La pedagogia dell’evitamento

Molti anni fa entrai in una sala molto affollata per seguire una conferenza sull’educazione. Una volta — stava dicendo il conferenziere — un bambino a scuola poteva essere definito turbolento; oggi lo stesso bambino sarebbe definito iperattivo. E tra turbolento e iperattivo, spiegava, c’è una differenza enorme. La turbolenza è un problema pedagogico. L’iperattività diventa, invece, un disturbo.

Il conferenziere si chiamava Alain Goussot, e della questione avremmo discusso più volte, negli anni a venire. Mi sembrava che nella sua critica della medicalizzazione in atto nelle scuole ci fosse il rischio di non riconoscere problemi reali, che richiedono una personalizzazione della didattica, nella quale non riuscivo a non vedere una importante passo avanti della scuola italiana. A distanza di molti anni — e quando ormai non è più possibile, purtroppo, discuterne con lui — devo riconoscere che aveva molte ragioni.

Si è fatta strada in questi anni nelle scuole, fino a diventare dominante e incontrastata, quella che chiamerei pedagogia dell’evitamento. La famiglia comunica alla scuola che lo studente ha un disturbo certificato. E alla luce di quella certificazione, succede sempre più spesso che, sostenuta dallo specialista, chieda ai docenti di non far fare alla figlia o al figlio ciò che ha a che fare con il suo disturbo. Si va al di là delle misure dispensative e compensative, che pure sono diventate ormai un meccanismo pedagogicamente idiota (spesso si tratta solo di compilare un modulo barrando alcune caselle; ogni tipologia di disturbo ha le sue caselle). Mi è capitato di dover discutere in un consiglio di classe la richiesta, sostenuta da uno specialista, di esentare uno studente con un ritardo mentale dalla scrittura, dal momento che scriveva con grandi difficoltà. Questo studente, di quindici anni, aveva la scrittura di un bambino di otto anni; se la scuola avesse smesso di chiedergli di scrivere, avrebbe perso del tutto la capacità di scrivere. I genitori di una studentessa a disagio con le verifiche orali in classe chiedono che la figlia sia del tutto esentata dal parlare davanti ai compagni. In che modo potrà affrontare gli esami universitari? Come farà l’esame di laurea? A fronte di un disagio — spesso si tratta di questo, più che di un disturbo — la scuola può rinunciare a lavorare su competenze che sono fondamentali? È doveroso riconoscere a uno studente dislessico il diritto di scrivere usando il computer, ma siamo sicuri di aiutare uno studente con sindrome di Asperger badando ad evitare con la massima cura qualsiasi cosa che possa infastidire un soggetto con sindrome di Asperger? I nostri cervelli sono in costante adattamento all’ambiente. Un ambiente privo di qualsiasi sfida, che venga modellato sullo stato attuale di un cervello e non gli richieda nessun cambiamento, nessuno sforzo, è un ambiente che non favorisce, ma ostacola la sua crescita.

La rivendicazione delle famiglie è quella del successo scolastico. Che è sacrosanta. Il problema è che si confonde il successo con il voto. Se si chiede a uno studente di fare solo quello che sa fare, sicuramente i voti saranno alti. Ma lo scopo della scuola non è quello di mettere voti alti; è quello di far crescere gli studenti. E sappiamo che il nostro cervello cresce facendo cose difficili. Affrontando compiti che hanno un livello di sfida ottimale. Uscendo, per così dire, dalla nostra comfort zone mentale. L’impressione, invece, è che dopo la certificazione il lavoro dei consigli di classe consista proprio nel creare intorno allo studente una comfort zone tanto rassicurante quanto pericolosa.

È anche, mi sembra, un modo per venir meno alle proprie responsabilità educative e didattiche. Dispensare e compensare sono cose facili, con le quali mettiamo a posto la nostra inquieta coscienza di docenti senza troppi problemi. Siamo davvero convinti che una mappa concettuale, una calcolatrice, una interrogazione programmata possano aiutare qualcuno a crescere? Siamo sicuri che bastino i consolidati automatismi che portano all’elaborazione del Piano Didattico Personalizzato? Di fatto, manca nelle scuole il momento dell’elaborazione pedagogica e didattica. I docenti sono per lo più esecutori: prendono atto delle richieste contenute nella certificazione. Lo studente è esentato da…; si chiede alla scuola di… Ma la scuola è una comunità di professionisti dell’educazione. Cercare le mediazioni adeguate, una volta preso atto delle difficoltà dello studente, è un suo dovere. E non basta barrare qualche casella per assolverlo.

Il fatto che manchi ordinariamente nelle scuola la figura del pedagogista di Istituto, e che nessuno ne avverta la necessità, è un indice significativo della scarsa disponibilità delle scuole ad inoltrarsi nella via lunga della effettiva valorizzazione di ciascuno studente, oltre la scorciatoia dell’evitamento.

Pubblicato su Comune-info.

La scuola difficile

Ho raccolto gli articoli sulla scuola pubblicati negli ultimi anni – dal 2015 – prevalentemente su Gli Stati Generali in un ebook intitolato La scuola difficile, disponibile su tutte le librerie on-line al costo di 3.99 euro (Amazon, IBS, Kobo) .

Di seguito la Premessa.


Raccolgo in questo libro gli articoli sulla scuola che ho scritto nell’arco degli ultimi sei anni, prevalentemente su Gli Stati Generali, nella speranza che il ragionamento sulla scuola che essi tentano, ricondotto ad una qualche unità in una raccolta, possa contribuire, sia pure in misura minima, alla riflessione sulla scuola che abbiamo e su quella che vorremmo o dovremmo creare.

Lo intitolo La scuola difficile, riprendendo il titolo di uno degli articoli, per diverse ragioni.

In primo luogo, quella del titolo è la difficoltà della nostra scuola. È convinzione diffusa che la scuola italiana sia diventata facile, leggera, che abbia perso il rigore e la serietà di una volta. I miei studenti che passano un periodo di studi all’estero sono invece concordi nel percepire la nostra scuola come più difficile. E purtroppo questa maggiore difficoltà non comporta una maggiore serietà o una migliore preparazione. La scuola è più difficile semplicemente perché meno coinvolgente, più noiosa e pesante.

In secondo luogo, la difficoltà è quella della scuola che vorrei e che ritengo necessaria. E anche qui, in due sensi. Il primo è quello che provo a spiegare nell’articolo da cui ho ripreso il titolo (cap. 31). Possiamo fare una scuola più seria non rendendo più pesante il lavoro degli studenti, ma impegnandoci in un lavoro più complesso della routine lezione-compiti-interrogazione, tanto rassicurante (in fondo si è sempre fatto così) quanto evidentemente fallimentare. Ma questa scuola è difficile — ed è il secondo senso — anche perché qualsiasi tentativo di scardinare quell’impianto incontra resistenze fortissime, e spesso condanna all’isolamento ed all’incomprensione.

In questi sei anni si sono succeduti cinque governi: il governo Renzi (fino al dicembre 2016), il governo Gentiloni, il primo e il secondo governo Conte e l’attuale governo Draghi. Sono stati, soprattutto, gli anni della pandemia, che ha sconvolto in modi prima inimmaginabili il nostro modo di vivere e di fare scuola. Sono gli anni in cui la digitalizzazione delle scuole, promossa dal governo Renzi, ha avuto una accelerazione forzata dalla chiusura delle scuole, con la conseguente necessità di passare alla didattica a distanza. I docenti sono stati costretti a reinventarsi, a cercare vie alternative per raggiungere gli studenti, a sperimentare forme diverse di insegnamento. E, inevitabilmente, a riflettere su cosa è scuola e cosa no. La sospensione del setting tradizionale — tradizionalissimo, in Italia — è una occasione storica per interrogarsi sulle alternative. Sono convinto che questo sia il momento migliore per provare a ripensare la scuola. Il momento del ritorno alla normalità, che dev’essere il momento in cui si cerca qualcosa di più, e di meglio, di quella normalità. E tuttavia sono troppo disincantato per non ritenere più plausibile lo scenario tranquillizzante del semplice ritorno alla scuola di prima. Perché, appunto, una scuola altra è difficile.

Alcuni degli articoli qui raccolti hanno un carattere più teorico e presentano, con i limiti di un articolo giornalistico, la mia idea di scuola e di educazione, mentre altri sono più legati alla contingenza, a questo o quella notizia o fatto particolare. Trattandosi di una raccolta di articoli, e non di un saggio unitario, non sono infrequenti le ripetizioni di alcuni temi (ad esempio l’importanza del Service Learning o dell’abolizione dei compiti a casa).

L’idea di scuola che è al fondo di queste analisi è semplice e si può sintetizzare in poche parole: costituire la classe come una comunità in dialogo, passare dalla trasmissione alla ricerca comune, aprire la scuola al territorio e re-istituirla (si veda l’ultimo intervento, uscito su Gli Asini di Goffredo Fofi), formare gli studenti all’impegno, pensare il proprio lavoro di docenti nell’ottica della giustizia sociale, fare educazione, e non solo istruzione, e farla sia cogliendo l’aspetto valoriale dei contenuti culturali (il valore della bellezza nella poesia, nella letteratura, nell’arte; il valore della verità nella filosofia e nella storia; il valore della giustizia nel diritto, e così via), sia curando la relazione con gli studenti, che può essere via per la crescita reciproca solo se è autentica e viva, e non mortificata da quella verticalità burocratico-amministrativa che genera assurdità pedagogiche come la nota in condotta.

Quanto qui scritto è il risultato, anche, del confronto — dialogo ma anche, a volte, scontro — con molte persone, alle quali sono grato. Nominarle tutte sarebbe cosa lunga. Loro sanno. Per approfondire l’idea di scuola qui presentata si può leggere il libro Alternativa nella scuola pubblica. Quindici tesi in dialogo (Ledizioni, Milano 2018) scritto con Fabrizio Gambassi ed esito anch’esso di un lavoro comune fatto con colleghi, studenti e genitori.

Valutare e valorizzare

“Ogni inizio contiene una magia”, scriveva Hermann Hesse nel Gioco delle perle di vetro. Ed è una affermazione che per me vale soprattutto per quel nuovo inizio che è il primo giorno di scuola. Che è il momento in cui maggiormente mi fermo a domandarmi — a ri-domandarmi — perché insegno: e cosa vuol dire insegnare. Quando prendo una classe nuova, passo i primi giorni a interrogarmi sulla questione con gli studenti.

Lo scorso anno l’ho chiuso come commissario interno all’esame di Stato. Una esperienza che è l’esatto contrario del primo giorno di scuola. Se questo ha la freschezza degli inizi e la fragranza della possibilità di cambiamento, l’esame di Stato ha la tristezza atroce del giudizio finale con i vincitori e in vinti; il momento nel quale l’istituzione celebra la sua istituzionale ottusità.

Ho passato l’estate a cercare di riprendermi moralmente dagli esami. E a riflettere, ancora e ancora. In particolare, dopo aver passato giorni a chiudere esistenze e storie in un numeretto, a domandarmi cos’è valutare.

La questione della valutazione comprende tre aspetti.

Il primo è quello della selezione lavorativa. Qualunque idea di scuola si abbia, non si può negare che il suo compito sia anche quello di formare persone che occuperanno un certo posto nella società, ed è importante che abbiano sufficiente motivazione e preparazione per farlo. In genere si fa attenzione al secondo aspetto; per me il primo è anche più importante. Preferisco che nel campo sociale, ad esempio, lavori uno studente fortemente motivato anche se non preparatissimo piuttosto che uno con una preparazione approfondita ma privo di empatia.

Il secondo aspetto è quello che potremmo chiamare dell’adempimento disciplinare. A scuola si insegnano diverse discipline. Ogni disciplina ha i suoi argomenti e i suoi obiettivi da raggiungere. Si valuta lo studente in base al raggiungimento di questi obiettivi. Questi due primi aspetti sono legati in modo problematico. La scuola ritiene che valutare l’adempimento disciplinare dello studente serva al contempo a selezionare buoni lavoratori. Il mondo del lavoro non la pensa proprio così, e chiede a gran voce che il modo di insegnare e di valutare cambi, lasciando più spazio alle competenze. La scuola reagisce stizzita, affermando che il suo compito è formare la persona, e non selezionare lavoratori.

Il terzo aspetto è quello della valorizzazione. Lo studente è un futuro lavoratore ed uno che deve apprendere diverse discipline, ma è anche e soprattutto una persona che sta crescendo, e che in questo percorso difficile va aiutato a tirare fuori il meglio di sé, e prima ancora ad apprezzare quello di buono che già ha in sé.

Ritengo che questo terzo aspetto sia quello più importante. Se ripenso al mio percorso educativo e scolastico, mi accorgo del fatto che avrei avuto bisogno soprattutto di questo, da parte della scuola. Non sono stato uno studente facile, perché non facile era il mio contesto. Studiavo molto, ma per conto mio; solo raramente le lezioni scolastiche intercettavano i miei interessi. Al secondo anno delle superiori sono stato rimandato in tre materie. Una di queste era la lingua francese, che ho sempre amato moltissimo. Un’altra era arte. La mia prima scelta, per le superiori, ero stato i Liceo Artistico. Mi piaceva molto disegnare, ed ero anche piuttosto bravo. È evidente che dietro quelle insufficienze c’era qualcos’altro.

Alle superiori ho incontrato per lo più docenti che mi disprezzavano. Qualcuno di loro cercava anche di convincermi ad abbandonare la scuola. Il professore di musica riteneva che se avessi lasciato avrei potuto poi a diciott’anni fare il concorso in polizia — l’ho poi fatto davvero, superandolo anche — , mentre quello di matematica pensava, chissà perché, a una carriera da fotomodello. Quello che loro vedevano era uno studente che non studiava. Che non studiava quello che loro gli dicevano di studiare. E che per giunta aveva in classe un atteggiamento provocatorio; che al docente che gli chiedeva se stesse seguendo la lezione rispondeva con sincerità: no. E che per questo veniva invitato ad accomodarsi fuori dall’aula.

Poi è arrivato il professor Abbatangelo. Un vecchio professore di pedagogia, che evidentemente vedeva quello che agli altri sfuggiva. Non studiavo pedagogia. Va bene. Cosa studiavo? All’epoca ero immerso nello studio della filosofia indiana: la Bhagavadgita e il Vedanta. Se lo fece bastare. Mi interrogò sulla filosofia indiana, presi un gran bel voto. E cominciai a studiare pedagogia.

Che era successo? Era successo che il professor Abbatangelo mi aveva visto. Aveva visto, per la precisione, due cose. In primo luogo, me fuori dall’aula: i miei interessi, le mie domande. E poi aveva visto il mio altro. Non quello che ero, ma quello che potevo essere.

Chi insegna, chi educa, dovrebbe avere uno sguardo fertile. Dovrebbe guardare l’altro con occhi che fanno nascere cose, che scorgono le possibilità, che individuano i semi. Diseducatore è chi getta sull’altro uno sguardo che pietrifica. (“Studente con scarsa intelligenza”, aveva annotato sul suo registro la mia professoressa di latino. E questo nonostante il latino fosse praticamente l’unica disciplina nella quale avevo voti alti.)

Mi piace pensare alla scuola come il luogo in cui docenti, dirigenti, collaboratori scolastici siano sinergicamente impegnati a valorizzare gli studenti. Di fatto, questo avviene poco. E non solo perché la scuola è una istituzione che non riesce ancora a liberarsi dalle sue origini autoritarie e l’umiliazione dello studente, in forme aperte o subdole, è ancora pratica diffusa, ma soprattutto perché qualsiasi forma di riconoscimento avviene nell’alveo delle discipline. Quello che conta, alla fine, è che lo studente studi italiano, matematica e filosofia. Se lo fa è bravo, se non lo fa, non è bravo. Tutto qui. Un docente sensibile potrà incoraggiare lo studente in difficoltà, valorizzare i suoi punti di forza, sostenere la sua autostima, ma sempre nel cerchio della disciplina.

Cosa c’è che non va? Non è giusto che sia così? No, non lo è, e vediamo perché.

Lo studente X è arrivato in Italia da due anni. Prima di giungere da noi ha vissuto per diversi anni in un altro paese europeo. Conosce bene quattro lingue: la lingua madre, l’italiano, la lingua del paese in cui è vissuto e una quarta lingua che ha studiato nel suo paese natale. Ha una ricchezza linguistica che nessun altro studente ha nella sua classe. Ma non ama l’inglese. Se la cava male. Per la scuola, lo studente X è linguisticamente insufficiente. Ma non è così.

Consideriamo un altro caso. Questa volta mi permetto un ricordo. Anni fa uno studente russo di una mia prima giunse in ritardo alla prima ora. Per scherzo gli dissi che non potevo fare a meno di punirlo: avrebbe dovuto recitarmi una poesia russa a scelta. Lui ne fu felice, e cominciò a declamare dei versi di Puškin. Avrei scoperto poi che aveva una conoscenza molto approfondita della letteratura russa, ossia di una parte significativa della cultura mitteleuropea.

La scuola guarda gli studenti attraverso i suoi occhiali, che sono quelli disciplinari. Tutto ciò che non rientra in una delle discipline previste dall’indirizzo, semplicemente non esiste. La valutazione è il risultato della somma dei diversi sguardi disciplinari sullo studente. Il risultato è che la scuola è miope. E gli studenti lo sanno; una buona parte del loro malessere viene da qui. La scuola non li vede, se non nella misura in cui loro si scolarizzano. Se prendono la forma che la scuola richiede per guardarli. Uno studente figlio di genitori stranieri, ad esempio, non è in alcun modo invogliato dalla scuola a mantenere un contatto con le sue radici culturali. Le lingue e le culture nigeriana, o albanese, o romena non rientrano nel piano degli studi, e dunque non esistono. Sono una faccenda privata dello studente e della sua famiglia. L’integrazione dello studente straniero si riduce a organizzare corsi di italiano come L2; un processo unidirezionale, che non prevede alcuno scambio culturale, e dunque nessun riconoscimento reciproco.

Il tutto è più della somma delle parti. Difficile valutare uno studente procedendo per addizione, ma soprattutto difficile valorizzarlo in questo modo. Alla scuola manca una figura che segua, ascolti, guardi lo studente al di là delle discipline. Un tutor — la parola mi piace poco, ma non è questo il punto — che affianchi i docenti nella valutazione, offrendo una conoscenza più ampia che nasce anche dal confronto con la famiglia e dalla considerazione del contesto culturale. O forse manca semplicemente il coraggio di ripensarsi come una istituzione realmente educativa.

Insegnare è una stronzata?

Consentitemi di scusarmi subito per il titolo inelegante. E di spiegare. La parola stronzata traduce l’inglese bullshit; chiedendomi se l’insegnamento sia una stronzata mi riferisco alla analisi fatta dall’antropologo David Graeber dei bullshit jobs [1]: i lavori-stronzata, appunto. Chi fa un lavoro-stronzata — nell’edizione italiana del libro di Graeber si traduce pudicamente “lavori del cavolo” — se ne accorge, non c’è bisogno che giunga un antropologo a dirglielo: perché la prima caratteristica di un lavoro-stronzata è che il lavoratore torna a casa, la sera, e sente di non aver dato nessun contributo alla società. È evidente che il lavoro dello spazzino, dell’idraulico, dell’operaio, del benzinaio non sono stronzate. Ognuno di loro può essere sicuro di aver dato il suo piccolo contributo alla società, anche se la società non sembra riconoscerlo granché. In molti altri casi non è così facile raggiungere questa sicurezza. Graeber si sofferma sulla figura dei barracaselle (box tickers), “quei dipendenti che esistono solo o principalmente per consentire a un’organizzazione di affremare che sta facendo qualcosa che in realtà non sta facendo”. Un barracaselle è una persona che compila schede, stila rapporti, riempie carte che nessuno userà mai, che sono nulla più che adempimenti formali.

Leggi tutto “Insegnare è una stronzata?”

La laicità c’entra

Poiché il tema è caldo, mi aspettavo non poche critiche al mio articolo sulla vaccinazione dei docenti uscito sul Tirreno di domenica. Ma non mi aspettavo che ad essere criticato fosse l’uso della parola laicità nella seguente frase: “La scuola dev’essere un presidio di razionalità, di laicità, di pensiero scientifico e di responsabilità sociale”. A qualcuno è sembrato fuori luogo, segno del mio essere monotematico.

Come è noto, la parola laico (da laos, popolo) indica in senso stretto coloro che non sono sacerdoti: per cui anche un cattolico, se non ha preso i voti, è laico. In senso più ampio è laico chiunque rivendichi la libertà della sfera pubblica dalla religione. Che non vuol dire essere antireligiosi: la scuola di Barbiana era molto più laica della scuola pubblica del tempo (ed anche di quella attuale, a dire il vero), pur essendo ospitata in una canonica.

Le nostre scuole sono oggi frequentate da studenti che provengono da mondi culturali diversissimi. C’è lo studente cattolico, quello evangelico, quello ortodosso, quello ateo, quello ebreo e quello musulmano. Ad ognuna di queste identità posso associare uno o più volti, una o più storie. Ora, che fare di questa diversità? E’ un problema enorme, la cui soluzione non pare facile. C’è chi dice che noi siamo cattolici, è questa la nostra identità e tradizione, ed occorre che chi è diverso si adegui. E’ questa la logica che giustifica il crocifisso alle pareti delle aule scolastiche e l’insegnamento confessionale della sola religione cattolica, sia pure opzionale. E’ una logica difettosa per diverse ragioni. La prima è che ignora un principio semplice: una democrazia non si riconosce per l’applicazione del principio di maggioranza, ma per il rispetto delle minoranze. La seconda è che ignora la nostra storia: perché la storia italiana ed europea non è la storia del cristianesimo e del cattolicesimo, ma è la storia di cattolici, evangelici, valdesi, ebrei, atei, massoni, liberi pensatori, e così via. E certo ritenere che uno studente ebreo sia meno italiano di uno studente cattolico è inaccettabile, così come lo è pensare che lo sia uno studente ateo. La terza è che ignora un principio pedagogico elementare: che non puoi educare nessuno se non rispetti la sua identità. Se gli dai il messaggio, implicito o esplicito, che la sua religione o la sua irreligione sono sbagliati.

Tenere i crocifissi alle pareti, insegnare religione cattolica agli studenti cattolici ed offrire qualche volta un insegnamento alternativo a coloro che non sono cattolici — dico qualche volta perché l’attivazione dell’Attività Alternativa è più eccezione che regola nella scuola italiana — è il modo migliore per far sì che questa diversità diventi chiusura e conflitto. Il compito della scuola non può essere quello di comunicare ad alcuni il loro essere dalla parte della ragione, della storia, della tradizione, e ad altri il loro essere ospiti, tollerati: diversi. Se ha ancora qualche senso, la scuola pubblica lo ha in quanto luogo in cui si costruisce il dialogo. In cui si insegna che non importa quanto potente e influente è il gruppo di cui fai parte, quanto convinto sei delle tue idee: quello che conta è che tu sappia argomentare le tue ragioni e stare in una situazione di dialogo. Una scuola laica è il luogo in cui tutti sono invitati ad argomentare in modo rigoroso, ad essere intellettualmente onesti, a dialogare con l’altro senza scorciatoie e scorrettezze: che si parli di Dio, di omosessualità, di politica o di vaccini.

Lo spettacolo indegno cui stiamo assistendo in questi giorni è il risultato, anche, di troppa pessima scuola. Di una scuola centrata sull’acquisizione individuale di contenuti culturali e non sul confronto razionale, dialettico, argomentativo. La scuola dell’interrogazione, non del comune interrogarsi. Una scuola che non ha mai contrastato la convinzione che sia sufficiente chiudersi in una identità per avere ragione. La scuola da cui sono uscite persone che si inquietano — o si indignano — al solo sentir parlare di laicità.

Photo by Tolga Ulkan on Unsplash

L’autorità scolastica

E’ diffusa anche a sinistra, presso educatori che si richiamano ad esempio alla tradizione dell’attivismo freinetiano, la convinzione che l’autorità sia una componente inevitabile dell’educazione, e che si tratti piuttosto di esercitarla nei corretti limiti o con la giusta prospettiva. Il corollario di questa convinzione è che una relazione educativa è inevitabilmente una relazione asimmetrica.

Mi pare che si possano distinguere due forme di autorità in campo educativo. La prima è quella che chiamerei autorità personale. E’ un tipo di autorità che posa in primo luogo su atteggiamenti personali: alzare la voce, ad esempio, esprimere comandi, assumere nella relazione, per dirla con Pat Patfoort, la posizione Maggiore, costringendo l’altro nella posizione minore. La seconda è l’autorità burocratica. In questo caso la persona investita di autorità non ha bisogno di ricorrere a modalità relazionali particolari. Esercita la sua autorità attraverso atti burocratici. Non ha bisogno di alzare la voce o battere il pugno sul tavolo. Di fronte a un qualsiasi atto scorretto dello studente, potrà scrivere una nota sul registro. Se l’atto sarà grave, potrà chiedere di convocare il Consiglio di classe, che ai sensi del regolamento prenderà provvedimenti. Tutta la procedura avviene attraverso atti scritti.

Ora, al di là delle apparenze, la seconda forma di autorità è più violenta della prima. Nel primo caso esiste una relazione, anche se asimmetrica. Esiste una possibilità di confronto, e dunque di resistenza. Nel secondo caso la relazione scompare e tutto si sposta sul piano neutro della razionalità burocratica. Nel primo caso c’è una relazione burrascosa, nel secondo una procedura.

Leggi tutto “L’autorità scolastica”