La questione delle regole

F. Hundertwasser,
Blobs Grow in Beloved Gardens, 1975
Molti ritengono che le regole non solo abbiano a che fare con l’educazione, ma ne siano l’aspetto centrale, il nucleo, la ragione prima. Per loro una definizione accettabile di educazione è: dare regole. O meglio: imporre regole. Sono, in genere, quelli che lamentano l’assenza di regole nella società attuale, segno sicuro di decadenza e disordine sociale. E’ abbastanza sorprendente che non pochi adolescenti, coloro che maggiormente dovrebbero essere insofferenti delle regole, la pensino allo stesso modo.
C’è qualche ragione in questo ragionamento. E’ vero che una società senza regole va alla deriva (ma meglio sarebbe dire che semplicemente una società che non abbia regole non può sussistere). E’ vero anche che le regole hanno qualcosa a che fare con l’educazione. Ma è ancora più vero che un eccesso di regole può bloccare una società e trasformare l’educazione in qualcosa di diverso.
Che la regola abbia a che fare con l’educazione sembra confermato dall’etimologia: regola viene da regere, ossia reggere, guidare, governare, dominare. Regula in latino è sia la legge che il regolo, la riga che si usa per tracciare linee diritte. Il senso della regole è appunto questo: fare in modo che ciò che è contorto diventi lineare; ricondurre la complessità delle cose alla semplicità della linea retta. Una semplicità che però non è priva di pericoli. Diceva il pittore ed architetto Friedensreich Hundertwasser: “Vi sono milioni di linee, ma una sola è portatrice di morte: quella tracciata con la riga”.

Il mondo in cui viviamo è, appunto, un mondo tracciato con la riga. Sono tracciate con la riga le nostre costruzioni, nelle quali l’angolo retto è onnipresente, e sono tracciate con la riga le nostre azioni. Una regola sociale ha due funzioni: la prima è quella di dire cosa si può fare e cosa non si può fare, la seconda è quella di dirci come dobbiamo fare quello che possiamo fare. C’è la regola, irrinunciabile, che ci dice che è sbagliato uccidere, e c’è la regola che ci dice come dobbiamo comportarci a tavola, o interagire con un estraneo in ascensore, o corteggiare una donna. Se il numero di cose che non possiamo fare aumenta a dismisura, restiamo schiacciati sotto il peso delle regole, ma ancora più grave è il pericolo per noi che viene dal secondo aspetto delle regole. La conseguenza è la totale devitalizzazione e perdita di spontaneità. In ogni nostra azione siamo condizionati dalle forme sociali (Simmel), come se fossimo costretti per tutta la vita a recitare un copione scritto da altri. La letteratura del Novecento, a cominciare dal nostro Pirandello, ha mostrato le conseguenze anche tragiche di questa iper-regolarizzazione della nostra vita.
Le regole sono dunque una cosa pericolosa, da maneggiare con estrema cura; un veleno sociale che, preso a piccole dosi, può anche fare bene, ma facendo molta attenzione a non eccedere. Ed è questo esattamente che deve fare l’educatore. Non fare a meno delle regole, ma nemmeno pensare che dare o imporre regole sia l’essenza dell’educazione. Stabilire poche regole, invece; e stabilirle bene: e cioè insieme.
Uno degli aspetti antipatici delle regole è infatti questo: in genere sono stabilite da altri e le troviamo già fatte, senza altra scelta che adeguarci o ribellarsi. E’ incredibile come in una società che si dice democratica i momenti nei quali i cittadini decidono le regole insieme – in qualsiasi ambito – siano rari. Se non ci si ribella a questo stato di cose, è perché siamo abituati fin da piccoli ad adeguarci a regole decise da altri. Il primo criterio da seguire riguardo alle regole dovrebbe dunque essere questo: discutere le regole insieme e stabilirle solo quando la loro razionalità appare indiscutibile. E’ una cosa quasi inconcepibile, se si resta nel paradigma asimmetrico, secondo il quale l’educatore occupa una posizione superiore rispetto all’educando e può esercitare su di lui una forma di dominio. In questo caso l’educatore, come un pessimo politico, si considera al di sopra della norma poiché è colui che impone la norma. C’è una relazione effettiva tra questo modo di educare e la degenerazione della democrazia in una oligarchia irresponsabile. Coloro che da bambini hanno avuto genitori che non rispettavano loro stessi le norme che imponevano saranno da adulti cittadini incapaci di ribellarsi ad una classe politica che si considera al di sopra di ogni regola e ritiene di non dover rispondere a nessuno dei propri comportamenti.
Che le regole siano condivise, dunque. Discusse insieme e rispettate da tutti. Questa è, mi si passi il bisticcio, la prima regole delle regole in educazione. La seconda è: poche regole, comunque. Solo quelle davvero indispensabili. La terza regola è: non dimenticare mai che le regole sono un mezzo, non un fine. Servono per far funzionare le cose, ed è tutto qui il loro senso. Le regole diventano un fine quando il rapporto educativo è un rapporto di dominio. Allora l’educatore sente la necessità di imporre regole anche inutili solo per verificare se il figlio, o lo studente, le segue, accettando così la sua autorità.
Ma che fare se le regole non vengono rispettate? Quando le regole vengono imposte da un’autorità, il problema ha una soluzione semplice: la punizione. Il bambino che non ha rispettato la regola sarà rimproverato, andrà a letto senza cena o prenderà uno schiaffo. La logica è quella del comportamentismo: un rinforzo negativo che dovrebbe estinguere il comportamento sgradevole. Pare però che le cose non vadano proprio così. Una punizione, se vissuta come ingiusta, può compromettere il rapporto educativo e far nascere sentimenti di ostilità e di ribellione, o al contrario può diventare una routine, qualcosa cui si finisce per fare il callo. Ciò da cui bisogna partire è la premessa stessa di qualsiasi relazione educativa: la fiducia. Il che vuol dire sapere che il bambino o l’adolescente hanno avuto buone ragioni per non rispettare le regole. Può essere che quelle regole, discusse e decise insieme molto tempo prima, abbiano bisogno di essere riviste, perché le situazioni cambiano e le persone crescono. Può essere che la trasgressione alla regola sia il segno di un disagio o di un malessere. Può essere, ancora, che si tratti di una semplice debolezza, non diversa da quelle che hanno gli adulti. In ogni caso, l’unico strumento intelligente è il dialogo. Attraverso il dialogo si capirà se c’è da cambiare, ancora una volta insieme, le regole, oppure se c’è qualche problema di fondo (ad esempio un momento di stanchezza psico-fisica che rende particolarmente pesante al bambino l’incombenza pomeridiana dei compiti); e sempre attraverso il dialogo sarà possibile far emergere l’evidenza dell’errore e concordare sulla necessità di evitare di farne altri.
Articolo per la rubrica Educazione e Libertà, nel sito Il bambino naturale.

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org

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