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24 gennaio, giovedì
Ha mangiato ma non le basta, gira inquieta alla ricerca di cibo, mi fissa con un’aria mesta quando mangio, in attesa di un boccone pietoso. Pare che sia l’esser stati randagi, l’aver girovagato per anni, e ora trovi da mangiare ora no, e quando trovi non fermarti ma mangia anche per quando non ce n’è, e cerca sempre, cerca perché può essere che per molto tempo non si trovi nulla – pare che l’esser stati randagi non sia revocabile. Si resta randagi per sempre, con una fame che non si estingue, che brucia e brucia e brucia.
E’ così che vivono molti. Randagi, un tempo; ora hanno una casa e un affetto, ma restano affamati, alla ricerca di un boccone, di qualcosa che quieti la voragine di dentro, ed ogni boccone è insufficiente, ogni sorriso diventa presto pianto, ogni gioia si converte in dolore, e scorre nelle vene come acido.
6 gennaio: epifania
Stavo salendo su una strada di montagna. Non le Alpi, nemmeno l’Appennino. Una di quelle strade del nostro Gargano, che salgono attorcigliandosi intorno al monte. Man mano che procedevo il panorama si allargava: e respiravo. Ad un certo punto – per una di quelle incoerenze senza le quali i sogni non sarebbero sogni – mi sono trovato ad attraversare un lembo di mare, l’impidissimo tra le rocce. Ho tolto le scarpe per procedere nell’acqua. Ma le scarpe mi si sono immediatamente riempite di granchi. Ne toglievo uno, e subito ne spuntava un altro. Ho capito presto che avrei combattuto all’infinito la mia battaglia contro i granchi: e che non sarei andato oltre.
Mi sono svegliato. La stanza era buia. Sentivo respirare. Ho pensato che fosse mia sorella. Quando ero ragazzino io e i miei fratelli dormivamo in cucina: io e mio fratello in un letto a castello, mia sorella in un letto singolo, oltre il tavolo della cucina. Sono qui, mi sono detto; qui a casa dei miei, con i miei fratelli. L’incoscienza del risveglio, in quell’attimo in cui ancora non è stato caricato il programma dell’io. Un attimo, appunto. Poi sono diventato quel che sono: un uomo che ha appena compiuto quarantun’anni.
Questo sbalzo temporale mi ha lasciato una sensazione difficile da definire, confusa, impastata di molte cose, tra le quali la nota rilevante era una certa amarezza.
Io non credo nel pensiero, e non credo nei nomi. Quando pensiamo siamo alla superficie di noi stessi, nello sforzo – inutile? – di renderci intellegibili agli altri. Quel che siamo è al di là dei nomi e del pensiero. Siamo come uno gettato in mare, che fa grandi sforzi per restare a galla, ma presto viene sommerso dai flutti e va a fondo. Cerchiamo di tenerci a galla afferrandoci ai nomi ed ai concetti, ma quello che siamo è un fiume senza forma, nel quale costantemente siamo sommersi.
C’era questo, dunque: io non io, quarantenne di quindici anni, nel mio letto di morte. Io non sono quello, ma non sono nemmeno questo. E: io sono questo, e quello. तत्त्वमसि. Io qui, nella forbice del non essere, del non qui. Tra la nascita e la morte. La non nascita e la non morte.