Agostino

Agostino era operaio presso una piccola azienda che si occupava di idrocarburi. Il suo padrone – così lo chiamava, così era – era impegnato in politica, per metterla su un piano nobile. Consigliere comunale del Movimento Sociale. Ebbe un brutto quarto d’ora quando a qualcuno venne la bizzarra idea di indagarlo per l’assassinio del direttore dell’Ufficio del Registro, Franco Marcone. Fu scagionato.

Benché il suo padrone fosse benevolo, di soldi non ne arrivano troppi. L’operaio Agostino viveva con la moglie e i tre figli in un basso di trentotto metri quadri in via Maria Grazia Barone. Non ebbe mai la casa popolare, e questa fu forse l’unica fortuna della sua vita.

Al momento di andare in pensione, l’operaio Agostino ebbe l’impressione che il suo benevolo padrone gli avesse dato meno di quello che gli spettava, di liquidazione. Gli fece dunque causa. La perse. Sì impegnò poi in una causa con l’avvocato che aveva perso la causa. E perse anche quella causa. Vincere le cause non era nelle sue corde. Pare che sia un difetto degli operai.

Si è goduto la pensione per qualche anno, l’operaio Agostino, girellando per la città su una vecchia bicicletta Bianchi, facendo il solitario con le carte – spesso imbrogliava – guardando Rete 4 e spaventandosi di tutto. Poi ha avuto un infarto. Poi un tumore alla parotide. Poi un tumore ai polmoni. Poi un tumore al fegato.

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Cedimenti mistici

Per gli studiosi di sinistra di Leopardi – primo fra tutti Luporini – è fondamentale dimostrare che il Recanatese non ha mai avuto alcun cedimento mistico. Sull’ultimo verso dell’Infinito De Sanctis si sbagliava – eh, succede anche ai migliori. E del resto c’è la Ginestra. Come può aver avuto cedimenti mistici uno che ha una visione così bella, e così attiva, così politica dell’umanità?

Con ogni probabilità la prima testimonianza storica di una politica dell’umanità (in due sensi: un imperatore che fa una politica umanitaria e un imperatore che considera l’umanità intera) sono gli editti di Ashoka. Dietro i quali c’è il cedimento mistico buddhista.

Acosmalgia

Lo stato d’animo più frequente e significativo, con il passare degli anni, mi sembra che non abbia, stranamente, un nome specifico. Molti con gli anni diventano nostalgici. Provano un dolore particolare che viene loro dal desiderio di una situazione lontana nel tempo. Io non sono propriamente nostalgico. Se qualcuno mi offrisse una macchina del tempo per tornare al 1984, al 1999, al 2010 rifiuterei senz’altro. Non c’è nulla di bello che mi aspetti nel mio passato. E tuttavia ho un passato. Ho vissuto il 1984, il 1999 e il 2010. Ho attraversato tempi diversi, ma soprattutto mondi diversi. Ho fatto parte di mondi che ora non esistono più. Mondi che erano da un lato la mia rete di relazioni – ad esempio i miei compagni di scuola – e dall’altra il contesto storico e culturale: la musica, l’arte, la televisione, la moda eccetera. Al tempo stesso, io ero altro da quello che sono ora. C’era un altro me che viveva in un altro mondo. Un me e un mondo estranei al mio me di adesso e al mondo in cui vivo; e tuttavia un mondo che è stato il mio, e un io che sono stato io.

Secondo la tradizione il Buddha insieme al Risveglio ottenne il ricordo delle vite precedenti. E se il Risveglio è gioia, non riesco a figurarmi questo ricordo di aver vissuto altre vite se non come questo genere di stordimento. E di fatto si tratta di questo: abbiamo vissuto, nella nostra vita, altre vite; siamo stati, in questa stessa vita, altre persone. E questa consapevolezza getta un’ombra sulla nostra stessa vita attuale. 

Non la sofferenza per un luogo al quale vorremmo tornare. La sofferenza sottile – e lo stordimento – che nasce dall’essere in qualche modo legati a mondi che non sono più i nostri, a identità che abbiamo attraversato; la consapevolezza di non poter mettere radici in nulla, meno che mai in noi stessi, perché questo stesso io che sta scrivendo è un luogo di passaggio, e presto morirà per incarnarsi ancora in un altro io, in un altro mondo – in questa stessa vita. Chiamo acosmalgia il dolore che dà questo passare da un mondo all’altro, da un io all’altro, in questa stessa vita. E mi pare che dopo una certa età diventi la condizione principale. Il tono di fondo, quando cessano per qualche istante la seduzione delle cose e il fastidio degli altri.

16 marzo, lunedì

Cercando aria, luce e colori, mi sono spinto questa mattina con il mio cane per i colli senesi, sui quali la primavera, indifferente alla nostra angoscia, sta cominciando a celebrare la sua festa. Nessuno per strada; solo, di là dai cancelli, due uomini impegnati nella potatura degli ulivi. “Taglia più in basso, lì” le uniche parole sentite. Per il resto il silenzio morbido e gentile dei colli. E i rospi.
Questo è il periodo della mattanza dei rospi. S’azzardano sull’asfalto e vengono falciati da un mostro di acciaio che nulla sa di loro. Restano lì, un ammasso di sangue e carne, fino a quando i raggi del sole non cominciano la loro operazione alchemica. In capo a qualche giorno, di loro non resta resta una sagoma di grigia e rinsecchita; qualche giorno ancora, e svanisce anche la forma – la tragica persistenza di una parvenza di vita, perfino di volontà.
Mi hanno seguito per tutta la mia esplorazione dei colli, queste cose, fino a quando ho ceduto al loro invito alla riflessione. Sì, non siamo forse anche noi così? Possiamo davvero ritenerci diversi da un rospo, nell’economia dell’universo? Non siamo fatti fuori anche noi, da un momento all’altro? E resta di noi qualcosa di diverso, nonostante la premura dei superstiti? Leggi tutto “16 marzo, lunedì”

La vita oltre la morte

C’è vita dopo la morte?, mi chiedi.
Certo. Quando tu sarai morto, tutto continuerà ad andare esattamente come prima: ci saranno fiori in primavera e neve d’inverno, si costruiranno ponti e muri, si verseranno molte lacrime e ci saranno molte risate.
Ma io non ci sarò, non sarà la mia vita, dici.
Esatto. Non sarà la tua vita: ma sarà vita. La vita oltre la tua vita. La vita oltre te. E tu vincerai la morte, se vivrai fin da adesso in quella vita che non è la tua vita. In quella vita che non è te.

Rumi, Freud e Neruda

Il Mathnawi di Rumi si apre con la storia di un re che acquista una giovane schiava di cui è innamorato. La ragazza però si ammala, e per guarirla il re chiama i migliori medici: ma nulla. Prega allora Dio, che in sogno gli annuncia che l’indomani arriverà un medico speciale, mandato da lui. E l’uomo arriva, visita la schiava e dichiara che tutte le cure sono state inutili, per una ragione particolare:

بی‌‌خبر بودند از حال درون ** أستعیذ الله مما یفترون‌‌
Non conoscevano lo stato interno. Io cerco rifugio in Dio contro ciò che essi inventano. [Traduzione qui ed oltre di Gabriele Mandel; testo persiano qui.]

E questo medico speciale, diverso dagli altri, comincia la sua cura. Chiede al re di lasciarlo solo con la ragazza, poi la fa parlare, tenendole il polso. La fa parlare della sua nascita, della sua famiglia, della sua città. Il suo obiettivo è cercare la spina nel suo cuore:

خار در دل گر بدیدی هر خسی ** دست کی بودی غمان را بر کسی‌‌
Se ogni misero essere potesse vedere la spina nel cuore, quando mai i dolori riuscirebbero a trionfare sulla gente?

Le tiene il polso per una ragione: quando, nel corso del suo racconto, la ragazza avrà trovato la spina, l’origine del suo dolore, il medico lo capirà dal fremere del suo polso.

Il resto del racconto ha un senso mistico ed esoterico, ma in questo poema, composto una cinquantina d’anni prima della Divina Commedia, troviamo l’intuizione della terapia psicoanalitica. E un verso, ancora, che alle nostre orecchie suona parecchio familiare:

شاد باش و فارغ و ایمن که من ** آن کنم با تو که باران با چمن‌‌
Sta’ felice e spensierata, non temere di nulla, poiché io farò per te quello che la pioggia fa per il prato.

E’ il Neruda di Juegas todos los dias:

Quiero hacer contigo lo que la primavera hace con los cerezos.
Voglio fare con te ciò che la primavera fa con i ciliegi.

Quello che il medico divino fa con la schiava – quello che la pioggia fa al prato – appare ai nostri occhi terribilmente crudele. Ma Rumi avverte:

تو قیاس از خویش می‌‌گیری و لیک ** دور دور افتاده‌‌ای بنگر تو نیک‌‌
Tu giudichi in base a te stesso; ma sei ben lontano. Riflettici bene!

Ci sono primavere dolorose, e ciliegi che, al momento della fioritura, sembrano feriti a morte.