24 ottobre, sabato

Milano, zona duomo. Un senegalese vende quei libretti che prendevo spesso a Bari, davanti alla Feltrinelli. Gli chiedo di farmi dare uno sguardo per vedere se c’è qualcosa che non ho. Ne prendo tre: venti euro. Il ragazzo è entusiasta dell’affare. Ti regalo dei braccialetti, dice. No, dico, lascia stare. Sì, dai, dice. Ti do un braccialetto per ogni figlio che hai. Quanti figli hai? Nessun figlio. Ah: e si rattrista per un attimo, come se gli avessi confessato di avere una grave malattia. Poi riconquista il sorriso, mi regala comunque tre braccialetti colorati e mi ringrazia quasi l’avessi salvato da morte certa.
Trenta passi più in là scopro che uno dei libri ha una pagina stampata e una no. Per un attimo penso che sarebbe bello scrivere le pagine non stampate. Un attimo dopo concludo che sarebbe ancora un’attività con un telos: havel havalim.
Alla stazione, seduto di fronte alla Feltrinelli, improvvisamente mi sembrano tutti morti. Paura. Angoscia. Liberazione.

3 gennaio, sabato

Nell’autobus. Due ragazzine sui vent’anni, sedute di fronte ad una vecchia. Una delle due le rivolge la parola: “Signora, che bella quella sciarpa”. La signora ha una sciarpa orribile con tutti i colori dell’arcobaleno. “Ah, grazie”. “Dove l’ha comprata?”. “Al mercato del mercoledì”. E cominciano la conversazione. Che strano, penso: una ragazzina parla con una vecchia. Perché? Ipotizzo: magari vuol fare pratica dell’italiano (ha un marcato accento inglese). Poi mi correggo: ma certo, sarà dei mormoni, sta cercando nuovi adepti. Ma no – dice una parte di me o un altro io in me o un ha-shatan interiore – sei troppo cinico e vedi il male ovunque. Metto a tacere il foro interiore, che comincia ad essere affollato, concentrandomi su due ragazze ed una bambina che parlano albanese. Cerco di capire cosa si dicono, ma la mia conoscenza dell’albanese non è granché. Riconosco solo il bukur che la bambina ripete più volte. Bukur: bello. Guardo un po’ fuori dal finestrino la campagna senese. Già, bello. Bukur, shumë bukur. Finché, per quel singolare meccanismo che ci porta a fare attenzione alle cose per noi significative anche quando stiamo pensando ad altro, colgo l’espressione “chiesa mormone”. La ragazza ha scoperto le carte, e sta spiegando alla vecchina che la loro chiesa si trova in un certo posto, dopo averle lasciato degli opuscoli.
Giunge la loro fermata. Le due ragazze (solo ora vedo che hanno sul petto un tesserino della chiesa) mandano baci alla vecchina ed escono in fretta, con l’espressione di chi ha appena compiuto una rapina. La vecchia, fino ad un attimo prima sorridente, ha ora il viso stanco. Sembra affranta, per un attimo ho l’impressione che stia per avere un attacco di panico. Si toglie il cappello di lana, respira. Tutto torna normale. Normale.
Normale: che qualcuno rivolga la parola ad un estraneo solo per usarlo; questo, nella nostra società, è normale. Rivolgere la parola ad un estraneo solo per parlare con lui, senza alcun altro fine, penso, sarebbe una cosa davvero rivoluzionaria. Chiedere della sciarpa, e dei figli, e di tutto quanto il resto, solo per conoscere, per stringere legami, per gettare ponti oltre le mura del nostro io. Ma, ecco, se lo facessimo, pure useremmo l’altro: ci servirebbe per fare la rivoluzione. E il mondo torna a sembrarmi un groviglio, mentre salto giù dall’autobus e mi avvio verso casa.

Una teoria

“Prof, ma ce l’ha una teoria?”, mi chiede Lahcen. Non è la prima volta che me lo chiede. La prima volta ho tergiversato, e così vorrei fare anche ora: ma lui insiste. “Ce l’ha o no?”. “E’ complesso”, provo a dire. “Non so se riuscirei a spiegarti adesso”. Ma lui insiste. E allora azzardo. “Tu al mattino ti svegli e per tutta la giornata vivi in una certa realtà. Ecco, la mia teoria dice che c’è un’altra realtà; o meglio, che tu potresti vedere la realtà in un modo del tutto diverso. E che in questo modo del tutto diverso c’è pace”. Lo guardo, convinto che non ci abbia capito nulla. Ma lui mi assicura: “Sì, prof, ho capito”. Chissà.

17 ottobre, venerdì

Le strade erano insignificanti, spesso brutte. Ma ognuna di quelle strade era impastata di me. Ogni volta che attraversavo ognuna di quelle strade, mi aggiungevo al mio passato. Sulla via della stazione ero accompagnato, ad esempio, da un ragazzino che andava alla libreria Nuova Minerva ad acquistare la sua prima copia del “De Rerum Natura” di Lucrezio. Ed ero lui, e no: e non lo ero essendolo.
Ciò che mi tratteneva in quelle strade era, credo, proprio questo essere io, e no, ed essere io non essendo. Stare nel mio non essere più, essendo. Avere un’ombra, insomma.
Che è quello che mi manca. Qui le strade sono bellissime, ma sono solo. Quel ragazzino non c’è più: è altrove. Non ho più la mia ombra, sono solo sotto al sole della Toscana. Calpesto l’ombra di altri, ma non ho più la mia. Ed è bello, ed è triste. E leggero e pesante. E.

Da un’altra parte

Ho ottenuto il trasferimento a Siena. Da settembre si ricomincia da un’altra parte.
Ci sono due tipi di persone che, in genere, vanno via da Foggia: quelli che lo fanno per necessità e quelli che lo fanno per scelta. I primi sono per lo più proletari e vanno via per lavoro: e partono con profonda nostalgia, e pensano ogni giorno a come tornare; ed in genere tornano, dopo qualche anno, e si sentono felici di essere tornati in quella che non ha mai smesso di essere la propria casa. Quelli che partono per scelta sono per lo più figli della buona borghesia, e vanno via per studiare, e non provano per la città che disprezzo e vergogna; e se tornano, lo fanno con il senso di sconfitta di chi non è riuscito a realizzarsi in posti migliori.
Poi ci sono quelli che vanno via per tristezza.
Molti anni fa discutevo di Foggia con un’amica, oggi affermata scrittrice a Roma, in una circolare (il bus cittadino). Parlavamo di questo: andare o restare. Lei, che studiava a Milano, diceva di Foggia tutto il male possibile; io difendevo le ragioni del restare qui, nonostante tutto. Un ragazzino ci ascoltava, attento. La sua fermata arrivò a Candelaro, uno dei quartieri più infelici di una città infelice. Prima di scendere ci lanciò uno sguardo intenso, poi sorrise e disse: “Comunque Foggia è forte”. Lo disse in italiano, perché noi stavamo parlando in italiano – ma si capiva che la frase avrebbe acquistato il suo senso pieno solo in dialetto.
Per molto tempo ho pensato allo sguardo, al sorriso, alle parole di quel ragazzino. Ho pensato che sì, Foggia è forte: più forte della mafia che la soffoca, più forte della politica che la umilia, più forte della povertà, dell’ignoranza, della cialtronaggine che la consumano. E’ forte, pensavo, di una forza difficile da comprendere, forse misteriosa, certo sfuggente. Ed ho cercato di farmi forte di questa forza. Consideravo Foggia come un bambino fragile, malato, che però ce la farà, perché vuole vivere con tutto sé stesso: e che bisogna aiutare con tutte le cure possibili perché quel suo telos, che è bene, non sia travolto e spento dal male. Oggi penso di non poter fare nulla per quel bambino, e che anzi il prendermene cura o il semplice preoccuparmi per lui finirebbero per uccidere anche me e chi mi sta accanto.
Molti anni fa un anziano stava in un bar. Era il suo compleanno, stava festeggiando con gli amici. Nulla di che: un caffè, qualche pasticcino. Davanti al bar ci fu un agguato mafioso; l’anziano fu colpito da una pallottola vagante: e morì. Il sindaco – che era un fascista, e nell’indifferenza di tutti aveva fatto costruire due enormi fasci nella piazza principale della città – si disse indignato, ed annunciò una grande manifestazione pubblica di protesta. Che non ci fu mai. Mai.
Imparai allora due cose, ampiamente confermate da quello che è successo poi. La prima è che Foggia è una città in cui puoi morire per caso, per una pallottola vagante. La seconda è che questo, a Foggia, è naturale: rientra nell’ordine delle cose che un foggiano è disposto ad accettare senza inquietarsi troppo.
La mafia a Foggia si chiama società. Non è un caso.
Amo Foggia profondamente. L’amo come si ama la città in cui si è nati, in cui vivono le persone che si amano, in cui ci si è innamorati. Ma è un amore ferito, ormai: e rischia di incancrenire, e diventare qualcosa di peggio dell’odio. E’ l’amore disperato, angosciato, doloroso che si prova per una donna che ci ha traditi: e che – lo sappiamo – lo farà ancora, e ancora, e ancora.
I ragazzi dello Scurìa dicono che le città sono di chi le ama. Hanno ragione, anche se sui manifesti elettorali qualche mese fa si leggevano cose non troppo diverse. Hanno ragione: le città sono di chi le ama. Anzi: di chi sa amarle. Come le donne. Non basta amarle, o volerle amare. Bisogna saperle amare, essere in grado di renderle felici, ed essere felici con loro. Un amore ferito non serve a nessuno: né a loro (le città e le donne), né a noi.

9 maggio, venerdì

Aprile ci ha traditi, con le sue nuvole il suo freddo le sue piogge, ma a maggio l’aula non ci trattiene. Ci troviamo un posto nell’erba, in un angolo all’ombra. L’erba è stata tagliata da poco, c’è un buon odore di camomilla. Seminario maieutico. Il cerchio è imperfetto, perché qualcuna non se la sente di sedersi nell’erba, ha paura di sporcarsi i jeans o di essere presa d’assalto dagli insetti o dalle lucertole; ma va bene anche così. Il tema è: quali sono le nostre paure? Lo hanno scelto loro. E vengono fuori una ad una, le nostre paure: di morire, di soffrire, ma anche di fare del male agli altri; ed ancora: di deludere o di non essere all’altezza delle situazioni. La nostra fragilità, messa lì sul prato, appoggiata sull’erba tagliata da poco, sulla terra odorosa di camomilla, quasi non fa paura. Cosa possiamo fare?, chiedo. Ma la risposta è già lì. Quello che possiamo fare lo stiamo già facendo.