Sub specie absurditatis

Siamo stati domenica con Ermes all’acquario di Livorno. Non ero mai stato in un acquario: mi ha sempre trattenuto il disgusto per quella vita così contenuta, così al servizio del nostro sguardo. Ma è prevalsa la tentazione di mostrare a nostro figlio forme di vita che ha incontrato solo nei libri cartonati per la prima infanzia.

L’attrazione principale dell’acquario è una grande vasca con squali e tartarughe giganti, ma Ermes è stato attratto, più di ogni altra cosa, da una piccola vasca che conteneva, chissà perché, alcuni guanti bianchi gonfiati e sospesi nell’azzurro dell’acqua. Io invece ho osservato a lungo la piccola vasca accanto: quella delle meduse.

Mi sono sembrate, le meduse, semplicemente perfette. E belle. Di una bellezza molto contemporanea, d’avanguardia perfino. Mi chiedo, da domenica, cos’è l’essere di una medusa. Com’è essere una medusa. Nessuno può saperlo, ma se volessimo avanzare un’analisi à la von Uexküll, potremmo dire che una medusa semplicemente è. Aderisce, per così dire, all’essere. Fa tutto ciò che occorre per mantenersi viva, e lo fa con grande efficacia – riuscendo perfino, nel caso della Turritopsis nutricula, a toccare l’immortalità.

A noi manca questa adesione piena. Se la medusa è, l’essere umano _ è. C’è un distacco dall’essere dovuto alla presenza dell’io. Con una formula, potremmo dire che la nostra esperienza è essere(io)[?essere], dove per essere si intende l’essere puro, quale si manifesta alla medusa, mentre [?essere] è l’essere quale appare a un io: ossia l’essere problematico, l’essere di cui occorre trovare la ragione.

Detto altrimenti: l’uomo è l’ente cui l’essere, a causa dell’io, si manifesta sotto forma di assurdo.

(La foto è mia.)

Due visioni

Questo mondo è atomi e vuoto, un infinito meccanismo che nulla sa degli individui che travolge ad ogni istante, senza che la vita di un essere umano valga più di quella di un insetto. Una trama di processi chimici e fisici, in cui la vita compare come fenomeno tra gli altri, e per di più come fatto violento; in cui ogni essere deve sopprimere altri esseri per sopravvivere.

Poiché un simile universo ci insegna che nulla siamo, vivere consapevolmente è questo: sapere che nulla siamo. Saperlo davvero. Essere un punto provvisorio di incontro di processi che ci trascendono.

Oppure.

Questo mondo è atomi e vuoto. Processi ciechi che travolgono in ogni istante le vite. Ma: la vita ha valore. Non posso accettare che un essere muoia. Non posso accettare un mondo che sopprime in ogni istante ciò che ha valore. Mi ribello al mondo in nome del valore di questo essere qui – di questo bambino o di questo fiore che domani sarà già appassito. Esigo un mondo altro. E so che non c’è, ma aderisco ad esso, vivo in questo mondo come uno che appartiene a un mondo altro assente – un mondo stupito d’erba e d’innocenza.

È possibile che siano una sola visione? Amare la necessità, dice Simone Weil. La più difficile forma di amore. Amare ciò che è il contrario dell’amore.

Microteoria

Microteoria: Dio in Occidente è stato il puntello, l’impalcatura, l’esoscheletro dell’io. Per cui la morte di Dio porta con sé, necessariamente, la morte dell’io. Dio è morto, l’io è morto. Dall’ateismo all’anantropismo. Cioè: la mistica è l’esito inevitabile dell’ateismo (da Nietzsche a Simone Weil).

30 gennaio, martedì

Uno scrittore che ho sempre un po’ snobbato – di quelli popolari: e dunque facili e leggeri (conclusione a volte ingiusta) – ha annunciato una sua grave malattia – ed è comparso alla televisione irriconoscibile. Pensavo, portando giù Mirò, a come vivrei io – a come vivrò io – dopo aver saputo di una grave malattia, anzi standoci dentro. A che farei del tempo, degli istanti. Come andrei avanti. Anzi: come mi fermerei. Che farei qui ed ora. Ascolterei forse molta musica. Ma cosa? Mozart o Wagner? Verdi o Puccini? O non preferirei forse Jimi Hendrix? No, niente musica. Mi darebbe nausea. Forse, ho pensato, mi rileggerei le cose che ho scritto. Ma presto ho escluso anche questo. Mi dà fastidio leggere quello che ho scritto molto tempo fa, quando ero in gran parte altro da quello che sono. Mi dà un duplice fastidio: perché mi pare, quell’io lontano, ingenuo, e considererei l’ingenuità un peccato capitale, se fossi credente; e perché al tempo stesso mi pare che quell’io lontano, con un diritto che gli viene dall’essere mio padre, benché più giovane di me, mi giudichi per aver perso per strada la sua passione: e la sua indignazione. Mi dà fastidio leggere anche quello che ho scritto più di recente, perché mi pare che manchi sempre qualcosa, che vi sia sempre un passo in più che non ho avuto la pazienza, la forza, la determinazione di fare. E aggrovigliarmi nella frustrazione di essere io non è certo un gran modo di passare il tempo ultimo. Leggerei, forse. Ma, anche qui, cosa? E perché impiegare gli ultimi scapoli di vita a frugare nella vita degli altri?

No, ho concluso. Non farei nulla. Starei seduto, infossato in me stesso, abitando le mie sensazioni. Mi godrei anche il dolore, se ci fosse. Ci sono passato, so quanta voluttà può esserci anche in un dolore atroce. E ho pensato che qualche voluttà, qualche inconfessabile piacere – inconfessabile in senso stretto: impossibile da spiegare – verrebbe anche dal sentire che questo momento è a un passo dall’annientamento.