Meno di un mese fa, il 28 maggio scorso, il parroco di Decimoputzu (Cagliari), don Massimiliano Pusceddu, ha tenuto una omelia che ha fatto e fa discutere. Ecco la sintesi del suo discorso nel titolo del Fatto quotidiano: “‘Gli omosessuali meritano la morte’. L’omelia del parroco contro le unioni civili”. Parole che indignano: ho letto sui social network commenti di fuoco, e non pochi chiedono che il parroco venga incriminato. Certo, si tratta di hate speech, ed appare ancora meno tollerabile all’indomani della strage di Orlando. Ma c’è un particolare che a molti sfugge: le parole incriminate sono una citazione di San Paolo. Ecco esattamente cosa ha detto il parroco:
Noi abbiamo la Parola di Dio, la Bibbia è la Parola di Dio, no? E allora dalla Parola di Dio dobbiamo partire perché non devono essere parole nostre, ma dobbiamo predicare quello che è scritto qui, questa è la Parola del Signore e che noi siamo chiamati a predicare. Allora cosa dice la Parola di Dio? Voglio leggervi solo un passo della Lettera di San Paolo apostolo ai Romani, perché secondo me questo passo vale più di tante prediche fatte e che si possono fare, ma è un passo molto chiaro per leggere questi tempi che stiamo vivendo oggi, questo passo di San Paolo è un passo profetico. Dalla Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani, siamo al capitolo primo, vi leggo direttamente dal versetto 26: “Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami, infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura, similmente anche i maschi lasciando il rapporto naturale per la femmina si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri commettendo atti ignominiosi, maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la persecuzione dovuta al loro cambiamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata, ed essi hanno commesso azioni indegne. Sono colmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia, pieni di invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità. Diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore e senza misericordia, e pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa”.
Si tratta di un passo iniziale della Lettera ai Romani, un testo fondamentale per il cristianesimo, denso di profondità dottrinale e di spiritualità, fonte di ispirazione per i più raffinati teologi (è appena il caso di ricordare L’Epistola ai Romani di Karl Barth, uno dei capolavori della teologia del Novecento). Ma si tratta anche, come si vede dal testo citato dal parroco, di un testo intriso di violenza, in particolare contro i pagani, di cui parla quel passo. Una violenza verbale che, passato qualche tempo e conquistato il potere, diventerà violenza reale. I pagani sono stati perseguitati dai cristiani con una violenza non inferiore a quella subita dagli stessi cristiani; il loro culto è stato proibito, i templi demoliti con uno zelo non troppo diverso da quello dei fanatici attuali del cosiddetto Stato Islamico. La figura di Ipazia, la filosofa e matematica pagana squartata da una folla cristiana, è il simbolo tragico di queste violenze sulle quali cala ancora un velo pesante e difficile da scostare.
La maldestra omelia del parroco – davvero “l’ultimo dei sacerdoti”, secondo la sua definizione che mi sento di condividere – solleva un problema reale: quello della violenza nella Bibbia. Il prete ha citato San Paolo. Avrebbe potuto citare il Levitico: “Chiunque abbia giaciuto con un uomo come si giace con una donna, hanno compiuto tutti e due un’abominazione; siano messi a morte” (20, 13). E, già che c’era, avrebbe potuto continuare a leggere la Parola di Dio. “Chiunque commetta adulterio con una donna sposata, chiunque commetta adulterio con la donna del suo prossimo, siano messi a morte l’adultero e l’adultera” (20, 8). L’elenco delle persone da mettere a morte è abbastanza lungo: c’è anche chi, preso da incontenibile passione, faccia l’amore con la sua donna mentre lei ha le mestruazioni. Messi a morte entrambi, lui e lei.
Mettere in pratica la Parola di Dio oggi significa riempire le nostre strade e le nostre piazze di lapidazioni: qui un’adultera, lì una strega, lì un quindicenne che ha maledetto suo padre o sua madre (anche per questo è prevista la pena di morte). Non credo che l’ultimo dei sacerdoti voglia davvero questo, né credo che lo vogliano quelli che ascoltavano la sua omelia contro gli omosessuali senza battere ciglio. Come tutti, il parroco usa la Bibbia fin quando gli fa comodo, prende quello che è utile ad alimentare i suoi pregiudizi, le sue fobie, le sue piccinerie, e ignora il resto. I cattolici vivono in questa ambiguità. E’ evidente che la Bibbia dice molte cose inaccettabili. Non parlo di inaccettabilità per la ragione; parlo di inaccettabilità morale. La Parola di Dio, qua e là sublime, qualche volta dice cose che offendono profondamente la nostra sensibilità morale. I cattolici e i cristiani in generale si difendono dicendo che per la sensibilità dell’epoca quelle parole così dure, quelle leggi feroci rappresentavano comunque un progresso. Una giustificazione molto discutibile, per diverse ragioni. Perché il popolo ebraico, guidato da Dio, è talmente rozzo da progredire attraverso l’omicidio, anzi lo sterminio, mentre dall’altra parte del mondo gli indiani, con buddhismo e jainismo, affermano il valore della stessa vita animale? Si prenda Mosè. Nel libro dei Numeri si arrabbia di brutto con i comandanti del suo esercito, che hanno appena sterminato i madianiti, uccidendo tutti gli uomini, bruciando le città, razziando cose ed animali e riducendo in schiavitù le donne e i bambini. Che hanno fatto di male? Non hanno ucciso le donne e i bambini. E sentite Mosè: “Ora uccidete ogni maschio tra i bambini e ogni donna che si sia unita con un uomo. Tutte le ragazze che non si siano unite con un uomo le lascerete vivere per voi” (31, 17). Non è difficile immaginare cosa significasse lasciar vivere per loro le bambine, perché di bambine si tratta. C’è una sola definizione per chi in guerra comanda di massacrare delle donne e dei bambini: criminale di guerra. Ma questo criminale di guerra è, al tempo stesso, l’uomo di Dio che ha guidato il popolo ebraico verso la terra promessa.e il passo dimostra che c’era, in quella situazione, chi aveva una sensibilità morale migliore di quella dell’uomo di Dio, pur nella ferocia. Nessuna pedagogia divina, dunque.
Mi pare che la violenza della Bibbia sia uno dei nodi che il cattolicesimo deve affrontare oggi. Anni fa fece rumore la presa di posizione di Enrico Peyretti, tra i protagonisti dalla nonviolenza italiana e del cattolicesimo di base, che sul Foglio (“Mensile di alcuni cristiani torinesi”) parlò apertamente di dissociazione morale dai passi violenti della Bibbia. Ma fu un rumore – non un vero scandalo – che durò poco, e poi si spense. E il problema resta. La Bibbia è scomoda non solo per la violenza che la abita, ma anche perché rischia facilmente di ritorcersi contro chi la usa per i propri scopi. Prendiamo questo parroco, ultimo dei sacerdoti. Cita la Lettera ai Romani per attaccare gli omosessuali, accomunati agli antichi pagani. Bene. Ma andiamo indietro di qualche riga, nel testo di San Paolo. Leggiamo: “Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili” (1, 22-23). Sono sempre i pagani, colpevoli questa volta di idolatria, di venerare statue invece del Dio vivente. Ora, l’ultimo dei sacerdoti parla avendo alle spalle ben due statue: una madonna con bambino ed un angelo. Molto probabilmente San Paolo, se avesse assistito alla scena, si sarebbe arrabbiato di brutto, ed avrebbe associato il nostro ultimo dei sacerdoti alla brutta genia pagana contro la quale si scaglia. Sfogliamo ancora a ritroso la Bibbia. Prendiamo il Vangelo di Matteo, 23, 1-14:
Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci.
Dunque: non fatevi chiamare maestri, non fatevi chiamare padre. Il nostro parroco di Decimoputzu, pur essendo l’ultimo dei sacerdoti, ha il diritto di essere chiamato don. E don viene da dominus: signore. Per quanto sia l’ultimo, non manca di farsi chiamare signore. Fa parte di una organizzazione nella quale molti si fanno chiamare padre ed il cui capo ha l’appellativo di papa, che vuol dire appunto padre. Una organizzazione i cui rappresentanti più potenti vestono in modo sgargiante, perfino bizzarro, sono molto ricchi e potenti, e reclamano i posti d’onore in tutte le manifestazioni pubbliche. C’è qualcuno davvero così distratto da non accorgersi che è esattamente della Chiesa che sta parlando Gesù in questo passo? Basta davvero il rituale ipocritamente umile della lavanda dei piedi per credere che la Chiesa sia qualcosa di diverso dalla struttura sacerdotale dei farisei? La descrizione è talmente precisa, da inquietare un non credente: si ha l’impressione che quell’uomo sapesse davvero cosa sarebbe successo, quale struttura di potere sarebbe stata edificata sulla sua croce. Ora, se il nostro ultimo dei sacerdoti volesse prendere sul serio la Bibbia, piuttosto che prendersela con gli omosessuali dovrebbe smetterla di farsi chiamare don, togliersi di dosso gli abiti sgargianti che tanto impressionano la gente, uscire da una struttura sacerdotale che pontifica sul bene e sul male ben sicura nel suo benessere economico e nei suoi privilegi, e magari trovarsi un lavoro.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 13 giugno 2016.