, di fatto, di una cosa semplicissima: si mettono le sedie in cerchio e si discute insieme – di questioni filosofiche ed esistenziali o dei problemi concretissimi della comunità di cui si fa parte. È maieutica reciproca, poiché in questa circolarità comunicativa la verità vien fuori dal contributo di tutti: ognuno aiuta gli altri, ognuno è maieuta. In un seminario maieutico si impara a cercare insieme, a comunicare in modo aperto, ad essere creativi, a scoprire dimensioni di sé normalmente soffocate, e anche ad avere potere, poiché attraverso la parola si prende coscienza della propria dignità e della possibilità di difenderla attraverso la lotta comune.

Gli usi possibili della maieutica nel contesto scolastico sono disparati. È possibile usarla per tentare qualcosa di radicalmente diverso dal lavoro didattico, per aprire parentesi nella normale vita scolastica, oppure per fare quella che potremmo chiamare meta-scuola, ossia per discutere della scuola stessa, delle modalità relazionali, di quello che c’è e di quello che si vorrebbe, dei voti eccetera. Si può usare la maieutica per discutere in classe gli episodi che normalmente vengono sanzionati con note disciplinari, i casi di violenza e di discriminazione o il cosiddetto bullismo. Possono usare la maietica i docenti, per crescere professionalmente confrontando le proprie esperienze e mettendo in comune le proprie ansie. È possibile, ancora, tenere seminari maieutici di docenti e genitori, per migliorare la comunicazione e trovare intese educative. Ma si può usare la maieutica anche in sostituzione della lezione, per affrontare in modo non trasmissivo gli stessi argomenti del programma. Il lavoro di Cappello mostra le possibilità della maieutica in varie direzioni. Da gran tempo i pedagogisti hanno evidenziato che un apprendimento per scoperta ha un valore di gran lunga maggiore dello studio libresco. Le cose che sono state scoperte restano nel tempo, come conquiste individuali, diventano saperi consilidati, mentre l’apprendimento libresco, poco significativo e spesso finalizzato al voto, è fragile e non resta nel tempo (a meno che non vi sia un interesse molto forte dello studente per quei temi). Il primo dei seminari riportati da Cappello nel suo libro riguarda una questione connessa alla didattica della matematica: «cercare i pro e i contro relativamente alla scelta di installare un impianto a gas su un’autovettura alimentata a benzina». Come si vede, si tratta di una questione pratica e concreta. «Questo genere di problemi – nota Cappello – entusiasma gli studenti. Valorizza la matematica come strumento per pensare e come ausilio importante nella valutazione delle scelte possibili. Contribuisce a motivarne l’apprendimento» (p. 57). La discussione porta ad utilizzare in modo assolutamente naturale, e con la partecipazione di tutti, strumenti matematici anche piuttosto raffinati. Vien da pensare, leggendo la trascrizione della discussione, alle appassionate discussioni che si tennero a Mirto proprio sulla didattica della matematica, che avevano per protagonisti personalità come Lucio Lombardo Radice, grande matematico ed amico e collaboratore di Dolci, e James Bruni, un docente di matematica all’università di New York che, lasciata la cattedra universitaria, si era messo ad insegnare matematica a dei bambini di otto anni, e ci era riuscito portandoli in strada e mettendosi a registrare i dati delle automobili che passavano. Interessante è anche un seminario maieutico sui rifiuti solidi urbani, che è scaturito dallo studio della legge di conservazione della massa e dell’energia e che a sua volta è stato seguito dalla visita all’inceneritore più vicino. Un momento di meta-scuola è un seminario tenuto durante una assemblea scolastica per discutere dell’assemblea stessa. Come è noto, le assemblee studentesche, introdotte con i Decreti Delegati del ’74 quale importante strumento di democratizzazione dell’istituzione scolastica, sino in crisi da diversi anni: gli studenti sembrano non essere in grado di gestire uno spazio libero di discussione, che spesso degenera nella confusione più totale, quando non viene semplicemente disertato. Chi lavora nella scuola sa che questa situazione ha cause diverse, alcune anche molto lontane, e che non è estranea ad essa l’importanza che ha la televisione per i ragazzi. Quando si tenta di tenere dei dibattiti in classe, succede spesso che la discussione si faccia presto esageratamente animata, con fazioni contrapposte. Non occorre molto per comprendere che si tratta della riproposizione degli scontri che caratterizzano alcune trasmissioni televisive particolarmente apprezzate dai più giovani. Di qui l’importanza di discutere dell’assemblea stessa, di metacomunicare per smontare i modelli televisivi e ritrovare una comunicazione autentica.

Sono evidenti le potenzialità del metodo della maieutica reciproca. La diagnosi di Danilo Dolci è esatta: la società è malata di rapporti sbagliati. La scuola, il luogo in cui si prepara la società di domani, vive anch’essa di rapporti sbagliati: unidirezionali, trasmissivi, poco creativi. Sono evidenti a scuola tanto il malessere degli studenti, che si esprime in modo silenzioso nell’abbandono scolastico ed in modo eclatante nella violenza, nel conflitto, negli atti di devastazione delle strutture scolastiche, quanto quello dei docenti, che si manifesta con la frustrazione, l’apatia, l’insofferenza, fino al burnout vero e proprio. La scuola è un luogo in cui si sta male, ed in cui è possibile stare bene, con alcune semplici mosse. La prima è: comunicare. Comunicare realmente, in modo aperto, sincero. Dolci ha capito una cosa fondamentale, che era chiara anche a Carl Rogers: che è fondamentale, per la nostra salute, comunicare in modo autentico con gli altri, accettandoli e sentendoci accettati da loro. Questa accettazione è non facile a scuola, l’istituzione che giudica e classifica, che promuove e boccia, così come non è facile comunicare in modo orizzontale e franco in una istituzione in cui la libertà dei rapporti umani è subordinata alle necessità della discplinina e dell’ordine. Dolci distinguere l’istituzione dalla struttura, considerando la prima come la sclerotizzazione della seconda. Una struttura è fatta di rapporti vivi, creativi, dinamici, mentre nell’istituzione prevalgono le norme fisse ed i ruoli stabiliti. La maieutica reciproca tenta l’opera di trasformare la scuola-istituzione in scuola-struttura, di immettere in essa creatività, franchezza, apertura comunicativa, di conquistare la gioia che viene dal comunicare autentico e dalla scoperta comune del sapere.

L’impresa non è facile, ma nemmeno impossibile, ed il libro di Francesco Cappello lo dimostra. Le opinioni degli studenti dopo i seminari maieutici confermano la positività dell’esperimento. Tutti concordano nel rilevare che il metodo maieutico rende possibile una partecipazione più attiva, superando la noia della lezione frontale e trasmissiva; alcuni notano che così sono maggiromente stimolati a pensare con la propria testa, ad essere creativi e propositivi; qualcuno apprezza il metodo perché gli consente di esprimere le proprie opinioni senza essere giudicato, ed è libero anche di sbagliare. Ma l’esito maggiormente degno di nota riguarda probabilmente i cambiamenti nella relazione. Nel cerchio maieutico è trascesa la struttura competitiva della scuola. C’è all’inizio l’ansia di prendere la parola davanti agli altri, ma presto viene superata dalla serenità del setting comunicativo, che consente a tutti di sentirsi accettati. Questa conquista della parola in un contesto nel quale a parlare è sempre il docente – e lo studente parla solo se interrogato – è il contributo più rilevante della maieutica alla trasformazione della scuola.

La scuola italiana (e non solo) sta attraversando una profonda crisi. Secondo una analisi tanto diffusa quanto superficiale, essa è in crisi perché i giovani non hanno più voglia di studiare. Bisognerebbe invece interrogarsi sulla profonda inadeguatezza di un sistema scolastico che ancora si affida senza riserve alle modalità trasmissive, ad una concezione depositaria del sapere, ad una strutturazione gerarchica ed autoritaria dei rapporti umani. Non è difficile scorgere dietro l’apatia e la disaffezione di molti studenti una protesta muta contro un sistema inautentico, che nulla offre di vivo né sul piano umano né sul piano conoscitivo. È facile verificare l’improvviso attivarsi di quegli stessi studenti, quando si passa dalla lezione frontale a forme più aperte di lavoro didattico; e spesso gli ultimi, quelli che sembrano irrecuperabili, persi alla scuola, diventano i più attivi e partecipi.

L’interesse non manca, a scuola, quando si fanno cose che hanno una significatività intrinseca; quando si fa esperienza in modo autentico, e non libresco; quando ci comunica davvero, e non dietro la maschera del ruolo e dello status. La maieutica reciproca di Dolci può essere una delle vie per ridare senso al lavoro scolastico, per riscoprire la gioia di fare scuola strutturandosi come una comunità impegnata nella ricerca della verità. C’è da sperare che il libro di Cappello venga letto da molti docenti, e che sia l’occasione decisiva per riprendere a distanza di anni il filo dell’eredità di Danilo Dolci, che si era assottigliato fin quasi a spezzarsi.