La sparizione della ciabatta

Nel 1925 compare un libro che appare quasi un corpo estraneo nel contesto filosofico del tempo: Realismo, di Giuseppe Rensi. Dopo una giovinezza di impegno politico socialista, l’autore si era dato agli studi filosofici aderendo al neoidealismo, pur nella direzione di un idealismo trascendente ispirato alla filosofia di Royce. La prima guerra mondiale aveva però mandato in crisi le sue certezze filosofiche, spingendolo verso lo scetticismo: del 1919 sono i Lineamenti di una filosofia scettica. Il realismo è il passo ulteriore nel suo rovesciamento delle posizioni idealistiche. Vi sono, sosteneva, un vecchio ed un nuovo spirito della filosofia, che attraversano tutta la sua storia. Lo spirito vecchio è quello che non sa distinguere i fatti dalla fantasia, la realtà dalla coscienza; lo spirito nuovo è quello che sa che un conto è la realtà, un altro le rappresentazioni psichiche. Nel mondo greco – ed è una lettura interessante – è vecchio lo spirito socratico-platonico, mentre nuovo è il relativismo della Sofistica. E vecchio è, naturalmente, il neoidealismo crociano e gentiliano. Di più: esso rappresenta l’Italia peggiore, l’Italia servile e smidollata che è il risultato di secoli di dominazioni. L’alternativa tra realismo ed idealismo era dunque alternativa tra Italia vecchia e nuova:

fra una perdurante Italia dell’epoca ispano-austriaca, dei cortigiani e delle schiene curve, e un’Italia libera, anche nello spirito, dall’oppressione, un’Italia d’uomini che sappiano (e, come dovrebbero, lo possano, senza che ci sia bisogno d’essere eroi e pericolo di subire menomazioni o conculcazioni di varia indole) pensare come credono; l’Italia delle schiene dritte. (1)

A distanza di quasi un secolo l’istanza realista torna a presentarsi nella filosofia italiana con il Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris, esito di un dibattito che ha coinvolto i maggiori filosofi italiani, e che è ancora aperto. Come Rensi, Ferraris proviene dalle posizioni che attacca: allievo di Vattimo e di Gadamer, è stato negli anni Ottanta uno dei più importanti rappresentanti italiani dell’ermeneutica. E come in Rensi, la sua polemica ha uno sfondo politico: Ferraris attacca la filosofia postmoderna accusandola di essere sostanzialmente di destra, collocandosi tra in cinismo di Bush ed il populismo berlusconiano, espressione della degenerazione della “rivoluzione desiderante” degli anni Sessanta e Settanta. Il postmoderno è nato come filosofia emancipativa ed è diventano una filosofia che giustifica il dominio, o nella migliore delle ipotesi non ha strumenti per opporvisi; denunciando i rapporti tra verità e potere, ha finito per “delegittimare la tradizione, che culmina con l’Illuminismo, per cui il sapere e la verità sono veicoli di emancipazione, strumenti di contropotere e di virtù”(2).

E qui c’è una distorsione che mi sembra tipica dei filosofi e degli intellettuali in generale. Ferraris parla come se le vicende della filosofia fossero determinanti per la società, per lo stato, per la civiltà; come se il futuro della gente dipendesse dall’esito di qualche dibattito filosofico; come se dal prevalere del realismo o del postmoderno dipendesse il nostro futuro. Disgraziatamente o per fortuna, le cose non stanno così. La filosofia è faccenda che riguarda soltanto un certo numero di persone, per lo più chiusi nelle università. I cambiamenti storici derivano da altro. Uno strumento come Facebook, inventato da un ragazzo di poco più di vent’anni tutt’altro che incline alla speculazione filosofica, ha cambiato il mondo in cui siamo molto più di centinaia di libri di filosofia.

Quando Ferraris scrive che se non esiste il mondo esterno “allora lo stato d’animo predominante diviene la malinconia, o meglio quella che potremmo definire come una sindrome bipolare che oscilla tra il senso di onnipotenza e il sentimento della vanità del tutto” (3), non si può fare a meno di sorridere. Predominante presso chi? La sindrome bipolare colpirà qualche professore universitario o, al più, qualche studentello di filosofia: poco male. Detto altrimenti: il pensiero non precede la società, non la costruisce, non la orienta più da gran tempo. Nella migliore delle ipotesi, insegue la realtà sociale e politica cercando di comprenderla, ma afferrandone solo brandelli. Ritenere che basti risolvere qualche questione teorica, come quella della realtà del mondo esterno e della oggettività della verità, per riprendere il cammino interrotto dell’emancipazione, è un’illusione: attribuisce al pensiero un potere che il pensiero ha perso da tempo. Il problema reale è un altro. Non: esiste il mondo esterno?, ma: come possiamo cambiare questo mondo, segnato dal male, dall’ingiustizia, dalla disuguaglianza, dallo sfruttamento? Cercare la via della prassi è l’unico modo per ridare alla filosofia un peso politico che non ha più. Dichiarare solennemente che il mondo esiste non ci aiuta a rendere migliore il mondo che esiste; al contrario, pone dei limiti alla prassi, poiché il mondo che esiste ci si pare di fronte con le sue strutture oggettive, immutabili, impenetrabili. La prassi si conforma all’essere, parte dall’accertamento dell’oggettività, ed in ciò trova il suo limite – mentre una prassi assoluta antepone l’istanza etica di giustizia, di verità e di bellezza, ed alla luce di quella istanza aggredisce il reale, pronta anche a negarne l’evidenza in nome di una realtà più alta, che è quella che si presenta alla nostra coscienza etica. E’ quella che altrove ho chiamato forzatura della verità (4).

Ma esiste, poi, la realtà? Esiste il mondo? C’è qualcosa qui fuori di me? Ferraris lo dimostra con l’esperimento della ciabatta. Immaginiamo, dice, che un uomo guardi un tappeto con sopra una ciabatta. Chiede ad un altro di passargliele, e l’altro lo fa senza difficoltà. “Banale fenomeno di interazione, che però mostra come, se davvero il mondo esterno dipendesse anche solo un poco, non dico dalle interpretazioni e dagli schemi concettuali, ma dai neuroni, la circostanza che i due non possiedano gli stessi neuroni dovrebbe vanificare la condivisione della ciabatta” (5).

Consideriamo la faccenda della ciabatta. Vorrei farlo dal punto di vista di una tradizione di pensiero che da qualche millennio si confronta con i temi della realtà e dell’apparenza, e che Ferraris, da bravo filosofo occidentale (o continentale) non prende in considerazione: quella buddhista.

Cos’è una ciabatta? E’ un oggetto con un suo nome ed una sua forma: nama e rupa. Appartiene indubbiamente al mondo delle cose reali. Noi sappiamo, però, che le cosiddette cose reali non sono la realtà ultima, ma sono a loro volta scomponibili in elementi più piccoli. La ciabatta è fatta di un tessuto che ha una sua trama, sotto la quale ci sono le molecole, e poi gli atomi, fino all’infinitamente piccolo. Tutte queste cose – le molecole, gli atomi eccetera – esistono, sono reali non meno della ciabatta. Se non vediamo questa realtà di atomi, ma la ciabatta, è soltanto perché i nostri occhi sono molto imperfetti. Se avessimo degli occhi perfetti come un microscopio a scansione, non vedremmo più la ciabatta. In altri termini, la ciabatta esiste soltanto a causa della nostra ignoranza (avidya), vale a dire per l’imperfezione dei nostri sensi. Affinché l’esperimento della ciabatta riesca, non occorre soltanto che io abbia degli occhi imperfetti, che mi consentano di vedere la ciabatta, e non la struttura sottostante, ma anche che io abbia il concetto ed il nome di ciabatta, e che sappia associarlo a quella immagine; e lo stesso vale per il mio interlocutore. E questa, con ogni evidenza, è una cosa che si svolge interamente nella nostra testa.

Il fatto che si svolga in due teste contemporaneamente non dimostra che non sia una operazione intellettuale che costruisce il mondo esteriore nel suo aspetto di nome e forma. Il concetto di vacuità è presente nel buddhismo fin dalle origini, ma è nella tradizione Mahayana che ha trovato la sua espressione filosoficamente più matura. Vacuità (ś**ūnyatā) non vuol dire che nulla esiste, ma che nessun ente esiste al di fuori di una fitta rete di relazioni, che lo costituiscono; pensare un ente come se fosse una realtà sostanziale, individuata, vuol dire illudersi. Questa consapevolezza del vuoto è nel buddhismo per eccellenza ciò che emancipa. E’ attraverso la considerazione della vacuità di ogni fenomeno, e della vacuità dello stesso soggetto, che si giunge alla liberazione, al nibbana. Ma non solo. Come afferma Candrakīrti, uno dei più rilevanti pensatori della scuola Mādhyamika (continuatore e commentatore del pensiero del più noto Nāgārjuna)

La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come un serpente male afferrato o una formula magica male applicata. (6)

Ciò che emancipa è anche ciò che manda in rovina; rovesciando il detto di Hölderlin che tanto piaceva ad Heidegger, potremmo dire che dove cresce ciò che salva, aumenta anche il pericolo. Se tutto è vuoto, perché non dovrei uccidere questa persona, che è anch’essa vuota? Dove sarà il male? Se tutto è vuoto, il male non esiste. Ma la realtà assoluta non cancella la realtà relativa, nella quale questa persona esiste e soffre, ed ucciderla è male; posizionarsi nella realtà assoluta e negare così ogni morale vuol dire afferrare male il serpente della vacuità. Le critiche di Ferraris alla negazione postmoderna della oggettività del mondo esterno riguardano, mi sembra, questa possibilità di afferrare male il serpente. E nondimeno è necessario afferrare il serpente.

(1) G. Rensi, Realismo, Unitas, Milano 1925, pp. 6-7.

(2) M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 109.

(3) Ivi, p. 25.

(4) Cfr. A. Vigilante, Il pensiero nonviolento, Edizioni del Rosone, Foggia 2004.

(5) M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, cit., p. 40.

(6) Candrakīrti, Prasannapadā, 24, 11, trad. it. in La saggezza del Buddha, a cura di R. Gnoli, Mondadori, Milano 2004, p. 675.

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org

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