Il cattolicesimo queer di Michela Murgia

Il cattolicesimo queer di Michela Murgia

Femminista e cattolica, Michela Murgia ha cercato di rovesciare il patriarcato attraverso una reinterpretazione radicale del dogma centrale del cristianesimo: la Trinità. Non “due uomini e un uccello”, come nella tradizione occidentale, ma tre figure asessuate, in una posizione aperta, orizzontale, non gerarchica, come nell’icona di Andrej Rublev. Il cui significato profondo è che l’amore autentico è quello che include il terzo. Una reinterpretazione nella quale tuttavia permane la tendenza cattolica, e violenta, di dire cos’è il vero amore, e dunque come bisogna amare.

Papa Francesco, il piazzista di Dio

Dal Rinascimento in poi, gli sviluppi della scienza e della filosofia hanno progressivamente sgretolato il terreno metafisico-cosmologico su cui poggiava la dottrina cristiana. A fine Ottocento il processo è compiuto: si tratta solo di trarne le conclusioni. E lo fa Nietzsche con l’annuncio della morte di Dio; un annuncio fatto non a credenti, ma ad atei, proprio perché non si tratta di dire che Dio non c’è, cosa ormai banale ed evidente a tutti, ma che se Dio non c’è tutti i nostri valori devono essere trasmutati. Se era evidente a tutti, non lo era per la Chiesa cattolica, che per decenni ha continuato ad affermare e riaffermare caparbiamente il proprio contenuto dogmatico. Fino a quando è arrivato il colpo di grazia: la società del benessere, che progressivamente ha ridotto nei paesi industrializzati le basi sociologiche del suo consenso: una ampia massa di persone ignoranti, superstiziose, bisognose di rassicurazione ultraterrena perché spaventate da una vita difficile. Di fronte a questi cambiamenti epocali le posizioni possibili sono quattro. La prima è quella di un ripensamento serio e profondo del cristianesimo alla luce dei cambiamenti sociali e culturali. È la via imboccata dall’avanguardia più coraggiosa della teologia contemporanea, in particolare protestante, con autori come Bultmann, Bonhoeffer, Altizer, e in Italia da pensatori come Sergio Quinzio o quello straordinario provocatore che è stato Ferdinando Tartaglia. La seconda è quel ripensamento politico del cristianesimo come prassi di liberazione compiuto dalla teologia della liberazione sudamericana. La terza è la condanna della modernità. È la via del fondamentalismo evangelico ed ortodosso e, in modo apparentemente più blando, del papato di Giovanni Paolo II, con il suo attacco ossessivo al relativismo. L’ultima posizione è quella di un adattamento del cristianesimo al consumismo. È la via di certi telepredicatori evangelici statunitensi. Ed è anche la via che la Chiesa cattolica sembra aver preso con la guida di papa Francesco. Nulla lo dimostra meglio dell’ultimo suo libro. Che è, intanto, una operazione commerciale sfacciata. Il papa si affida, chissà perché, non alla Libreria Vaticana, ma alla semisconosciuta Libreria Pienogiorno di Milano. Una case editrice che si presenta così nel suo sito Internet: “Non un altro marchio editoriale, ma un marchio editoriale tutto nuovo che offre autori di successo, altovendenti, di qualità e proposte di assoluto interesse e rilievo del panorama italiano e internazionale”. Altovendenti. Non avevo mai incontrato questa parola, mi immagino che faccia parte di certo gergo aziendale sul quale sarebbe troppo facile fare ironia. Il fatto di essersi affidato a una casa editrice che pubblica autori altovendenti non è senza conseguenze. Perché, per quanto male di pensi di papa Francesco, è difficile credere che sia stato lui a pensare un titolo ruffiano come Buona vita e un sottotitolo ruffianissimo come Tu sei una meraviglia, che superano di gran lunga l’idiozia del precedente Ti auguro il sorriso. Per tornare alla gioia. Perché credere in Cristo? La risposta un tempo era: perché solo il Cristo ci salva dal peccato; perché siamo esseri profondamente corrotti e possiamo risollevarci solo con[…]

Cristianesimo:
che farsene ormai?

Fa un certo effetto leggere Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede di François Jullien (Ponte alle Grazie). Jullien non è solo uno dei massimi pensatori europei; è uno dei pochissimi che riesca a pensare oltre l’Europa, grazie alle sue competenze di sinologo. In quest’opera si occupa, dunque, di cristianesimo. E comincia così: “Vi chiederete perché mi occupi oggi proprio di questo – ovvero, del ‘cristianesimo’. Che cosa farsene, ormai?”. E poco oltre aggiunge: “Finito il tempo del suo dominio e poi quello della sua denuncia, e oggi nel tempo della sua marginalizzazione, occorre infatti tracciare il bilancio di quel che il cristianesimo ha fatto avvenire nel pensiero”. Non voglio discutere, qui, le risorse che Jullien scopre nel cristianesimo e crede di poter riprendere anche senza la fede; dirò solo che sono risorse che con ogni probabilità sorprenderebbero buona parte dei credenti. Mi interessa soffermarmi sull’incipit, sul punto di partenza del suo discorso. Dunque: il cristianesimo è giunto al momento dei bilanci?

Quant’è falso (e pericoloso) Dio

Superati i settant’anni Sergio Givone, che conosciamo come uno dei massimi filosofi italiani, s’accorge d’aver sbagliato mestiere e ci consegna un’enciclica: Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018). Il titolo è azzeccato, e davvero rincresce che non sia venuto in mente a qualcuno degli ultimi papi, ai quali non si può rimproverare, tuttavia, di non aver pensato quello che si trova oltre il frontespizio. La tesi è semplice semplice, ed è tutta nel sottotitolo: non possiamo fare a meno della religione, perché se neghiamo Dio finiamo per negare anche l’uomo. Sì, Dostoevskij: se Dio non esiste, tutto è permesso. Poiché centottanta pagine bisogna pur riempirle, Givone aggiunge Berdiaev, Pareyson. Agamben e perfino un po’ di Habermas. Fosse stato più audace, avrebbe aggiunto anche un Ferdinando Tartaglia, e il discorso forse sarebbe diventato più interessante. Così com’è, non è che una stanca, piatta, inutile variazione su uno dei temi più stantii della pubblicistica cattolica degli ultimi decenni.
Primo compito d’un filosofo dovrebbe essere il rigore: rigore nell’argomentazione, rigore nella definizione dei termini. Che cosa vuol dire che non possiamo fare a meno della religione? Noi chi? Noi esseri umani, noi europei? E cos’è la religione? E cos’è Dio? Quale Dio? Non uno di questi concetti è scontato. Esistono religioni senza Dio, come il buddhismo. Givone sostiene che dopo duemila e cinquecento anni i buddhisti non possono, ora, fare a meno di Dio? Ma lo stesso buddhismo è poi una religione? Il concetto indiano di dharma solo molto approssimativamente può essere ricondotto a quello occidentale di religione. Di cosa abbiamo allora bisogno?

Il dolore, l’amore, la liberazione

Solo il grande dolore, scriveva Nietzsche ne La gaia scienza, "costringe noi filosofi a discendere nelle estreme profondità di noi stessi e a sbarazzarci di ogni fiducia, d'ogni bontà, d'ogni infingimento, d'ogni mansuetudine, d'ogni via di mezzo, di tutto ciò in cui forse una volta abbiamo riposto la nostra umanità" (Prefazione alla seconda edizione, 3, trad. F. Desideri). E' una delle possibilità del dolore, che può avere anche una funzione igienica, se quella che abbatte era una finta bontà, se l'umanità era riposta in qualche fragile finzione borghese. Ma nella profondità nella quale il dolore ci ricaccia c'è la possibilità di conquistare una positività più alta, una umanità più vera, una bontà più solida. Sotto i colpi del dolore, si subisce un processo più o meno completo e radicale di disidentificazione; ci si distanzia, per così dire, da sé stessi; ci si abitua all'idea della morte, ossia della perdita di sé. E' questa disidentificazione che può aprire una visione più ampia e gettare le basi d'una più solida vita morale: poiché purifica il bene da ogni venatura egoistica. Il dolore trascina in quella dimensione transpersonale nella quale soltanto, per Simone Weil, è davvero possibile il bene.[read more] Sui percorsi che conducono dalla negatività del dolore alla positività dell'amore riflette Michele Illiceto ne Il talamo e la tela. Un libro singolare, che percorre il confine a volte labile tra poesia e filosofia, intrecciando una fitta trama di rimandi filosofici, che è compito del lettore dipanare, lasciandosi provocare dalle suggestioni disseminate pagina dopo pagina. Dal dolore all'amore, dunque. Quell'amore che per un cattolico è legato alla fede. L'impressione di trovarsi di fronte ad una riscrittura di Giobbe è confermata dagli ultimi versi del libro (prima dell'ultimo capitolo, che riporta dei versi di Teresa d'Avila), che sono una citazione di Giobbe 42, 5-6: "Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto". Ma quello che Giobbe incontra, alla fine del suo inquieto e drammatico interrogare, non è un Dio tranquillizzante. Se i suoi interlocutori cercano di convincerlo che, se sta soffrendo, se gli sono capitate disgrazie, è perché ha compiuto qualche colpa (cercano dunque di sostenere una concezione etica di Dio), Giobbe avverte su di sé il peso di un Dio persecutore, indifferente al dolore umano, al di là del bene e del male. E l'intervento finale di Dio non è per spazzare via questa interpretazione che può apparire blasfema. A dire parole giuste su Dio non sono stati gli interlocutori di Giobbe, ma Giobbe stesso, con le sue bestemmie: e per questo Dio lo premia ridandogli i beni che aveva perso in seguito alla scommessa con l'ha-shatan. Una conclusione estremamente inquietante per i credenti. L'esperienza del dolore pone due questioni: se Dio è, e come Dio è. Escluso l'ateismo, per il credente è pressante la seconda questione. Quale Dio permette il male? Per Hans Jonas l'esperienza del dolore, rappresentata emblematicamente da Auschwitz, pone di fronte a una scelta: o un Dio onnipotente, ma non buono; o[…]