La cultura dell’alcol

Come succede ai più, dopo la laurea ho vissuto un periodo di bulimia formativa, per così dire. Frequentavo un corso dopo l’altro, per riempire in qualche modo il curriculum, ma anche perché avevo bisogno di capire molte cose. Della maggior parte di quei corsi non mi è rimasto nulla. Uno mi ha segnato. Era un corso tenuto da Vladimir Hudolin, il fondatore dei Club di alcolisti in trattamento (CAT; oggi in Italia si chiamano Club alcologici territoriali). Mi colpì, Hudolin: un uomo austero, a tratti arcigno, dedito a una causa in cui credeva profondamente, cui si dedicava senza risparmiarsi, anche se la malattia gli lasciava poche energie (sarebbe morto di lì a poco). A chi gli faceva notare che in fondo non c’è nulla di male a bere un bicchiere di vino o di birra, Hudolin replicava con pazienza, ma anche con fermezza: non c’è dipendenza che non parta da un bicchiere di vino, cui quando si è nervosi o stressati si aggiunge un  secondo – che sarà mai? – e poi un terzo, e così via. Ma a colpirmi, a segnarmi in quel corso furono soprattutto le testimonianze di chi c’era passato. E ad esserci passati non erano i soggetti che normalmente associamo a qualche forma di devianza, ma persone normalissime. Ricordo soprattutto una coppia di architetti. Giovani, benestanti,  con figli: una vita apparentemente invidiabile. Che era andata in frantumi quando lei aveva cominciato a bere. Perché, scoprii, la dipendenza dall’alcol colpisce in modo significativo le donne, anche se il fenomeno è quasi invisibile.