Perché l’Ucraina (Ponte alle Grazie, Milano 2022) raccoglie sette interviste a Noam Chomsky, che vanno da 2018 a questi ultimi giorni; una raccolta utile per chiarire il punto di vista sulla crisi di quello che è forse il più autorevole rappresentante della sinistra radicale mondiale. La cui posizione si può racchiudere in due punti: le cause della crisi vanno ricercate nella politica di espansione nell’est Europa della Nato; l’uscita è da cercare in una neutralità dell’Ucraina sul modello dell’Austria con “un certo grado di autonomia per la regione del Donbass”. Poiché Chomsky non è un Orsini qualsiasi, conviene approfondire questa posizione ed evidenziarne i limiti e le contraddizioni. Il filosofo statunitense parte dai tempi della riunificazione della Germania. Allora Bush padre e Gorbačëv si accordarono: il leader russo avrebbe acconsentito, se la Nato si fosse impegnata a non espandersi più ad est della Germania. Chomsky sa bene che si è trattato di nulla più di un accordo verbale, ma questo accordo verbale è un pezzo fondamentale del suo puzzle interpretativo. Un altro pezzo è il fatto che nel 2008 gli USA abbianp invitato l’Ucraina ad aderire alla Nato, “stuzzicando l’orso che dorme”. L’orso, naturalmente, è la Russia. Ma “Germania e Francia opposero il loro veto”, precisa Chomsky. Ora, dal momento che Germania e Francia sono Nato non meno degli USA, affermare che la Nato abbia stuzzicato la Russia è sbagliato: la proposta di includere l’Ucraina è stata respinta proprio per non provocare la Russia. Il terzo pezzo del puzzle di Chomsky è che dietro la rivoluzione arancione ci sono gli USA:
Cercare di far uscire l’Ucraina dalla sfera d’influenza russa – obiettivo dichiarato di quanti si sono entusiasmati per le “rivoluzioni colorate” – è stata una sciocchezza, e anche pericolosa.
A dire il vero qui Chomsky non sta dicendo che l‘Euromaidan è stato manovrato dagli statunitensi; si tiene alla larga dalla sciocchezza del colpo di Stato di un Luciano Canfora. Dice che gli occidentali avrebbero dovuto invece considerare con ostilità lo spostamento degli ucraini al di fuori della sfera d’influenza russa. Dice, cioè, due cose. La prima è che le grandi potenze hanno diritto alle loro sfere d’influenza. Gli Stati Uniti hanno avuto ed hanno le loro, perché mai negare alla Russia la sua? La seconda è che i popoli farebbero bene a quietarsi, accettare questa logica, sottomettersi alla Realpolitik per la pace e il bene di tutti. Che non è proprio il discorso che ti aspetti da un pensatore radicale.
Ma l’ingresso dell’Ucraina nella Nato è poi una prospettiva realistica? Qui Chomsky si contraddice in modo incredibile. L’ingresso dell’Ucraina nella Nato, scrive, “non è un’opzione concreta”. E aggiunge, citando l’analista Anatol Lieven: “L’intera questione dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, in realtà, è puramente teorica, quindi in un certo senso tutta l’argomentazione si fonda sul nulla”. Ora, Chomsky non si accorge che a fondarsi sul nulla è la sua argomentazione. Ritenere che la Russia abbia realmente invaso l’Ucraina per la questione dell’ingresso nella Nato, e ammettere al tempo stesso che l’ingresso nella Nato è sempre stato fuori discussione, significa ammettere che Putin non ha alcuna ragione per invadere l’Ucraina. Oppure riconoscere che quello dell’ingresso della Nato è un evidente pretesto, e che le ragioni sono altre, ascrivibili esclusivamente alla politica di potenza – alla politica fascista – di Putin.
In una intervista più recente, il filosofo si sofferma un documento “che ha avuto scarsa copertura mediatica”: il Joint Statement on the U.S.-Ukraine Strategic Partnership del 1 settembre 2021, che evidentemente gli era sfuggito prima. Documento nel quale, afferma, “si dichiara con forza che le porte dell’adesione dell’Ucraina alla Nato sono aperte”. “Questa dichiarazione – scrive – è l’ennesimo atto mirato per colpire l’orso in piena faccia”. Ennesimo. Non si accorge, e la cosa è davvero singolare in un intellettuale così attento, del richiamo nel preambolo a un documento fondamentale, che sembra ignorare del tutto: il Memorandum di Budapest del 1994. Con il quale la Russia, insieme alla Gran Bretagna, all’Irlanda del Nord e agli Stati Uniti, si è impegnata a non aggredire l’Ucraina, a rispettarne i confini, l’indipendenza e la sovranità, a non esercitare alcuna forma di controllo economico e a convocare immediatamente il Consiglio di sicurezza dell’ONU nel caso in cui l’Ucraina fosse minacciata di aggressione nucleare. Non un accordo verbale. Un impegno messo nero su bianco, che la Russia non ha rispettato. L’orso russo ha preso tutte le armi nucleari all’Ucraina, impegnandosi non solo a non aggredirla, ma anche a difenderla in caso di aggressione. E impegnandosi ad evitare qualunque coercizione economica ha negato esplicitamente qualunque diritto ad una sfera d’influenza.
Ritenere, come fa Chomsky, che sia stata questa Dichiarazione congiunta a spingere Putin ad ammassare le truppe sul confine ucraino e quindi ad invaderlo significa confondere la causa con l’effetto. La politica aggressiva e intimidatoria della Russia nei confronti dell’Ucraina è la premessa e la giustificazione geopolitica di quel documento; esattamente come oggi è la premessa della richiesta di ingresso nella Nato della Finlandia e Svezia, due paesi che, se non minacciati, mai avrebbero avanzato una richiesta simile.
Alla luce del mancato rispetto del Memorandum di Budapest si può anche valutare la praticabilità della proposta di un’Ucraina neutrale. Al di là del fatto che spetta agli ucraini decidere se vogliono essere neutrali – così come spetta loro decidere se vogliono far parte della Nato –, c’è da chiedersi quanto sia garantita la sicurezza di un paese neutrale con un vicino aggressivo, potente, guidato da un leader fascista, che ha dimostrato di non rispettare gli impegni internazionali.
Chomsky ha ben chiare le gravi responsabilità di Putin:
…l’invasione russa dell’Ucraina è un grave crimine di guerra, al pari dell’invasione statunitense dell’Iraq e di quella di Hitler-Stalin della Polonia nel settembre del 1939, giusto per fare due esempi emblematici. È sempre opportuno ricercare delle spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti.
Meglio sarebbe stato se si fosse fermato qui. L’invasione dell’Ucraina è un atto criminale. E non ci sono giustificazioni. E invece finisce per cercare giustificazioni e attenuanti. Tutto l’impianto argomentativo di Chomsky è emblematico della crisi degli intellettuali di sinistra di fronte a un imperialismo di nuovo genere. Dopo aver condannato per anni, e giustamente, la politica di potenza degli Stati Uniti, ora Chomsky ricorre a quella stessa politica di potenza per aggiungere una costellazione di se e ma alla sua condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, finendo per considerare più le ragioni presunte dell’orso che quelle della vittima dell’orso, che nella sua analisi semplicemente scompare: perché gli pare scontato che l’Ucraina e gli ucraini siano solo pedine di un gioco che li trascende e non soggetti storici con il diritto di autodeterminazione. E questo, in un pensatore radicale, è un cedimento piuttosto grave.