Categoria: Educazione e scuola
L’amicizia educativa
L’educazione è una faccenda di amore. Entrare con qualcuno in una relazione educativa – cosa che non accade soltanto nelle situazioni educative formali: a pensarci bene, anche una relazione sentimentale autentica è una relazione educativa, se si intende l’educazione come co-educazione; e l’amore non finisce forse quando non ci si educa più a vicenda? – vuol dire desiderare ardentemente il suo bene, considerare la sua persona come qualcosa di assolutamente prezioso, fare di quel tu, kantianamente, sempre un fine e mai un mezzo, e vigilarsi costantemente per liberarsi da ogni sentimento negativo che possa nascere nei suoi confronti (perché anche l’amore, come ogni luce, ha le sue ombre).
Se una differenza c’è, tra la relazione sentimentale e le altre forme di relazione educativa, è che nel primo caso c’è un coinvolgimento fisico che negli altri casi manca. Ora, l’amore, tolto il sesso, è amicizia. E la relazione educativa è, appunto, una relazione di amicizia. La più alta.
Pare che educatori e pedagogisti di destra e di sinistra, conservatori e progressisti, siano d’accordo nel disprezzare l’educatore che si pretende amico di suo figlio o del suo studente. E’, dicono, una figura patetica, che rinuncia al suo ruolo nel tentativo di ottenere un riconoscimento ed una soddisfazione tutto sommato narcisistica. C’è una distanza necessaria, assicurano, da tenere nell’educazione; se si annulla questa distanza, pretendendo l’amicizia, si rinuncia semplicemente ad essere educatori.
C’è del vero e del falso, in questa posizione. C’è – è vero – qualcosa di patetico e di ridicolo nell’adulto che scimmiotta l’adolescente, perché è sempre patetico e ridicolo chi cerca di essere quello che non è. Al tempo stesso, c’è della bellezza nella comunicazione tra persone di generazioni diverse, nello scambio culturale, nel confronto non unilaterale ma aperto. Non sempre l’adulto che ascolta la musica degli adolescenti sta cercando di assomigliare a loro; spesso sta semplicemente rifiutandosi di disconfermare l’identità culturale di suo figlio o del suo studente, consapevole che una tale disconferma rende molto difficile qualsiasi dialogo educativo.
Se si pensa il rapporto educativo come un rapporto necessariamente asimmetrico, è evidente che non si può parlare di amicizia educativa, poiché i rapporti di amicizia sono rapporti paritari e simmetrici. Gli amici sono sullo stesso piano; se uno dei due tenta di occupare una posizione di predominio – o la ottiene per un cambiamento di status -, è difficile che l’amicizia continui; certo, non resta la stessa. Ma un rapporto di amicizia non è soltanto simmetrico, è anche dinamico. Quando un’amicizia è autentica, profonda e viva, ha un potere trasformativo. Come gli amanti, gli amici non si limitano a fare cose insieme, a passare del tempo, a divertirsi, ma crescono insieme. Si può considerare la crescita comune come una caratteristica essenziale dell’amicizia, senza la quale essa degenera e diventa qualcosa di inferiore – possiamo parlare, considerando anche le sue implicazioni politiche, di cameratismo.
Afferma Aristotele nell’Etica Nicomachea che esistono tre forme di amicizia. C’è, in primo luogo, l’amicizia fondata sull’utile, che si ha tra persone che “si amano non per se stessi, ma in quanto deriva loro qualche bene all’uno dall’altro” (1156a). Segue l’amicizia fondata sul piacere, vale a dire il legame che unisce persone che sono reciprocamente gradevoli. Queste due forme di amicizia per Aristotele sono accidentali, perché chi è amato non lo è per la sua essenza, per quello che è, ma per l’utile ed il piacere che procura. Il terzo genere di amicizia è quella fondata sulla virtù. E’ il legame che si stabilisce tra persone buone che ricercano la virtù. Questa è per Aristotele l’amicizia perfetta, ed anche la più durevole, perché la virtù non è mutevole come l’utile o il piacere.
Se è vero quello che afferma Spinoza nell’Etica, e cioè che “il bene, che ognuno che persegue la virtù appetisce per sé, lo desidera anche per gli altri uomini” (IV, proposizione 37), allora colui che cerca la virtù è anche colui che è capace della forma più alta di amicizia. Ora, è esattamente questo il profilo dell’educatore. Che non è colui che possiede la virtù e ne rappresenta l’incarnazione più o meno perfetta, ma appunto una persona che si è incamminata verso la virtù: che cerca senza sosta il bene, che si interroga, che si inquieta per la giustizia. Chi è impegnato in questa ricerca desidera che anche gli altri la condividano, ed è questo desiderio che lo porta ad incontrare profondamente gli altri ed a stabilire con loro rapporti di amicizia. Per questa via chi è in cerca del bene è sempre educatore degli altri.
Bisogna notare, tuttavia, una differenza importante tra l’amicizia educativa e l’amicizia così com’è comunemente intesa. Due amici si sono scelti liberamente e continuano a scegliersi ogni giorno, esattamente come due amanti. Il loro legame è fondato sulla stima reciproca, sul fatto che uno avverte nell’altro la presenza di qualità che lo rendono amabile. Questo non sempre accade in una relazione educativa. Può essere che un insegnante si trovi di fronte degli studenti che non hanno alcuna qualità positiva; che gli appaiano, al contrario, chiusi ad ogni ricerca del bene, cinici, arroganti, con atteggiamenti che fanno nascere in lui sentimenti negativi. Che fare? Come potrà amarli, se non sono amabili?
Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.
Educazione e dominio
L’anarchismo è la posizione etica e politica di chi rifiuta ogni forma di dominazione ed assume, se non è già il suo, il punto di vista di chi è vittima di oppressione. Non è una posizione teorica, una filosofia di vita che affermi il valore della libertà o dell’individuo, ma una pratica di liberazione, una lotta per sottrarsi alla presa del dominio e sottrarre tutti coloro che ne sono vittime. Si tratta di qualcosa di più ampio della lotta di classe. L’oppressione dei ricchi sui poveri, dei proprietari dei mezzi di produzione su chi ha solo la propria forza lavoro (di chi deve “vendersi” sul mercato del lavoro) è indubbiamente una delle forme più vistose di dominio; ma non l’unica. C’è dominio ovunque esista una gerarchia, una asimmetria, che comporta sempre una limitazione delle possibilità vitali di chi occupa la posizione inferiore (e, naturalmente, un aumento ingiusto delle possibilità di chi occupa la posizione superiore). C’è dominio nelle relazioni di genere, ovunque la donna venga limitata nelle sue possibilità di espressione o sia ridotta a strumento del piacere maschile. C’è dominio nel mondo culturale, quando culture tradizionali vengono cancellate o deformate dall’imposizione di una cultura altra. In passato, quando la religione era l’aspetto centrale di una cultura, questa imposizione prendeva la forma della conversione religiosa forzata; oggi prende la forma dell’imposizione di una sistema di merci da acquistare e della visione del mondo come un campo di cose da sfruttare ed acquistare.
Il bambino è apertura al mondo
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Cane da caccia. Disegno di Carlo Michelstedter. |
Il bambino incarna una diversità radicale. Gran parte di ciò che comunemente si chiama educazione consiste nell’esorcizzare, limitare, controllare, arginare, incanalare e finalmente spegnere questa diversità. Affinché l’opera riesca occorre che sia tacitamente condivisa la percezione del bambino come non-persona o come persona parziale: occorre, infatti, molta violenza, che sarebbe ingiustificabile ed inaccettabile se al bambino fossero pienamente riconosciuti la dignità ed i diritti di una persona.
Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.
Storia di un bambino andato (quasi) a male

Lo scorso anno Maurizio Parodi, tra gli interpreti più interessanti delle istanze della pedagogia libertaria nel nostro paese, mi ha chiesto di collaborare con un mio contributo ad un libro che stava scrivendo. Si trattava di rispondere alla domanda: Cosa bisogna fare perché i bambini non vadano a male? Ho risposto a questa domanda con un contributo intitolato “Camminare insieme”, che si trova nel libro uscito quest’anno: Gli adulti sono bambini andati a male (Sonda editore).
Se ripenso al mio percorso scolastico, mi pare di potermi riconoscere nella categoria dei “bambini andati a male”. Me lo conferma la rilettura delle mie pagelle scolastiche, che segnano una progressione negativa, da una iniziale quasi perfezione al disastro della scuola secondaria. Il fatto di essere un ex bambino andato a male (che poi si è ripreso per tempo, comunque) è un grande vantaggio per un pedagogista, appunto perché permette di rispondere alla domanda di Parodi con una qualche base di esperienza.
Il mio esordio scolastico è stato esaltante, almeno a giudicare dalla mia prima pagella:
Alunno dotato di una pronta e vivace intelligenza, molto serio e silenzioso prende però parte attiva alla vita della classe e riesce bene in tutte le attività scolastiche nonostante i primi tre mesi di assenza. Costante nel rendimento predilige le attività matematiche e la recitazione.
Intelligente, silenzioso, partecipe: alunno modello. Ero arrivato a scuola con tre mesi di ritardo per via di problemi di salute, gli stessi che mi hanno salvato dalla scuola dell’infanzia. Ma non arrivi in una classe tre mesi dopo senza pagarne le conseguenze. Ricordo poco della prima elementare, più che altro sensazioni: e tra tutte questo senso di estraneità che mi ha accompagnato per tutto il percorso scolastico (fino all’università, direi).
E se il digitale fosse analogico?
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Editoriale per Stato Quotidiano.