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3 gennaio, sabato
Giunge la loro fermata. Le due ragazze (solo ora vedo che hanno sul petto un tesserino della chiesa) mandano baci alla vecchina ed escono in fretta, con l’espressione di chi ha appena compiuto una rapina. La vecchia, fino ad un attimo prima sorridente, ha ora il viso stanco. Sembra affranta, per un attimo ho l’impressione che stia per avere un attacco di panico. Si toglie il cappello di lana, respira. Tutto torna normale. Normale.
Normale: che qualcuno rivolga la parola ad un estraneo solo per usarlo; questo, nella nostra società, è normale. Rivolgere la parola ad un estraneo solo per parlare con lui, senza alcun altro fine, penso, sarebbe una cosa davvero rivoluzionaria. Chiedere della sciarpa, e dei figli, e di tutto quanto il resto, solo per conoscere, per stringere legami, per gettare ponti oltre le mura del nostro io. Ma, ecco, se lo facessimo, pure useremmo l’altro: ci servirebbe per fare la rivoluzione. E il mondo torna a sembrarmi un groviglio, mentre salto giù dall’autobus e mi avvio verso casa.
Una teoria
“Prof, ma ce l’ha una teoria?”, mi chiede Lahcen. Non è la prima volta che me lo chiede. La prima volta ho tergiversato, e così vorrei fare anche ora: ma lui insiste. “Ce l’ha o no?”. “E’ complesso”, provo a dire. “Non so se riuscirei a spiegarti adesso”. Ma lui insiste. E allora azzardo. “Tu al mattino ti svegli e per tutta la giornata vivi in una certa realtà. Ecco, la mia teoria dice che c’è un’altra realtà; o meglio, che tu potresti vedere la realtà in un modo del tutto diverso. E che in questo modo del tutto diverso c’è pace”. Lo guardo, convinto che non ci abbia capito nulla. Ma lui mi assicura: “Sì, prof, ho capito”. Chissà.
17 ottobre, venerdì
Le strade erano insignificanti, spesso brutte. Ma ognuna di quelle strade era impastata di me. Ogni volta che attraversavo ognuna di quelle strade, mi aggiungevo al mio passato. Sulla via della stazione ero accompagnato, ad esempio, da un ragazzino che andava alla libreria Nuova Minerva ad acquistare la sua prima copia del “De Rerum Natura” di Lucrezio. Ed ero lui, e no: e non lo ero essendolo.
Ciò che mi tratteneva in quelle strade era, credo, proprio questo essere io, e no, ed essere io non essendo. Stare nel mio non essere più, essendo. Avere un’ombra, insomma.
Che è quello che mi manca. Qui le strade sono bellissime, ma sono solo. Quel ragazzino non c’è più: è altrove. Non ho più la mia ombra, sono solo sotto al sole della Toscana. Calpesto l’ombra di altri, ma non ho più la mia. Ed è bello, ed è triste. E leggero e pesante. E.