Sfuggire a Dio

Sfuggire a Dio, affermare la propria umanità, la propria fragilità a costo di mandare all’aria il piano divino, è una tentazione che attraversa tutta la Bibbia. Il profeta che cerca di non essere profeta è Giona, che Dio vorrebbe mandare a Ninive a profetizzare sventura, e che invece fugge su una nave per Tarsis. Finisce che la tempesta travolge la nave, e per placarla i marinai gettano in mare il profeta riluttante. Lo inghiottirà una balena, riportandolo sulla spiaggia e riconsegnandolo a Dio – ed alla sua missione.
Cerca di sfuggire a Dio, con la forza della ragione e della giustizia, Giobbe, uomo di fede esemplare, che per una scommessa tra Dio e l’ha-Shatan ha perso tutti i suoi beni ed i suo affetti. Si avverte fragile, in balia di un potere immenso che lo scruta (“Perché non cessi di spiarmi / e non mi lasci nemmeno inghiottire la saliva?: 7, 19), ma pure tenta di resistere ribadendo la propria innocenza. Inutilmente: Dio non si lascia imbrigliare dalle ragioni umane.
Cerca di sfuggire a Dio lo stesso Figlio, sul monte degli ulivi. “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice”. Ma aggiunge: “Tuttavia non sia fatta la mia volontà, ma la tua” (Luca, 22, 42).
La volontà di Dio viene prima di quella dell’uomo: ed a Dio non si può sfuggire. E’ questo il messaggio che attraversa tutta la Bibbia. A Dio si è legati fino al sacrificio; e la volontà, la stessa fragilità umana non contano nulla. Del resto, Dio non è in grado di soccorrere quella fragilità?

Alla luce di queste considerazioni, le dimissioni di papa Benedetto XVI possono realmente avere una portata rivoluzionaria. Commentando l’episodio evangelico del monte degli ulivi un anno prima delle sue dimissioni, aveva affermato:
E questo è importante anche nella nostra preghiera: dobbiamo imparare ad affidarci di più alla Provvidenza divina, chiedere a Dio la forza di uscire da noi stessi per rinnovargli il nostro “sì”, per ripetergli “sia fatta la tua volontà”, per conformare la nostra volontà alla sua. (1)
Dimettersi per via dell’età avanzata e della stanchezza vuol dire, esattamente, affermare la propria fragilità contro la Provvidenza, rinunciare ad uscire da sé stessi e ad affidarsi a Dio. E’ una scelta umanissima: troppo umana, per dirla con Nietzsche. Ed è in questo il suo valore storico. Il papa, di cui si è voluta affermare l’infallibilità, è in realtà un essere umano fragile come tutti. Quello che la Chiesa considera il rappresentante di Dio sulla terra è un vecchio appesantito dagli anni; e la Provvidenza non basta a sorreggerlo. Ratzinger ci ha risparmiato – e di questo dobbiamo essergli grati – la sacra rappresentazione della sofferenza di papa Giovanni Paolo II. Sofferenza che, per i fedeli, era appunto una offerta a Dio, a quel Dio cui non si può sfuggire, perché non ci lascia nemmeno inghiottire la saliva – e morire in pace. Ratzinger ha scelto di morire in pace, senza il peso dei paramenti e della missione. Come Giona, si è imbarcato per Tarsis. 
La papolatria, l’esaltazione isterica del capo, che ha raggiunto il suo apice con il pontificato di Giovanni Paolo II ed con i suoi raduni oceanici, è uno dei mali più seri della Chiesa cattolica ed il principale ostacolo al processo di apertura e democratizzazione (per quanto si possa parlare di democratizzazione per una istituzione come la Chiesa) avviato con il Vaticano II. Le dimissioni di Benedetto XVI dimostrano che il male non è incurabile e che forse la Chiesa può fare il passo epocale che va dal pontificare al discutere, dall’anatema all’ascolto. 

(1) Udienza generale del 1 febbraio 2012 (qui). 

Marcello Bernardi e la pornocrazia

Marcello Bernardi

Ne La maleducazione sessuale di Marcello Bernardi si trova una analisi esemplare per limpidezza dei rapporti tra sesso e potere. Il sesso, sostiene l’anarchico Bernardi, è ciò che manda in crisi il potere, poiché è per essenza l’esatto contrario di ogni forma di sopraffazione, si sottomissione, di odio, di discriminazione. Da sempre il potere si esercita operando la rimozione del sesso, attraverso il senso di colpa e l’educazione repressiva. Il buon cittadino borghese investe le energie sessuali rimosse nel lavoro e il particolare nel denaro, il vero surrogato del sesso. Nella società borghese l’individuo è chiamato a sublimare le pulsioni sessuali e ad investirli in campi compatibili con l’economia capitalistica e il suo bisogno di produzione continua di beni.

Pare che poche tesi possano essere meno attuali di questa. La società in cui ci troviamo sembra sconfessare in modo radicale la tesi di Bernardi. Lungi dall’essere rimosso, il sesso è oggi onnipresente – richiamato sulle copertine delle riviste, nella pubblicità, negli spettacoli televisivi eccetera. Soprattutto, il contrasto tra sesso e potere sembra superato da quella forma di potere che è il berlusconismo. Berlusconi è un leader politico ossessionato dal sesso, che vanta pubblicamente le sue virtù erotiche e celebra festini con decine di ragazze disposte a favori sessuali, senza preoccuparsi troppo della possibilità dello scandalo. Scrive Wu Ming 1 (Roberto Bui):

Naturalmente, Berlusconi è solo la più avanzata antropomorfizzazione di una generale tendenza al godimento distruttivo. Oggigiorno il capitale/Super-ego ci dà un ordine preciso: “Godi!”. Non sto dicendo nulla di nuovo, è una situazione ben nota (1).

Lungi dall’essere un atto rivoluzionario, il sesso si inserisce invece pienamente nel sistema consumistico-capitalistico. Il soggetto-suddito-consumatore dev’essere un soggetto desiderante, che non segue il principio di realtà, ma quello di piacere: voglio, voglio ora, dunque acquisto. E da questo punto di vista esaltare le pulsioni sessuali sembra il modo migliore per garantire il mantenimento del sistema.

Ma c’è dell’altro, in Bernardi. Il suo libro è del ’77. Il berlusconismo era lontano, ma la società dei consumi aveva già qualche anno: quanto bastava per fare emergere la riconduzione dello stesso sesso al sistema dei consumi. Analizzando la mercificazione del sesso, Bernardi sostiene che essa risponde a due esigenze del potere: quella di “assorbire la contestazione sessuale e utilizzarla ai propri fini” e quelle di “coprire lo spazio lasciato libero dal lavoro mediante accorgimenti che permettano un incessante controllo sull’individuo” (2). Il sesso mercificato non ha più alcun valore eversivo, rientra pienamente nelle logiche di mercato e consente anzi ottimi affari; l’industria del sesso invade il tempo libero, tende ad occupare tutti gli spazi liberi, proponendosi quale “surrogato a un autentico esercizio della sessualità e come compensazione al lavoro alienato che la opprime” (3). Naturalmente non c’è, più, alcuna autentica liberazione sessuale. Il sesso è ovunque, ed i moralisti fingono di indignarsene. Sanno bene, in realtà, che questo sesso onnipresente è un sesso addomesticato. Non sorprende, così, che i conservatori siano in genere favorevoli alla prostituzione, quale “strumento di detensione sessuale” (4). 
Ma se le cose stanno così, quale sessualità è oggi eversiva? Non c’è ancora del moralismo nel distinguere una sessualità sana ed eversiva da una sessualità mercificata e asservita al potere?
C’è un aspetto della sessualità che sembra sfuggire a Barnardi. Il sesso sta a metà tra l’amore e l’odio, e può legarsi all’uno o all’altro. L’atto sessuale può essere celebrazione del corpo dell’altro, ma può essere anche una pratica di degradazione, di umiliazione, di sottomissione dell’altro. In altri termini, il sesso non è solo asservito al potere, ma può essere esso stesso una pratica di potere, o meglio di dominio (5). Quanto più è diffuso, in una società, il dominio, tanto più in quella società sarà diffuso il sesso non come merce, ma come esercizio di dominio (le due cose possono stare insieme oppure no); in particolare come dominio dell’uomo sulla donna. Di qui l’umiliazione costante e pubblica del corpo femminile, di qui la pornocrazia berlusconiana – e di qui, anche, il femminicidio, come conseguenza tanto tragica quanto logica di pratiche continue di  degradazione e di sottomissione. E’ eversiva, allora, ogni sessualità che sfugga al dominio. Il sesso come potere, vale a dire come godimento reciproco, piacere che non costa nulla, che non compra nulla, che si alimenta di sé e di nulla ha bisogno, resta eversivo. Chi fa l’amore, e lo fa con gioia e rispetto, esce dal sistema dei consumi: può essere felice anche senza possedere nulla. Particolarmente eversiva, poi, è la sessualità omosessuale, perché al di fuori degli schemi del dominio, della contrapposizione tra maschile e femminile. Il dominio si presenta come il maschile che domina il femminile e si alimenta di una sessualità brutale, umiliante, senza amore: la sessualità berlusconiana. I moralisti, che guardano di buon occhio la prostituzione come sfogo, alzano i toni invece quando si tratta di omosessualità. Ed il loro principale argomento è che la sessualità omosessuale è non produttiva: non genera, dunque non serve alla società. Hanno ragione: la sessualità è tanto più eversiva quanto più è lontana dalla logica produttivistica della società del dominio. L’immagine del capo che sottomette sessualmente più donne è una icona del dominio, che attira proprio perché vi si scorge confusamente qualcosa di decisivo: è un significante il cui significato è il sistema stesso, la logica che lo attraversa e lo sostiene. Per questo l’omosessualità oggi in Italia ha un significato che va al di là del costume sessuale ed assume una valenza politica, quale contestazione del dominio e della sua espressione più eclatante: la sottomissione del femminile al maschile. 

(1) Wu Ming 1, Note sul “Potere Pappone” in Italia, 1a parte: Berlusconi non è il padre.
(2) M. Bernardi, La maleducazione sessuale, Emme Edizioni, Milan 1977, p. 142.
(3) Ivi, p. 143.
(4) Ivi, p. 145.
(5) La distinzione tra potere e dominio si trova in Danilo Dolci. Potere è l’esercizio delle proprie possibilità vitali, che non contrasta ma si concilia con l’esercizio delle possibilità di altri. Il dominio al contrario è un esercizio delle proprio possibilità che si alimenta della impossibilità di altri: al dominatore è possibile ciò che agli altri non è possibile. Il potere è simmetrico ed orizzontale, il dominio asimmetrico e gerarchico. Per un approfondimento rimando al mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, Edizioni del Rosone, Foggia 2012.



Genuflessioni

Il Cortile dei Gentili è una iniziativa voluta da Benedetto XVI per favorire l’incontro ed il dialogo tra credenti ed atei ed organizzata annualmente da monsignor Gianfranco Ravasi. Gran cosa, si direbbe, ché il dialogo tra credenti ed atei è ciò che più manca alla nostra vita pubblica. Ma il dialogo, per essere autentico, esige schiettezza, durezza anche; è tale solo se le differenze non vengono nascoste per trovare un’armonia fittizia, un falso consenso. E’ una cosa rischiosa, che può fallire in ogni momento: se è autentico. Diverso è un garbato scambio di gentilezze e di riconoscimento, che non tocca nessuno dei temi reali. Tale è il Cortile dei Gentili.
A dialogare all’ultima edizione dell’iniziativa sono stati, ad Assisi, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e monsignor Ravasi (il dialogo è pubblicato dal Corriere della Sera con il titolo Il Dio ignoto). Uno scambio intellettualmente e teologicamente modesto. Come da copione, Napolitano richiama le figure di alcuni grandi politici ed intellettuali laici (Leopoldo Elia, Togliatti, Concetto Marchesi, l’immancabile Bobbio) per mostrare che non erano chiusi al mistero ed al sacro. Poi cita Thomas Mann che parla del suo incontro con Pio XII:

Il non credente ed erede della cultura protestante piegò senza alcuna difficoltà interiore il ginocchio davanti a Pio XII e baciò l’anello del Pescatore, poiché non era a un uomo e politico che io mi genuflettevo, bensì a un idolo candido, il quale, circondato dal più austero cerimoniale sacro e aulico, impersonava con mitezza un poco sofferente due millenni di storia occidentale.

Ecco a cosa si riduce, in sostanza, il dialogo: una cultura che si genuflette ad un’altra, un presidente della Repubblica che, evocando uno scrittore, piega idealmente le ginocchia di fronte al papa, che impersona duemila anni di storia occidentale (e poco importa che siano duemila anni di violenze).
Quanto a Ravasi, parla di morale. Deplora la decadenza morale attuale, il fatto che abbiamo contratto la malattia dell’amoralità, “la totale indifferenza verso tutti e verso tutto, condita da dosi industriali di superficialità e banalità” e chiude ricordando il protagonista de L’impostura di Bernanos, un prete diventato ateo ed in cui non c’è più solo assenza di valori, ma “soltanto il vuoto, il nulla”. E’ appena il caso di notare che non è possibile alcun dialogo con qualcuno che si crede incarni il nulla. L’ateo compiuto, sicuro di sé, è una brutta faccenda, uno da cui bisogna stare alla larga. Torna utile, e comodo, l’ateo perplesso, quello che ha qualche dubbio o qualche apertura nostalgica. Meglio se è famoso ed è in punto di morte: gli si potrà sempre strappare qualche conversione in extremis, o qualche affermazione da manipolare ad arte.
Ma torniamo alla morale. Uno spiraglio sulla concezione della morale di Ravasi ce lo offre una osservazione che fa di sfruggita, citando Oscar Wilde:

A questo proposito cito spesso una frase di Oscar Wilde, scrittore inglese nato a Dublino, dal profilo morale un po’ discutibile…

Perché il profilo morale di Wilde è discutibile? Ha ucciso? Ha rubato? Ha fatto del male a qualcuno? Nulla di tutto questo. Era semplicemente omosessuale, “colpa” che ha espiato con il carcere ed i lavori forzati. Eccola qui la morale di Ravasi e della Chiesa cattolica. Uno sterile moralismo ossessionato dal sesso e spaventato dalla diversità,  con il quale chiunque sia autenticamente laico – non un laico da cerimonia e da genuflessione rituale – ha enormi difficoltà a dialogare.

Fenomenologia dell’intellettuale di destra

Lo scorso dicembre lo Stato italiano ha raggiunto con l’Unione Buddhista Italiana e l’Unione Induista Italiana una intesa che comporta la piena libertà di culto e, tra l’altro, la possibilità di riscuotere l’otto per mille. Si tratta, con ogni evidenza, di un provvedimento per il quale bisognerebbe rallegrarsi indipendentemente dalle proprie convinzioni religiose o irreligiose, poiché dà sostanza a quel principio di libertà religiosa affermato dall’articolo 19 della nostra Costituzione, senza il quale non può darsi autentica democrazia.
Ma non tutti la pensano così. Commentando la notizia in un articolo sul Giornale intitolato La mutua passa pure Buddha e Visnù, Marcello Veneziani scrive:

Mille cose urgenti e importanti il Parlamento non è riuscito ad approvare. In compenso è riuscito a varare in extremis, e oggi entra in vigore, il riconoscimento di Stato del buddismo e dell’induismo.
Sarà riconosciuto il loro culto, sorgerà una pagoda a Roma, saranno ammesse le loro festività e soprattutto potranno ottenere l’otto per mille.
Ha vinto la laicità dello Stato, esultano; cattolici, fate la fila come gli altri. Però due tradizioni così antiche e maestose che predicano il distacco dal mondo e reputano la realtà un’illusione, che se ne fanno del nullaosta del piccolo e storto Stato italiano? Volete Buddha col sussidio statale e il certificato di Visnù rilasciato dal Comune?
Capisco le religioni più legate alla storia e fiorite in Occidente, come il cristianesimo e l’ebraismo; ma il buddismo e l’induismo sono vie metafisiche, c’entrano con l’eterno, non con l’erario. Dopo la Dc avremo Democrazia Buddista e Rifondazione Bramina?
Buddisti e induisti sono poche migliaia in Italia; tanti lo sono da diporto, ovvero per esotismo o terapia antistress, perché praticano lo yoga, amano i ristoranti cinesi e i buddha bar, fanno massaggi ayurvedici, agopuntura e bevono tisana. Lo Stato firma con loro un’intesa e non invece con gli islamici che in Italia sono tanti, forse troppi, e sono davvero praticanti, anche troppo, e non vaghi appassionati di narghilè e kebab.
Libertà di culto, certo, ma non supermarket delle fedi e religioni passate dalla mutua. Non rovinate Buddha con le buddanate.

Proviamo a rispondere punto per punto a Veneziani.
– Perché mai l’attuazione di un principio costituzionale – attuazione che attende da anni – non dovrebbe essere “urgente e importante”?
– Perché mai i cattolici non dovrebbero “fare la fila come gli altri”? Democrazia è quel sistema in cui tutti hanno diritti, indipendentemente dal fatto di essere maggioranza o minoranza; tutti fanno la stessa fila.
– Tutte le religioni predicano il distacco dal mondo e dal denaro; anche il cristianesimo. Eppure i cattolici chiedono soldi allo stato: ed anche molti soldi.
– Solo un ignorante può dire che il Buddhismo è una via metafisica.
– Quanti sono i cattolici “da diporto”? La stragrande maggioranza dei cattolici sono tali solo per il battesimo, ma in realtà non seguono nessuna religione.
Non occorre essere particolarmente sagaci né preparati per rispondere punto per punto ad un articolo del genere; potrebbe farlo anche un ragazzino. E dunque viene da chiedersi: come mai? Perché Veneziani usa argomenti così scandenti, che è così facile smontare? Veneziani non è, come si potrebbe pensare leggendo quell’articolo, un idiota. E’ uno dei maggiori intellettuali di destra del nostro paese. Perché allora scrive sciocchezze?
La risposta è che scrive sciocchezze proprio perché è un intellettuale di destra. Quell’articolo è un ottimo esempio di articolo di destra: basta aprire un qualsiasi giornale di destra per trovarne decine di altri esempi. Ad accomunarli sono l’uso di argomenti grossolani, il ricorso alla ridicolizzazione, l’imprecisione, una certa sciatteria di fondo. Perché? Per quel certo disprezzo della ragione che è proprio della destra. Perché presentare argomenti seri vuol dire entrare in una discussione: e riconoscere l’interlocutore. Potete immaginarvi l’intellettuale di destra come uno che, in un salotto, se ne sta in un angolo a sorseggiare del whisky e ridacchiando fa battute. Se qualcuno lo prendesse sul serio e rispondesse alle sue battute con argomenti, dimostrerebbe di non aver capito nulla. Ed otterrebbe solo altre battute, altro sarcasmo, altre palesi assurdità.
E’ appena il caso di notare che il diffondersi di questo stile è un pericolo per la democrazia. La democrazia esige la discussione pubblica dei problemi. Compito degli intellettuali – e dei giornalisti – è quello di favorire questa discussione pubblica presentando dati ed argomenti, il più possibile comprensibili e verificabili. Dati ed argomenti che saranno diversi, opposti anche, ma inseriti in una cornice comune, che è quella della ragione, e che comprende alcune semplici regole riguardanti la discussione. L’intellettuale di destra si sottrae a questa cornice comune. Rifiuta la ragione, rifiuta le regole dell’argomentazione. Ha un talento particolare per squalificare la comunicazione, ricorrendo a quelle strategia analizzate da Watzlawick ed altri nella Pragmatica della comunicazione umana: contraddirsi, dire cose palesemente insensate, rispondere in modo vago eccetera. In quello che scrive, l’atteggiamento fa aggio sull’argomento. Non gli importa spiegare perché i buddhisti e gli hinduisti gli sono antipatici e non vuole che abbiano gli stessi diritti dei cattolici. Non deve argomentare sul serio. Importa solo dire l’antipatia – e torna utile la ridicolizzazione. Del resto, diceva Giuseppe Rensi (uno dei primissimi teorici del fascismo), il prevalere di un argomento sull’altro non è legato alla forza della ragione, ma alla forza bruta. Tanto vale rinunciare del tutto ad argomentare.

Panikkar e Capitini

Raimon Panikkar

Per Panikkar, l’essere è quello che è, e non c’è nulla da dire. Non esiste un altro essere, in base al quale criticare questo essere. “Ciò che deve essere è, dunque, subordinato a ciò che è” (1). Questo essere che è come deve essere è qualcosa che trascende le distinzioni ordinarie di bene e male. E tuttavia fonda la pace. Pace è “un benessere (star bene) nell’Essere” (2).

Per Capitini vale l’esatto contrario. L’essere non è bene, perché è attraversato dalla violenza. L’essere può e dev’essere giudicato. In base a cosa? Il base a questo-ente-qui ed all’amore che provo per lui. L’essere è ciò che travolge i singoli enti; ma l’amore mi dice che questo-ente-qui, che amo, ha un valore assoluto. Dunque l’essere distrugge il valore: e come tale è male. Il bene non sta dalla parte dell’essere, ma in un altro essere, in un contro-essere (e contro-Dio): la compresenza.
In Panikkar abbiamo una fondazione metafisica dell’etica (e della politica): la percezione dell’essere precede la prassi. In Capitini abbiamo una fondazione etica (e politica) della metafisica: la prassi apre e rende possibile una diversa percezione dell’essere.
Panikkar considera violenta una concezione escatologica:
Un Dio unicamente trascendente, un Dio situato solo alla fine della storia, del tempo o dell’universo, è stato, per lo più, il Dio belligerante di molte religioni, nonostante le proteste dei mistici e le sottigliezze dei filosofi. Questo Dio escatologico, che accoglie solo i pochi vincitori che sono giunti alla meta, non è un Dio di pace, ma di guerra. (3)
Per Capitini, l’escatologia è aspetto irrinunciabile di una metafisica pratica della nonviolenza. L’essere, che è violento, sarà vinto e piegato dal bene; il bene è più forte dell’essere, e  giungerà a trasfigurarlo. Ma questo momento finale non sarà il momento in cui pochi si salvano. Per  Capitini la salvezza sarà di tutti, o non sarà autentica salvezza: ed è questo uno dei punti fondamentali della sua critica alla Chiesa cattolica.
Panikkar e Capitini sono concordi nella critica alla trascendenza. Per Panikkar Dio “non è solo alla fine né solo al principio, ma in tutti i in ciascuno dei momenti del fluire temporale” ed è “immanente a tutto e a tutto trascendente” (4). Per Capitini, Dio è assolutamente immanente. Egli sta nell’intimo, ma in un’intimo che si apre: è lì dove io amo infinitamente (e Dio è in questo avverbio) un tu – che può essere un altro essere umano, un animale o una pianta. Pensare Dio come trascendente è la via per fondare tutte le autorità terrene: è la via del potere, non dell’amore.
Panikkar e Capitini parlano un linguaggio comune quando si tratta di prassi politica. Per Capitini ogni tu (anche il nemico) va amato di amore infinito, ma un’attenzione particolare va agli esclusi, agli emarginati, ai malati, ai folli: a tutti coloro che sono al margine della vita (e, infine, a coloro che ne sono esclusi: i morti). Per Panikkar c’è una opzione fondamentale per i poveri, per i sofferenti e gli oppressi, che giustifica come una protesta contro una cosmologia evoluzionista, che comporta una certa selezione naturale, lasciando indietro i più deboli. Ma questa opzione, che ha anche “un significato cosmico-storico”, non è solo alternativa ad una interpretazione politico-filosofica dell’essere e della sua vicenda: “L’opzione per i poveri equivale alla ribellione dell’uomo di fronte a tutte le forze cieche della natura e della storia” (5). Capitini avrebbe sottoscritto ogni parola. Ma: le forze cieche non fanno parte dell’essere? Non sono essere? In base a cosa giudicare cieche, dal punto di vista di Panikkar, le forze della natura se, come dice, noi non conosciamo che questa natura? Parlare di forze cieche della natura non vuol dire contrapporre un dover essere all’essere?
(1) R. Panikkar, Pace e disarmo culturale, tr. it., Rizzoli, Milano 2003, p. 36.
(2) Ivi, p. 119.
(3) Ivi, p. 139.
(4) Ibidem.
(5) Ivi, p. 141.

Ramakrishna e il medico

Ramakrishna

Nell’ottobre del 1885 Ramakrishna è a letto, tormentato (per quanto può esserlo un santo, s’intende) dalla malattia – un cancro alla gola – che l’anno seguente lo condurrà alla morte. Circondato dalle premure dei discepoli, è affidato alle cure del dottor Mahendralal Sarkar, un luminare dell’omeopatia fondatore della Indian Association for the Cultivation of Science. Il medico non riesce a nascondere un certo fastidio per l’adorazione che i suoi discepoli hanno per Ramakrishna. Rivolto a uno di loro, afferma: “Fate qualsiasi cosa, ma vi prego di non adorarLo come Dio. Facendo così, voi state semplicemente rovinando questo sant’uomo!”. Ed al discepolo che risponde che no, per lui è impossibile non adorare chi gli ha permesso di sfuggire allo scetticismo, replica:

Io sostengo che tutti gli uomini sono uguali. Una volta ci portarono da curare il figlio di un droghiere. Le sue budella evacuavano. Tutti si tapparono il naso con la parte terminale dei loro vestiti, ma io non lo feci. Sedetti con il bambino per mezz’ora. Non metto la pezza al naso neanche quando lo spazzino mi passa vicino con le ceste sulla testa. No, questo per me è impossibile. Lo spazzino non è affatto meno umano di quanto non lo sia io; perché dovrei guardarlo dall’alto in basso? Per quanto riguarda questo sant’uomo, pensate che io possa salutare e baciare la polvere dei suoi piedi? Guardate. (Il dottore saluta e bacia la polvere dei piedi del Maestro). (1)
Parlando così, il dottore (al quale non mancava una certa rude franchezza) probabilmente ripensava ad un apologo che aveva ascoltato dallo stesso santo per condannare l’egoismo e la vanità: una spazzina che lavorava al tempio di Dakshineswar si era montata la testa per qualche gioiello che possedeva, ed era giunta perfino a  dire alla gente che intralciava il suo lavoro: “Ehi gente! Toglietevi di mezzo!” (2). La cosa fa ridere il santo, poco sensibile alle riforme sociali; molto meno il medico. Sono, si direbbe, due anime dell’India contemporanea che si scontrano: quella tradizionale, che cerca la liberazione e l’Assoluto, e quella, condizionata dall’Occidente, che si preoccupa dell’immanenza e del progresso.
Abbiamo lasciato il medico intento a baciare i piedi del santo. Il discepolo non fa in tempo a rallegrarsene, che il medico continua:
Sembra che pensiate che salutare i piedi di una persona sia qualcosa di meraviglioso! Non capite che io posso fare la stessa cosa a tutti. (A una persona sedutagli civino) Ora, signore, permettetemi di salutare i vostri piedi. (A un altro) Ed ora a voi, signore. (A un terzo) E a voi, signore. (Il dottore saluta i piedi di molti). (3)
A ben vedere, non si tratta in realtà della contrapposizione tra fede laica nella scienza e nel progresso e fede come unione con l’Assoluto. Il dottor Sarkar è probabilmente più vicino a Ramakrishna dei suoi discepoli. L’insegnamento fondamentale di Ramakrishna è che Dio è in tutto, Dio è tutto. “Io vedo che tutto ciò che è, è Dio. Quindi a che serve ragionare su di Lui? Di fatto io vedo che tutto ciò che è, è Dio” (4). Se le cose stanno così, allora non è privo di senso soltanto ragionare su Dio; è privo di senso anche venerare un santo come un Dio – come se non fosse Dio chiunque. E’ santo, è Dio anche lo spazzino che passa con la cesta sulla testa; è santa, è Dio anche la spazzina vanitosa di cui Ramakrishna ride. Gandhi, che chiamava harijan (figli di Dio) i paria, lo ha compreso.
(1) Maestro Mahasaya, Il Vangelo di Sri Ramakrishna, tr. it., Edizioni Vidyananda, Assisi 1993, p. 227.
(2) Ivi, p. 222.
(3) Ivi, p. 228.
(4) Ivi, p. 193.