Salwan Momika

A dicembre ho scritto un articolo su Taleb Al Abdulmohse, il non credente saudita autore dell’attentato di Madgeburgo. Nell’articolo parlavo anche di Salwan Momika, il non credente iracheno rifugiato in Svezia che aveva espresso la sua critica dell’Islam bruciando pubblicamente il Corano. In un post su X Momika denunciava il rischio di essere estradato in Iraq, dove lo attendeva la condanna a morte. Non ve n’è stato bisogno: Momika è stato ucciso ieri l’altro nel suo appartamento nel quartiere di Hovsjö. Il suo atto di bruciare pubblicamente il Corano intendeva richiamare l’attenzione pubblica sulla gravi persecuzioni che subiscono i non credenti nei paesi islamici, dove spesso rischiano la condanna a morte. Ma era politicamente scorretto, perché la priorità è difendere l’identità culturale delle comunità, identificata con la religione. Momika è stato lasciato solo da tutti. La sua morte era solo questione di tempo.

Perché sarebbe cosa buona introdurre l’agricoltura a scuola

Sarebbe interessante e utile – forse deprimente, però – raccontare l’identità e la storia della scuola italiana attraverso quei documenti particolari che sono le note in condotta. Ne ricordo una in particolare, perché ne seguì un’accesa discussione con il preside. Avevo un’ora di supplenza in una classe non mia. E sul registro, allora cartaceo, un collega avvisava gli studenti che “se non vogliono studiare, possono andare a lavorare la terra”. Si trattava di una variante della nota surreale, e tuttavia non infrequente: “La classe disturba la lezione”. Ma si era in un paesino agricolo dell’alto Tavoliere e il lavoro della terra dava da mangiare a quasi tutte le famiglie di quegli studenti. Con quella nota il collega poneva un contrasto tra scuola e famiglia, tra scuola e comunità, tra scuola e contesto sociale ed economico di cui provai a spiegare al preside la gravità, senza troppo successo.

Vorrei provare ora a spiegare, senza speranza di un successo migliore, perché ritengo che sarebbe cosa buona e giusta, oltre che urgente, introdurre lo studio e la pratica dell’agricoltura nella scuola dell’obbligo. Leggi tutto “Perché sarebbe cosa buona introdurre l’agricoltura a scuola”

Abbiamo davvero bisogno dei professori?

Chi vuole ancora gli insegnanti?, chiede Philippe Meirieu, uno dei più influenti pedagogisti francesi, fin dal titolo di un libello tradotto da Enrico Bottero (Armando, Roma 2024, pp. 58). Il titolo francese è Qui veut encore des professeurs? Il traduttore spiega che professeurs indica in Meirieu la figura forte di una “persona convinta che fare scuola sia un atto simbolico e politico”, mentre gli einsegnants ne sono la versione depotenziata, “ridotta a compiti meramente esecutivi” (p. 13). Leggi tutto “Abbiamo davvero bisogno dei professori?”

Il mercato delle abilitazioni all’insegnamento

La legge 29 giugno 2022, n. 79, seguita dal decreto attuativo (DPCM 4 agosto 2023), ha ridisegnato il percorso per diventare docenti.  Per conseguire l’abilitazione all’insegnamento, che permetterà poi di partecipare al concorso, è necessario seguire un percorso abilitante di almeno 60 CFU (il CFU, Credito Formativo Universitario, indica un carico di lavoro per lo studente quantificabile in termini di ore), comprendente insegnamenti disciplinari e pedagogico-didattici, un tirocinio diretto nelle scuole e un tirocinio indiretto sotto la guida di un tutor coordinatore universitario. Leggi tutto “Il mercato delle abilitazioni all’insegnamento”

Leonardo Caffo e la violenza

Chiara Valerio ha invitato il filosofo Andrea Caffo alla fiera romana Più libri più liberi, che quest’anno è dedicata alla memoria di Giulia Cecchettin. Ma Caffo è a processo per maltrattamenti e lesioni nei confronti della ex compagna, e la scelta di invitarlo è apparsa inopportuna, perfino scandalosa a molti. Né è sembrata granché convincente la difesa di Chiara Valerio, che si è appellata alla presunzione di innocenza. Su “Il Post” Cataldo Intrieri ha scritto che “ciò che dovrebbe interessare in una rassegna editoriale è il valore di un’opera e la validità di discutere delle idee che contiene”. Fino a un certo punto, a dire il vero, perché forse in quel contesto anche un’opera di eccezionale valore sarebbe stata fuori luogo, considerata la biografia dell’autore. Vero è che le polemiche hanno trascurato del tutto il libro. Quale libro avrebbe presentato Caffo, che ha deciso di ritirare la sua partecipazione? Quali idee avrebbe discusso?

Il libro è Anarchia. Il ritorno del pensiero selvaggio, pubblicato da Raffaello Cortina e dedicato, tra l’altro, a Michela Murgia, “anarchica e autonomista Sarda”. Diamogli uno sguardo, cominciando dai dettagli. Il colophon ci informa di due cose. La prima è che la copertina, brutta e banale – brutta perché banale – è di mana scanavino project, che in genere fa copertine molto belle, ma evidentemente non riesce ad andare oltre un certo immaginario quando si tratta di anarchia. La seconda è che il libro ha il copyright di Raffaello Cortina. Cosa scontata per un libro, ma non scontata per un libro anarchico. Quella contro il diritto d’autore, e a favore di licenze libere, è una delle battaglie degli anarchici fin da quando Tolstoj comunicò la decisione di rinunciare ai diritti su tutte le opere scritte dopo la sua conversione all’anarchismo nonviolento. Caffo non è della partita. Ne prendiamo atto.

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I social network e la scuola

Sorprende non poco leggere la petizione lanciata da Daniele Novara, uno dei più influenti pedagogisti italiani, e dal Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti da lui fondato, per chiedere che si vieti fino ai quattordici anni l’uso di uno smartphone personale e fino ai sedici la possibilità di creare un profilo sui social network; e non meno sorprende trovare tra i firmatari persone stimabili, come Federica Lucchesini o Anna Oliverio Ferraris (il testo della petizione si può leggere qui). Poiché si tratta di una petizione promossa e firmata da pedagogisti (anche se non mancano personalità del mondo dello spettacolo, che evidentemente hanno poca competenza sul tema, ma sono mediaticamente più efficaci di qualunque pedagogista), non si può fare a meno di notare due cose.

La prima è che una cultura del divieto si concilia poco con quella pedagogia progressista alla quale appartengono senz’altro Novara e non pochi dei firmatari della petizione, mentre è in piena continuità con le posizioni del ministro Valditara e del governo Meloni. La seconda è che l’argomentazione della petizione, appena embrionale, è centrata interamente sul ricorso alle neuroscienze: “La nostra non è una presa di posizione anti-tecnologica – si legge – ma l’accoglimento di ciò che le neuroscienze hanno ormai dimostrato: ci sono aree del cervello, fondamentali per l’apprendimento cognitivo, che non si sviluppano pienamente se il minore porta nel digitale attività ed esperienze che dovrebbe invece vivere nel mondo reale”. Ed è evidentemente una fallacia. Sia perché ricorrendo alle neuroscienze si possono affermare molte cose in campo pedagogico, e non siamo sicuri che piacerebbero tutte ai firmatari della petizione (per dirne una: non è poi così certo, alla luce delle neuroscienze, che esista una cosa come il libero arbitrio, e anche lo stesso io personale vacilla), sia perché non è affatto vero che le neuroscienze giustifichino un tale allarme.

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