La prima volta che ho tradotto questi versi avevo diciassette anni. Era un esercizio: tradurre più cose possibile in endecasillabi, perché volevo che l’endecasillabo mi venisse naturale come il respiro. E tradussi Lucrezio (il secondo e il terzo libro per intero), e Orazio, e Baudelaire. Ed altro ancora. Credo di aver imparato da questi versi di Lucrezio più che da qualsiasi testo di filosofia. Ho imparato che dietro la maschera del potere c’è la miseria umana; che il potente, quasi non-uomo per la sua arroganza, per il ghigno che disgusta ed indigna, è in realtà un poveraccio, corroso dentro dal cancro del terrore. Non si possono leggere forse questi versi straordinari come un ritratto della classe politica della disgraziata Italia di oggi? Non li conosciamo, quei gusci vuoti che “ridono ai funerali dei fratelli” (”Io stanotte ridevo dentro al letto”)? L’invito a provare compassione per questa gente sembra una provocazione. Ma la compassione nasce da sé, appena ci si sofferma a considerare la terribile nudità di questi uomini e di queste donne, sospesi tra il terrore e la follia.
La gente spesso dice che la morte
e l’inferno non sono da temere
più delle malattie o di una vita
squallida – poiché l’anima, lo sanno,
non è che sangue, o se si vuole vento,
e la nostra dottrina serve a nulla.
Non fidarti: lo dicono per vanto
e non perché lo pensino davvero.
Guardiamoli: esiliati dalla patria,
mandati via dal cospetto degli uomini,
accusati dei crimini più turpi
affetti insomma da ogni pena vivono
nondimeno, ed ovunque li sospinge
la malasorte bestie nere immolano
e riti funebri offrono agli spiriti
degli antenati. Più la vita è dura
e più si volgono alla religione.
Per questo occorre giudicare l’uomo
nelle incertezze, e in mezzo ai casi avversi
saper chi sia: infatti allora sgorgano
le vere voci dal fondo dall’anima
e la maschera cade, e resta il volto.
L’avarizia, la fame dissennata
del prestigio che spinge i miserabili
ad andare al di là del giusto limite
a compiere delitti o a farsi complici
a sforzarsi con ansia giorno e notte
di raggiungere il massimo potere
sono mali, ferite della vita
che non poco alimenta la paura
della morte. Si crede che il disprezzo
e la miseria rendano impossibile
una vita piacevole e serena,
anticamere quasi della morte.
Inganna, la paura: e per fuggire
questi mali c’è gente che col sangue
dei sui concittadini ammassa beni,
raddoppia le ricchezze ed i delitti,
ride alle tristi esequie dei fratelli
ed ha paura di mangiare insieme
ai parenti. L’invidia li distrugge:
“Ma guardalo il potere che gli danno,
e quest’altro che passa come un dio
attorniato da stuoli di lecchini!”
E cadono nel fango e nella tenebra.
Vogliono, altri, la fama, e le statue.
E spesso per paura della morte
maturano un tal odio della vita
e della luce che col cuore gonfio
d’amarezza s’ammazzano. Non sanno
che il male che li affligge è la paura,
quel terrore che vince ogni ritegno
che spezza ogni legame d’amicizia
e li spinge a tacere la pietà.
Non pochi hanno tradito i genitori
o la patria cercando di sfuggire
all’Acheronte. Come i bimbi tremano
nel buio cieco, e tutto li spaventa,
così nel pieno della luce a volte
ci spaventano cose più risibili
di quelle che spaventano i bambini,
di quelle che s’aspettano i bambini.
Lucr. De Rer. Nat., III, 41-90.
1989-2010.