Un razzista a 5 stelle*

Alcuni militanti del Movimento 5 Stelle di Foggia hanno denunciato, con un video, le disastrose condizioni igieniche del campo Rom di Arpinova, nel quale vivono anche otto famiglie foggiane.
In seguito alla denuncia, il sindaco ha annunciato sulla sua pagina Facebook un intervento di pulizia straordinaria:

Come era prevedibile, in una città in cui razzismo ha solide basi, si scatena la protesta dei bravi cittadini per quei soldi impiegati per i Rom, mentre ci sono ben altre priorità.
Tra gli altri, si distingue questo tizio:

Ora, per chi avrà votato questo soggetto? Ipotizzo:


A quanto pare ci ho preso:
Lo scambio seguente tra Vincenzo Rizzi, attivista del Movimento 5 Stelle da tempo impegnato nella difesa dell’ambiente, è piuttosto istruttivo:
Sono ben lontano dal ritenere che il Movimento 5 Stelle sia un movimento razzista; ma non è nemmeno, come sostiene Vincenzo Rizzi, un movimento apertamente antirazzista. E’ un movimento che sul tema dei diritti civili non ha preso posizioni chiare ed inequivocabili. Negli scritti di Grillo e Casaleggio si trovano spunti apprezzabili, ad esempio sulla condizione carceraria, ma al riguardo il programma del Movimento 5 Stelle è reticente. Grillo e Casaleggio hanno voluto che il loro movimento fosse post-ideologico, al di dà delle distinzioni tradizionali tra destra e sinistra (se un’ideologia c’è, è un’ideologia procedurale: l’ideologia della Rete come luogo e strumento della democrazia diretta). Ciò ha consentito al M5S di prendere voti tanto dai delusi dalla sinistra, quanto da destra. La conseguenza è questa: un movimento che ha imbarcato gente come questo razzista che vuole cacciare i Rom. Adesso mi pare che il movimento non abbia che due vie: o prendere posizione netta sui temi dei diritti civili, e perdere l’appoggio di razzisti ed altra gente di destra (chi è razzista in genere è anche poco sensibile, diciamo così, ai diritti dei detenuti, eccetera), oppure fare una politica che, per evitare la scissione e la perdita di consenso, risulterà inevitabilmente bloccata su un gran numero di questioni di importanza cruciale per la nostra democrazia.
* Il titolo iniziale di questo post era Razzisti a 5 stelle. L’ho modificato perché fuorviante: non sostengo affatto che il Movimento 5 Stelle sia un movimento razzista, ma che abbia imbarcato alcuni razzisti.

Thay

Thich Nhat Hanh con Martin Luther King
“In qualità di Premio Nobel per la Pace per l’anno 1964, ho il piacere di proporvi il nome di Thich Nhat Hanh per il premio del 1967. Non conosco personalmente nessuno che sia maggiormente meritevole del Premio Nobel per la Pace di questo gentile monaco buddhista del Vietnam”.
Così scrive il 24 gennaio 1967, in una lettera indirizzata al comitato per il Premio Nobel, Martin Luther King, il leader nonviolento dei diritti civili, che sarà ucciso a Memphis l’anno successivo. La proposta non fu accolta: nel 1967 il premio Nobel per la pace non è stato assegnato propri a causa della guerra in Vietnam. Oggi, a distanza di più di quarantacinque anni, la proposta viene ripresa da diversi gruppi in rete, che raccolgono firme per una petizione all’Istituto Nobel.
Ma chi è Thich Nhat Hanh? Un monaco minuto, dai modi estremamente gentili, che riesce con la sua sola presenza a trasmettere un senso di pace e di nobiltà spirituale. Non bisogna lasciarsi tuttavia ingannare dalla semplicità dei modi e dalla modestia della persona: quel piccolo monaco è anche una delle menti migliori del buddhismo contemporaneo, un filosofo che è riuscito a ripensare la millenaria tradizione di pensiero del dharma adattandolo alle esigenze del mondo attuale, un poeta sensibile, un delicato calligrafo. E’, soprattutto, l’uomo capace di attraversare la frontiera per andare a parlare con il nemico, ed insegnargli che non esistono nemici. Durante la guerra nel suo paese Nhat Hanh (semplicemente Thay, maestro, per i suoi discepoli) ha creato la School of Youth Social Service, una rete di attivisti nonviolenti dediti alla ricostruzione dei villaggi distrutti dalla guerra. La sua attività di sostegno sociale, che si poneva al di fuori degli schieramenti in guerra, gli costò l’esilio. Da anni vive in Francia, dove ha creato l’Ordine Tiep Hien (in italiano: Ordine dell’Interessere) e fondato presso Bordeaux Plum Village, un complesso di sette villaggi che accoglie monaci e laici che vogliano dedicarsi alla meditazione.

L’insegnamento di Thay, che appartiene alla tradizione del buddhismo zen, è centrato su una originale interpretazione di uno dei concetti centrali del buddhismo: quello di vacuità (śūnyatā). Tutte le cose, per il buddhismo, sono prive di una identità propria. Nulla è per sé, tutto è composto di altro. Questa concezione, che pare negativa, acquista in Thay una valenza positiva. Se nulla è per sé, allora vuol dire che le cose non sono, ma inter-sono. Di qui l’idea di Interessere, che è la traduzione della vacuità in un linguaggio comprensibile anche per i non buddhisti. Il mondo è una rete di implicazioni, di relazioni, di rimandi. In ogni cosa c’è dell’altro: un foglio di carta contiene, a ben vedere, una nuvola, poiché non esisterebbe senza l’albero, e l’albero senza la pioggia, e la pioggia senza la nuvola. Tutto è relazione. E questo, naturalmente, vale anche per gli esseri umani. Ognuno di noi è in relazione con gli altri, ed anche con coloro che sembrano nostri nemici: perfino con l’assassino. In una poesia Thay parla di una bambina violentata da un pirata (una tragedia tutt’altro che infrequente nel suo paese), e scrive:
Io sono la bambina dodicenne profuga su una barca,
che si getta in mare dopo essere stata violentata da un pirata.
E io sono il pirata, il mio cuore ancora incapace di vedere e di amare.
La consapevolezza dell’interesse porta alla compassione, a conquistare un punto di vista che non è solo quello della vittima, ma anche quello del carnefice; a comprendere che quest’ultimo è tale perché le condizioni di vita lo hanno portato lontano dal bene, ed è lui stesso la prima vittima del suo male. Una convinzione che ha spinto il vietnamita Nhat Hanh a tenere dei corsi per la riabilitazione dei veterani di guerra negli Stati Uniti: ad aiutare, cioè, le stesse persone che hanno massacrato il suo popolo.
E’ grazie a Thich Nhat Hanh se esiste oggi un “buddhismo impegnato”, ossia un buddhismo che non è più soltanto una pratica per la liberazione individuale dalla sofferenza, ma un fronte di lotta politica contro le sofferenze del mondo dovute all’ingiustizia, all’iniqua distribuzione delle risorse, allo sfruttamento, alla violenza. E poiché molte violenze sono dovute proprio alle religioni, il primo dei quattordici principi di base dell’Ordine Tien Hien così recita: “Consapevoli della sofferenza creata dal fanatismo e dall’intolleranza, siamo determinati a non idolatrare né ritenere vincolante alcuna dottrina, teoria o ideologia, neppure quelle buddhiste. Ci impegniamo a considerare gli insegnamenti buddhisti come strumenti che ci guidano e ci aiutano a imparare a guardare in profondità e a sviluppare comprensione e compassione. Non sono dottrine per cui combattere, uccidere o morire”. Non è una concezione nuova, per il buddhismo. Secondo un’immagine usata dal Buddha stesso, la dottrina buddhista non è che una zattera, ossia uno strumento utile. Il buddhista che si attaccasse al buddhismo sarebbe simile a colui che, attraversato il fiume con la zattera, si caricasse la zattera sulle spalle e se la portasse con sé.
Ho avuto modo di partecipare ad una meditazione camminata guidata da Thich Nhat Hanh a Napoli, nel marzo del 2008. L’inusuale corteo partì da piazza del Plebiscito e, con lentezza estrema, si snodò verso via Chiaia, attraversò il traffico, bloccandolo (“abbiate un po’ di compassione buddhistica anche per gli automobilisti”, disse un automobilista) e si concluse in villa comunale, dove uno scugnizzo commentò così la lunghezza del corteo: “Ma questa è una pace infinita”. L’ho chiamato corteo. Ma i cortei si fanno in genere per rivendicare qualcosa, sono manifestazioni in vista di uno scopo. Quel lento camminare nel mezzo della città, tenendosi per mano ed in silenzio, era qualcosa d’altro: la realizzazione, qui ed ora, di una situazione di pace; e la dimostrazione che ovunque – in famiglia, a scuola, nel chiuso di un carcere, nella miseria dei non-luoghi postmoderni – è possibile fermarsi e praticare l’attenzione e la compassione.
Articolo scritto per Stato Quotidiano.

Beppe Grillo, il parresiaste

Beppe Grillo

Non occorre essere dei fini politologi per capire le ragioni della vittoria di Beppe Grillo: basta chiederlo a chi l’ha votato. Perché chi ha votato Grillo, a differenza di chi ha votato Berlusconi, non si nasconde; al contrario: sembra orgoglioso della sua scelta. E chiedete, dunque: perché avete votato per Grillo? Io ho ricevuto il più delle volte una risposta di questo tipo: “perché Grillo è uno che dice le cose come stanno”. Beppe Grillo è il comico che, dopo aver fatto ridere come tanti altri comici, ha cominciato a diventare scomodo, ed è stato espulso dal sistema. Anche se è scomparso dagli schermi televisivi, la gente si è ricordata di quel comico lì, quello che dava fastidio. Ed ora si è accorta di aver bisogno di lui. Perché? I Greci avevano il concetto di parresia, la capacità di dire la verità, di esprimersi liberamente di fronte al potere, che consideravano essenziale per la democrazia. Il concetto è presente anche nel Nuovo Testamento, quale franchezza nell’annuncio del Vangelo da parte degli apostoli, anche a costo della persecuzione. Mi pare che si possa interpretare in questo modo l’esito delle ultime elezioni. Gli italiani, estenuati da un potere che si è alimentato e sostenuto con la dissimulazione, l’inganno, la segretezza, la distorsione sistematica della verità, hanno scelto la figura del parresiaste, del comico scomodo che dice al re che è nudo. Il fatto che sia un comico è un punto a suo favore: è estraneo al mondo politico, considerato una casta indistinta che persegue scopi comuni, al di là delle differenze di ideologia e di bandiera. E’ vero che un leader politico rappresenta sempre una proiezione, l’incarnazione di un ideale umano condiviso. Mandando al potere Berlusconi, gli italiani hanno dato forma ad una delle loro anime – quella lazzarona, furba, cialtrona, maschilista, sostanzialmente mafiosa. Se la mia analisi non è errata, Grillo incarna il contrario: colui che si oppone al potere in nome della verità, e dunque esprime istanze ideali ed etiche (ed anche, certo, la rabbia trattenuta troppo a lungo contro il triste spettacolo della politica, il vaffanculo liberatorio indirizzato tanto alla destra quanto alla sinistra).

Questa esigenza spiega, forse, il voto di pancia di molti, ad esempio di non pochi pensionati e di molti giovani al primo voto. C’è poi il voto più meditato di quelli per i quali Grillo non è il comico cacciato dalla televisione, ma il blogger influente che ha creato un movimento in grado di controllare il potere.
In un sistema democratico il potere è sempre sotto controllo, e questo controllo impedisce che degeneri in dominio. In Italia non è mai stato così. Era fuori controllo il potere democristiano, che viveva di segretezza, di trame oscure, di servizi segreti deviati, di stragi di Stato, di accordi con la mafia. La breve stagione di Tangentopoli ha dato l’illusione che la magistratura potesse controllare il potere, come previsto dalla Costituzione. Ma le cose sono andate diversamente. Nella Seconda Repubblica il potere è stato fuori controllo non meno che nella prima, anche se in modo diverso. Si è posto fuori dal controllo in due modi: in primo luogo grazie ai mass media, che in un sistema democratico funzionante sono, insieme alla magistratura, la principale struttura per il controllo del potere, e che sono diventati invece uno strumento al servizio del potere per la manipolazione delle masse; in secondo luogo impedendo alla magistratura di esercitare la sua funzione attraverso le leggi ad personam. Chiunque avesse a cuore le sorti della nostra democrazia avrebbe dovuto considerare quale primo punto dell’agenda politica il tema del controllo del potere. Altri sono stati invece i temi imposti all’opinione pubblica dai mass media controllati dalla politica: quelli della sicurezza e dell’immigrazione in primis.
Oggi le forze politiche uscite sconfitte dalle ultime elezioni – in sostanza tutte, tranne il Movimento 5 Stelle – evocano foschi scenari: la nostra democrazia, che ha resistito (ma ha davvero resistito?) alla mafia democristiana, alle ruberie socialiste ed alla telecrazia berlusconiana, sarebbe ora in crisi per i vaffanculo di Beppe Grillo. Non manca la reductio ad Hitlerum: su Facebook gira un falso discorso di Hitler di cui si rimarca la pretesa somiglianza con quelli di Grillo. Sarebbe interessante compiere la stessa operazione con (l’ex) papa Benedetto XVI (Hitler non diceva Gott mit uns?) o con Gandhi (che in Hind Swaraj dice tutto il male possibile del Parlamento).
Piaccia o meno – ed ho appena spiegato perché dovrebbe piacere, e molto – con il Movimento 5 Stelle il tema del controllo del potere conquista il primo posto nell’agenda politica. L’idea di Grillo e Casaleggio è che il potere ha bisogno di un contropotere che lo controlli e lo tenga nei suoi limiti. Questo contropotere non è rappresentato né dai mass media né dalla magistratura; è rappresentato dalla Rete. I mass media si possono controllare con il denaro, la magistratura con il denaro e le leggi ad personam. Il Web no: sfugge ad ogni controllo. L’esito fallimentare delle avventure in rete di politici come Clemente Mastella o Romano Prodi dimostra l’impossibilità di usare la rete come uno strumento. La rete è per sua natura orizzontale, non tollera il “lei non sa chi sono io”. L’onorevole che apre un suo profilo Facebook o un suo blog deve dialogare a tu per tu con i suoi lettori. Non esistono autorità, VIP, sue santità in rete: lo dimostra (anche tristemente) l’esito infelice del profilo Twitter di Benedetto XVI. In rete si va per discutere, non per pontificare. E chi pontifica presto si rende ridicolo e viene espulso.
I nuovi eletti al Parlamento del Movimento 5 Stelle promettono di essere politici di nuova specie, non onorevoli ma cittadini che rispondono ai cittadini attraverso la rete. Lo saranno davvero? Difficile dirlo, così come è difficile dire se funzionerà realmente – anche tecnicamente – il sistema di democrazia digitale legato al blog di Beppe Grillo. Soprattutto, occorrerà vedere in che modo l’aspetto orizzontale, partecipativo ed aperto del Movimento (ben espresso dal motto “uno vale uno”) possa conciliarsi con la presenza del leader. In un articolo di tre anni fa scrivevo:

O i grillini sono seguaci del guru Grillo, e lo applaudono anche quando insulta Rita Levi Montalcini o rimpiange la sacralità dei confini nazionali contro l’invasione dei Rom, oppure sono persone che discutono apertamente ed orizzontalmente dei problemi comuni. È evidente la grottesca contraddizione di un movimento di persone che vogliono pensare con la propria testa, e al tempo stesso dipendono dalle parole d’ordine, dalle rivelazioni, persino dagli umori del loro leader. È una contraddizione che non può durare: o il movimento finirà per emanciparsi da Grillo, e farà politica autentica (esito improbabile, benché auspicabile), oppure finirà per essere schiacciato dalla figura ingombrante del suo stesso fondatore (1).

In un libro pubblicato successivamente a quell’articolo, Grillo e Casaleggio sostengono che per la Rete il concetto di leader “è una bestemmia”, e che esistono solo “portavoce delle istanze dei cittadini” (2). Nemmeno Beppe Grillo, dunque, è nulla più che un semplice portavoce. Ma le cose al momento non stanno così. Grillo è, che lo voglia o no, il leader del Movimento; e la sua opinione, che gli piaccia o meno, vale più di quella degli altri. Nel forum del Movimento non è infrequente il ricorso all’ipse dixit, per mettere a tacere chi la pensa diversamente.
C’è poi il problema culturale. Abbiamo alle spalle (sono in vena di ottimismo) decenni di politica clientelare. I politici hanno corrotto profondamente la fibra morale del paese e degradato la politica fino a farne un miserabile mercanteggiare. Uscirne sarà impresa meno facile del previsto. Ecco un messaggio comparso qualche minuto fa nel forum del Movimento:

carissimoBeppe io ti ho votato con il cuore credimi posso dimostrarlo ,.ti chiedo un favore enorme io ho perso il lavoro da 2anni sono sposato con due figli.ho 47 anni e 33 anni di contributi  non riesco a trovare nulla come dobbiamo vivere visto che siamo totalmente abbandonati da tutti specialmente dai parenti grazie 

Per chi avrà votato, in passato, questo disoccupato? Si badi al “posso dimostrarlo”. Votare per un politico e dimostrarlo è il meccanismo del voto di scambio, vale a dire una delle infinite porcate che hanno violentato la nostra democrazia. Per quest’uomo votare il Movimento 5 Stelle non ha comportato in alcun modo un cambiamento di logica: è ancora interamente immerso nella logica clientelare-mafiosa. La domanda è: quanti hanno votato il Movimento 5 Stelle mossi dalla stessa logica? Quante richieste di questo genere arriveranno a Grillo ed ai grillini? E sapranno spiegare a quest’uomo che la politica è un’altra cosa?
C’è poi la questione dei diritti civili. Nel programma del Movimento 5 Stelle (più un elenco di cose da fare che un programma argomentato) mancano del tutto questioni come le unioni di fatto, i matrimoni omosessuali, il testamento biologico, l’integrazione dei Rom, la cittadinanza ai figli degli immigrati e l’immigrazione in generale, eccetera. Su alcune di questi punti Grillo si è espresso: ha parlato ad esempio di “confini sconsacrati” dall’immigrazione selvaggia e della proposta “senza senso” di dare la cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati in Italia. Posizioni che manifestano un limite reale, politico ed anche umano, di Grillo. Poiché Grillo non è il Movimento, di cui non è nemmeno il leader, bisognerà vedere come e quanto il Movimento riuscirà ad aprirsi ai diritti civili (una interessante apertura sullo ius soli viene ad esempio dal Movimento 5 Stelle di Monza).

(1) A. Vigilante,  Il problema del pubblico, Dewey e Beppe Grillo. Limiti e contraddizioni del guru digitale in Diogene. Filosofare oggi, n. 20, 2010.
(2) B. Grillo, G. Casaleggio, Siamo in guerra. Per una nuova politica, Chiarelettere, Milano 2011, p. 11.

La sparizione della ciabatta

Nel 1925 compare un libro che appare quasi un corpo estraneo nel contesto filosofico del tempo: Realismo, di Giuseppe Rensi. Dopo una giovinezza di impegno politico socialista, l’autore si era dato agli studi filosofici aderendo al neoidealismo, pur nella direzione di un idealismo trascendente ispirato alla filosofia di Royce. La prima guerra mondiale aveva però mandato in crisi le sue certezze filosofiche, spingendolo verso lo scetticismo: del 1919 sono i Lineamenti di una filosofia scettica. Il realismo è il passo ulteriore nel suo rovesciamento delle posizioni idealistiche. Vi sono, sosteneva, un vecchio ed un nuovo spirito della filosofia, che attraversano tutta la sua storia. Lo spirito vecchio è quello che non sa distinguere i fatti dalla fantasia, la realtà dalla coscienza; lo spirito nuovo è quello che sa che un conto è la realtà, un altro le rappresentazioni psichiche. Nel mondo greco – ed è una lettura interessante – è vecchio lo spirito socratico-platonico, mentre nuovo è il relativismo della Sofistica. E vecchio è, naturalmente, il neoidealismo crociano e gentiliano. Di più: esso rappresenta l’Italia peggiore, l’Italia servile e smidollata che è il risultato di secoli di dominazioni. L’alternativa tra realismo ed idealismo era dunque alternativa tra Italia vecchia e nuova:

fra una perdurante Italia dell’epoca ispano-austriaca, dei cortigiani e delle schiene curve, e un’Italia libera, anche nello spirito, dall’oppressione, un’Italia d’uomini che sappiano (e, come dovrebbero, lo possano, senza che ci sia bisogno d’essere eroi e pericolo di subire menomazioni o conculcazioni di varia indole) pensare come credono; l’Italia delle schiene dritte. (1)

A distanza di quasi un secolo l’istanza realista torna a presentarsi nella filosofia italiana con il Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris, esito di un dibattito che ha coinvolto i maggiori filosofi italiani, e che è ancora aperto. Come Rensi, Ferraris proviene dalle posizioni che attacca: allievo di Vattimo e di Gadamer, è stato negli anni Ottanta uno dei più importanti rappresentanti italiani dell’ermeneutica. E come in Rensi, la sua polemica ha uno sfondo politico: Ferraris attacca la filosofia postmoderna accusandola di essere sostanzialmente di destra, collocandosi tra in cinismo di Bush ed il populismo berlusconiano, espressione della degenerazione della “rivoluzione desiderante” degli anni Sessanta e Settanta. Il postmoderno è nato come filosofia emancipativa ed è diventano una filosofia che giustifica il dominio, o nella migliore delle ipotesi non ha strumenti per opporvisi; denunciando i rapporti tra verità e potere, ha finito per “delegittimare la tradizione, che culmina con l’Illuminismo, per cui il sapere e la verità sono veicoli di emancipazione, strumenti di contropotere e di virtù”(2).

E qui c’è una distorsione che mi sembra tipica dei filosofi e degli intellettuali in generale. Ferraris parla come se le vicende della filosofia fossero determinanti per la società, per lo stato, per la civiltà; come se il futuro della gente dipendesse dall’esito di qualche dibattito filosofico; come se dal prevalere del realismo o del postmoderno dipendesse il nostro futuro. Disgraziatamente o per fortuna, le cose non stanno così. La filosofia è faccenda che riguarda soltanto un certo numero di persone, per lo più chiusi nelle università. I cambiamenti storici derivano da altro. Uno strumento come Facebook, inventato da un ragazzo di poco più di vent’anni tutt’altro che incline alla speculazione filosofica, ha cambiato il mondo in cui siamo molto più di centinaia di libri di filosofia.

Quando Ferraris scrive che se non esiste il mondo esterno “allora lo stato d’animo predominante diviene la malinconia, o meglio quella che potremmo definire come una sindrome bipolare che oscilla tra il senso di onnipotenza e il sentimento della vanità del tutto” (3), non si può fare a meno di sorridere. Predominante presso chi? La sindrome bipolare colpirà qualche professore universitario o, al più, qualche studentello di filosofia: poco male. Detto altrimenti: il pensiero non precede la società, non la costruisce, non la orienta più da gran tempo. Nella migliore delle ipotesi, insegue la realtà sociale e politica cercando di comprenderla, ma afferrandone solo brandelli. Ritenere che basti risolvere qualche questione teorica, come quella della realtà del mondo esterno e della oggettività della verità, per riprendere il cammino interrotto dell’emancipazione, è un’illusione: attribuisce al pensiero un potere che il pensiero ha perso da tempo. Il problema reale è un altro. Non: esiste il mondo esterno?, ma: come possiamo cambiare questo mondo, segnato dal male, dall’ingiustizia, dalla disuguaglianza, dallo sfruttamento? Cercare la via della prassi è l’unico modo per ridare alla filosofia un peso politico che non ha più. Dichiarare solennemente che il mondo esiste non ci aiuta a rendere migliore il mondo che esiste; al contrario, pone dei limiti alla prassi, poiché il mondo che esiste ci si pare di fronte con le sue strutture oggettive, immutabili, impenetrabili. La prassi si conforma all’essere, parte dall’accertamento dell’oggettività, ed in ciò trova il suo limite – mentre una prassi assoluta antepone l’istanza etica di giustizia, di verità e di bellezza, ed alla luce di quella istanza aggredisce il reale, pronta anche a negarne l’evidenza in nome di una realtà più alta, che è quella che si presenta alla nostra coscienza etica. E’ quella che altrove ho chiamato forzatura della verità (4).

Ma esiste, poi, la realtà? Esiste il mondo? C’è qualcosa qui fuori di me? Ferraris lo dimostra con l’esperimento della ciabatta. Immaginiamo, dice, che un uomo guardi un tappeto con sopra una ciabatta. Chiede ad un altro di passargliele, e l’altro lo fa senza difficoltà. “Banale fenomeno di interazione, che però mostra come, se davvero il mondo esterno dipendesse anche solo un poco, non dico dalle interpretazioni e dagli schemi concettuali, ma dai neuroni, la circostanza che i due non possiedano gli stessi neuroni dovrebbe vanificare la condivisione della ciabatta” (5).

Consideriamo la faccenda della ciabatta. Vorrei farlo dal punto di vista di una tradizione di pensiero che da qualche millennio si confronta con i temi della realtà e dell’apparenza, e che Ferraris, da bravo filosofo occidentale (o continentale) non prende in considerazione: quella buddhista.

Cos’è una ciabatta? E’ un oggetto con un suo nome ed una sua forma: nama e rupa. Appartiene indubbiamente al mondo delle cose reali. Noi sappiamo, però, che le cosiddette cose reali non sono la realtà ultima, ma sono a loro volta scomponibili in elementi più piccoli. La ciabatta è fatta di un tessuto che ha una sua trama, sotto la quale ci sono le molecole, e poi gli atomi, fino all’infinitamente piccolo. Tutte queste cose – le molecole, gli atomi eccetera – esistono, sono reali non meno della ciabatta. Se non vediamo questa realtà di atomi, ma la ciabatta, è soltanto perché i nostri occhi sono molto imperfetti. Se avessimo degli occhi perfetti come un microscopio a scansione, non vedremmo più la ciabatta. In altri termini, la ciabatta esiste soltanto a causa della nostra ignoranza (avidya), vale a dire per l’imperfezione dei nostri sensi. Affinché l’esperimento della ciabatta riesca, non occorre soltanto che io abbia degli occhi imperfetti, che mi consentano di vedere la ciabatta, e non la struttura sottostante, ma anche che io abbia il concetto ed il nome di ciabatta, e che sappia associarlo a quella immagine; e lo stesso vale per il mio interlocutore. E questa, con ogni evidenza, è una cosa che si svolge interamente nella nostra testa.

Il fatto che si svolga in due teste contemporaneamente non dimostra che non sia una operazione intellettuale che costruisce il mondo esteriore nel suo aspetto di nome e forma. Il concetto di vacuità è presente nel buddhismo fin dalle origini, ma è nella tradizione Mahayana che ha trovato la sua espressione filosoficamente più matura. Vacuità (ś**ūnyatā) non vuol dire che nulla esiste, ma che nessun ente esiste al di fuori di una fitta rete di relazioni, che lo costituiscono; pensare un ente come se fosse una realtà sostanziale, individuata, vuol dire illudersi. Questa consapevolezza del vuoto è nel buddhismo per eccellenza ciò che emancipa. E’ attraverso la considerazione della vacuità di ogni fenomeno, e della vacuità dello stesso soggetto, che si giunge alla liberazione, al nibbana. Ma non solo. Come afferma Candrakīrti, uno dei più rilevanti pensatori della scuola Mādhyamika (continuatore e commentatore del pensiero del più noto Nāgārjuna)

La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come un serpente male afferrato o una formula magica male applicata. (6)

Ciò che emancipa è anche ciò che manda in rovina; rovesciando il detto di Hölderlin che tanto piaceva ad Heidegger, potremmo dire che dove cresce ciò che salva, aumenta anche il pericolo. Se tutto è vuoto, perché non dovrei uccidere questa persona, che è anch’essa vuota? Dove sarà il male? Se tutto è vuoto, il male non esiste. Ma la realtà assoluta non cancella la realtà relativa, nella quale questa persona esiste e soffre, ed ucciderla è male; posizionarsi nella realtà assoluta e negare così ogni morale vuol dire afferrare male il serpente della vacuità. Le critiche di Ferraris alla negazione postmoderna della oggettività del mondo esterno riguardano, mi sembra, questa possibilità di afferrare male il serpente. E nondimeno è necessario afferrare il serpente.

(1) G. Rensi, Realismo, Unitas, Milano 1925, pp. 6-7.

(2) M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 109.

(3) Ivi, p. 25.

(4) Cfr. A. Vigilante, Il pensiero nonviolento, Edizioni del Rosone, Foggia 2004.

(5) M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, cit., p. 40.

(6) Candrakīrti, Prasannapadā, 24, 11, trad. it. in La saggezza del Buddha, a cura di R. Gnoli, Mondadori, Milano 2004, p. 675.

Vegetarianesimo e demitarianism

La copertina del rapporto
Our Nutrient World

Chi diventa vegetariano (o vegano) lo fa per une delle tre seguenti ragioni: perché ritiene che la vita non umana abbia valore, e che sfruttare, torturare e distruggere miliardi di vite animali sia un crimine; perché considera la dieta carnea dannosa per la salute; perché pensa che la dieta ricca di proteine animali dei paesi ricchi sia una delle cause della fame diffusa nei paesi poveri. La prima ragione è etica, la seconda salutistica, la terza politica. Nel primo caso si tratta di fare qualcosa per gli animali, nel secondo di fare qualcosa per se stessi, nel terzo di fare qualcosa per l’umanità. Naturalmente, una ragione non esclude l’altra, e si può essere vegetariani al tempo stesso per ragioni etiche, salutistiche e politiche.

Delle tre giustificazioni, la prima è probabilmente quella più forte per chi è vegetariano e più debole per chi, essendo vegetariano, cerca di convincere altri a fare la stessa scelta. Percepire lo scandalo della violenza sugli animali è una sorta di rivelazione improvvisa, dopo la quale non si può restare come prima. Ma si tratta, appunto, di una illuminazione. Se qualcuno considera gli animali come delle semplici cose, che possiamo usare a nostro piacimento, o ritiene che siano stati creati da Dio per noi (è un argomento particolarmente puerile, ma molto diffuso), c’è poco da obiettare. Difficile è dimostrare un valore a chi lo nega. Più efficace sembra essere il secondo argomento, poiché siamo in una società fortemente individualistica, in cui molto conta la cura di sé e c’è quasi il mito della salute. Ma molti rifiutano di considerare la salute come il risultato inevitabile di uno stile di vita sano: ci si affida piuttosto all’azione salvifica del farmaco ed all’azione demiurgica del medico. La salute è una cosa che viene ristabilita dallo specialista, quando occorre. E’ appena il caso di notare che si tratta di una illusione: e in genere lo si scopre quando è troppo tardi. Efficace può essere, invece, il terzo argomento, poiché quello della vita umana (di ogni vita umana) è un valore unanimemente riconosciuto, e il diritto alla vita è sancito dalla Dichiarazione dei diritti umani. Il vegetarianesimo come scelta di rispettare la vita non umana ha un carattere supererogatorio, va cioè al di là di ciò che richiede e impone la morale corrente; il vegetarienesimo come scelta salutistica comporta un imperativo ipotetico in senso kantiano (se vuoi stare in salute, allora è meglio non mangiare carne), e dunque non è vincolante per tutti; il vegetarianesimo come scelta politica può essere considerato invece moralmente obbligatorio, poiché quello di non uccidere (esseri umani) è un imperativo categorico, un obbligo al quale nessun essere umano può sottrarsi.
Resta da dimostrare che mangiare carne significhi uccidere, che vi sia un nesso causale tra l’alimentazione carnea dei paesi ricchi e la fame nei paesi poveri. Gli studi non mancano: da Diet for a Small Planet di Frances Moore Lappè (1971) a Ecocidio di Jeremy Rifkin (1992) ed oltre. Una conferma interessante giunge da una recente ricerca commissionata dall’United Nations Environment Programme (UNEP) sulle cause e le conseguenze dell’inquinamento ambientale. Nel rapporto finale, intitolato Our Nutrient World. The Challenge to Produce More Food and Energy With Less Pollution la riduzione (volontaria) del consumo di proteine animali è indicata come uno dei passi necessari per diminuire l’inquinamento ed aumentare la disponibilità di cibo per tutti:

People can lower the consumption of animal protein by eating less frequent meat and dairy. In some coun-tries people are being mobilized to have a “meat-free” day.
Another important route is the reduce portion size. A third way is to shift to poultry meat, as this is usually as-sociated with less pollution than pork and beef.
Finally, approaches have been encouraged that foster a middle path between typical meat consumption in the developed world and vegetarian diets. In the “demitar-ian” approach the aim is to consume half the normal local amount of animal products. (1)

La proposta demitariana, quale soluzione di compromesso tra la dieta carnea e la soluzione vegetariana, è stata avanzata per la prima volta nella Barsac Declaration, esito di un workshop del gruppo di lavoro Nitrogen in Europe (NinE) sulle possibilità di contribuire con il proprio stile di vita alla riduzione delle emissioni di azoto nell’ambiente. Nella dichiarazione si legge:
a. For many developed countries, individuals eat more animal products than is necessary for a healthy balanced diet, so that, for many people, reducing per capita meat consumption has the potential to give significant health benefits;
b. In many developing countries, increased nutrient availability is needed to improve diets, while in other developing countries, per capitaconsumption of animal products is fast increasing to levels which are less healthy and environmentally unsustainable;
c. For the reasons outlined above, reducing per capita consumption of animal products in the developed world has the potential to improve nutrient use efficiency, reduce overall production costs and reduce environmental pollution;
d. While vegetarianism represents an option for some, this remains an unwanted ambition for many people;
e. There is a need to encourage options of medium ambition, making it easier for those who choose to reduce the consumption of animal products. (2)
Questa soluzione di compromesso appare inaccettabile a chi sceglie il vegetarianesimo per ragioni etiche: sarebbe come dire “ammazzate con moderazione”. Ci sono però due aspetti estremamente interessanti di questa impostazione del problema. Il primo è che una riduzione del consumo di carne appare ragionevole a molte persone e non richiede alcuna scelta di fondo: c’è dunque da sperare che, intervenendo con campagne di sensibilizzazione, il demitarianism si diffonda e cambi in modo significativo lo stile alimentare dei paesi ricchi. Il secondo è che, se non si tratta più di difendere la vita gli animali, il cui valore è percepito solo da alcuni, ma di combattere l’inquinamento, la crisi ambientale e la fame nei paesi poveri, allora c’è un preciso obbligo da parte delle istituzioni di intervenire per operare favorire questo cambiamento. Mi sembra che sia questa la strada da percorrere anche per chi, come chi scrive, ritiene che la vita non umana abbia valore intrinseco e che lo sfruttamento industriale degli animali sia un intollerabile scandalo.

(1) Global Partnership on Nutrient Management (GPNM), Our nutrient world. The challenge to produce more food and energy with less pollution, Centre for Ecology and Hydrology (CEH), Edinburgh UK 2013, p. 70.
(2) NinE, The Barsac Declaration: Environmental Sustainability and the Demitarian Diet.

Sul buon uso del cellulare in classe

Socrative
Tra le molte battaglie perse della scuola italiana c’è quella contro il cellulare. La sola vista di un telefono cellulare sembra mandare in bestia i docenti: ogni giorno nelle scuole italiane vengono messe migliaia e migliaia di note in condotta a studenti che si macchiano della colpa di usarlo. Leggo in un Piano dell’Offerta Formativa a caso: “L’uso del cellulare in qualsiasi luogo di pertinenza della scuola sarà sanzionato col sequestro del cellulare stesso, che sarà consegnato al responsabile di sede, il quale provvederà a riportare l’episodio sul registro e restituito al’alunno al termine delle lezioni; in caso di recidiva il cellulare sarà restituito all’esercente la responsabilità genitoriale; dopo il secondo caso di uso del cellulare si provvederà all’allontanamento dalle lezioni per un giorno”. Nonostante questo, i cellulari continuano ad essere usati quotidianamente dagli studenti, rappresentando una insostituibile via di fuga contro la noia scolastica ed una finestra aperta sul mondo di fuori.

Cos’è un telefono cellulare? Dal punto di vista dei docenti è un oggetto sospetto per più ragioni. E’ tecnologia, quindi qualcosa con cui non hanno troppo dimestichezza; è un oggetto che fa parte dello stile di vita dei ragazzi, e quindi come tale è carico di tutte le negatività che attribuiscono alla condizione adolescenziale; è un bene di lusso, uno status symbol, una icona del mondo dell’effimero e del conformismo, da condannare senza appello. In quella che per molti versi è una istituzione totale, il cellulare è un oggetto troppo personale, consente un isolamento temporaneo, eppure imperdonabile, dalla concentrazione assoluta richiesta dall’ambiente. Lo studente che manda sms o gioca col cellulare nei tempi morti della giornata scolastica si dedica a pratiche masturbatorie: si procura un piacere illecito e solipsistico, mentre dovrebbe ragionevolmente gioire della lezione e delle tante altre eccitanti attività scolastiche.
Presi da questa crociata, non si bada al fatto che il cellulare, come oggetto tecnologico, potrebbe essere usato nella stessa didattica e sopperire alla mancanza di computer ed altri strumenti tecnologici. Tra i prodotti innovativi per la didattica ci sono i risponditori, piccoli telecomandi che, dati agli studenti, consentono loro di rispondere in tempo reale ai quiz proposti dal docente (qui un esempio). Oggetti che hanno evidentemente un loro mercato: vi sono scuole che spendono per queste cose. Potrebbero risparmiare quei soldi, se la smettessero di demonizzare i cellulari. La stessa cosa, infatti, si può fare utilizzando il cellulare degli studenti ed un sistema come Socrative. Il procedimento è semplice: il docente si iscrive nel sito ed ottiene una propria room, nella quale può creare tutti i test che vuole; lo studente si collega a sua volta al sito, entra nella room inserendo il codice ricevuto dal docente e svolge il test. Il risultato del test viene comunicato in tempo reale al docente, che può anche ricevere un report in formato xml, con i risultati di tutti gli studenti. Per gestire l’attività il docente può usare un computer o anche semplicemente un tablet, utilizzando l’apposita app Android, che esiste anche nella versione per studente (ma chi non dispone di un cellulare Android può effettuare il quiz attraverso il sito, come detto).
In attesa che arrivino a scuola i tanto invocati tablet – ai quali pare che si vogliano affidare le sorti della scuola italiana, a giudicare dai toni di certi interventi -, sarebbe buona cosa cominciare a sperimentare le possibilità di interazione digitale tra docente ed alunno impiegando i cellulari, che peraltro per prestazioni spesso dai tablet poco si differenziano. Per farlo, naturalmente, bisognerebbe liberarsi dai pregiudizi nei confronti dell’oggetto; il che vuol dire anche, almeno in parte, liberarsi da quel pregiudizio nei confronti degli studenti che è uno dei problemi più seri della scuola italiana.