I limiti del controllo

Qualche settimana fa uno studente mi ha fatto una domanda cui non è facile rispondere. Avevo letto in classe alcune pagine de Il futuro della democrazia di Norberto Bobbio, un libro del 1984 per molti versi ancora molto attuale. Nel primo capitolo Bobbio ragionava delle “promesse non mantenute” della democrazia. Tra le altre, la persistenza delle oligarchie, di ambiti in cui si esercita il potere in modo non democratico (e molto c’è da riflettere, oggi, sui social network), di forme di potere che si sottraggono al controllo (un controllo, osservata Bobbio, “tanto più necessario in un’età come la nostra in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quello che fanno i cittadini è enormemente aumentato, è praticamente illimitato”), la mancanza di una educazione del cittadino, l’incapacità di uno Stato democratico di rispondere alle richieste sempre più numerose che provengono dalla società civile.
La domanda dunque era: come possiamo dimostrare che la democrazia sia in assoluto il miglior sistema di governo? Si trattava di una lezione di Scienze Umane, e studiando antropologia gli studenti già al terzo anno imparano cos’è il relativismo culturale. Se ogni cultura ha i suoi valori, come possiamo sostenere il valore transculturale della democrazia? Leggi tutto “I limiti del controllo”

רוּחַ-אֱלֹהִים רָעָה

Dio è buono, dici. Anzi, è il Bene. Ma dal Bene può venire il male? No, dici. Il male viene dal Diavolo. Ma perché allora nel primo libro di Samuele (16, 15) si legge:

הִנֵּה-נָא רוּחַ-אֱלֹהִים רָעָה, מְבַעִתֶּךָ

La CEI traduce, correttamente, “Ecco, un cattivo spirito di Dio ti turba”, mentre in una traduzione evangelica trovo “uno spirito cattivo permesso da Dio”, che vuol dire distorcere il testo. רוּחַ-אֱלֹהִים רָעָה significa proprio “uno spirito cattivo di Dio”. Ma se Dio è il Bene, come può venire da Dio “uno spirito cattivo”?

24 novembre

Ieri a Foggia sono morti due poveri. Vivevano in una baracca, si scaldavano con un braciere. Li ha uccisi il monossido di carbonio. Non avevano ancora quarant’anni.

Una volta, quando pubblicavo un foglio anarchico che si chiamava Tophet, contai gli immigrati morti tragicamente a Foggia: per lo più investiti a bordo strada, qualcuno – come la romena Claudia Ioana Pop – annegato nelle vasche per l’irrigazione, qualcuno bruciato. Erano decine. Una strage silenziosa, che avveniva, che avviene nell’indifferenza più completa.

In genere quando delle persone sono ridotte a cose senza importanza, c’è un dispositivo di disumanizzazione. Nel mondo antico, afferma Roberto Esposito, era il concetto stesso di cosa, che finiva per inghiottire anche esseri umani. Nel mondo cristiano, sosterrei io da qualche parte se fossi meno pigro, è la figura del Diavolo che consente la disumanizzazione e il massacro. Quello che sconcerta, a Foggia, è che non c’è bisogno di alcun particolare dispositivo per giustificare questo lento massacro. La ferocia è strutturale, si situa ad un livello preculturale, è un veleno che è nell’aria, che si respira parlando, ridendo, andandosene in giro per i centri commerciali. Perfino pregando.

6 novembre 2019

“L’individuo è cosciente della vanità delle aspirazioni e degli obiettivi umani e, per contro, riconosce l’impronta sublime e l’ordine ammirabile che si manifestano tanto nella natura quanto nel mondo del pensiero. L’esistenza individuale gli là l’impressione di una prigione e vuol vivere nella piena conoscenza di tutto ciò che è, nella sua unità universale e nel suo senso profondo. Già nei primi stati dell’evoluzione della religione (per esempio in parecchi salmi di David e in qualche Profeta), si trovano i primi indizi della religione cosmica; ma gli elementi di questa religione sono più forti nel buddhismo, come abbiamo imparato in particolare dagli scritti ammirabili di Schopenhauer.”*

– Direi che c’è tutto, qui.
– Tutto? Cosa?
– Il trascendimento. Quello che chiamo, anzi, attraversamento.
– E che ti sembra dell’ordine ammirabile?
– Che intendi?
– Intendo l’ophiocordyceps unilateralis.
– A suo modo è mirabile.
– A condizione di non essere una formica. A meno che tu non voglia dire che la formica attraversa il suo ego.
– Nemmeno io vedo una impronta sublime. Ma sento la necessità dell’attraversamento.
– Che sarà verso il radicale non senso delle cose, immagino.
– Fihi ma fihi.
– E la formica?

* Einstein, Come io vedo il mondo, Newton Compton.

Liberatore V.

Il vento di marzo porgeva al fiuto dei signori il profumo dei tempi nuovi e sibilava sulla schiena curva dei cafoni con una carezza gelida, presagio di sventura, di un volgere ancora più triste di quella faccenda affannosa e senza grazia che era ed è lo stare sulla terra, lo stare nella storia. Aggrappati al monte con la tenacia e l’energia degli organismi primitivi, chiusi nel carcere delle quattro vie d’un borgo che si palesava cacato dal nulla – più delle altre vie e città e volti, voglio dire -, i cafoni assistevano da sempre al naturale svolgersi degli eventi con la pazienza e l’indifferenza degli animali da cortile; epperò qualcosa quell’anno stava cambiando, e te ne accorgevi da una parola in più nel parlare essenziale delle donne, da una nota più lunga, più ansiosa quando chiamavano i bambini, da un innaturale affrettarsi all’uscita dalla chiesa. I ritmi avevano subito qualche cambiamento appena percettibile, l’usata trama del vivere mostrava qualche tema nuovo, e qua e là compariva un lieve strappo, un tratto liso, mentre i signori, chiusi nelle giamberghe, sembrano risplendere più che mai nella natura loro – che era, indefettibilmente, di due generi: austeri, impassibili e lontani alcuni come statue, grassi, rosei e gioviali come porcelli gli altri. I primi ai cafoni mettevano una paura fottuta, roba da scappar via alla fontana, da abbassare lo sguardo come vergini, da farsi muti come pesci. Gli altri stavano tra i cafoni come cani da guardia tra le pecore al pascolo, di tutto lieti, allegri come lo stare al mondo fosse una festa, fraternamente ironici coi cafoni, delle cui mogli sorelle e figlie non disdegnavano di apprezzare le cosce e le zinne. D’un genere suo, anzi privo di qualsivoglia genere, unico nel suo esser-così, era Liberatore.

A chiedere in giro, difficilmente avresti trovato qualcuno capace di dirti come e quando precisamente era comparso quel cristiano alto e smunto, come roso dentro da una irragionevole tristezza, seccato dal fastidio di campare, eppure capace di un suo sorriso tragico, che alla gente pareva contenere una qualche oscura minaccia. Nessuno ricordava i parenti suoi, o di averlo visto giocare, criaturo tra i criaturi, nelle fangose vie del paese. Era, il suo stato, quello dei signori, ma pareva averlo rifiutato con una decisione di cui sfuggiva il perché. Se ne stava per suo conto, viveva la sua vita solitaria dove il paese si spegneva nella campagna, rintanato in un buco di cui s’ignorava il decoro, l’ampiezza, la decenza, poiché nessuno poteva vantarsi d’aver bevuto un bicchiere di vino oltre quell’uscio. Liberatore era l’esattore delle imposte. Il suo lavoro consisteva nel togliere ai cafoni quel poco che avevano. E’ un lavoro che può dare le sue soddisfazioni, soprattutto se fatto da un porcello di quelli che s’è detto: la soddisfazione di chi dà una mano al procedere logico della civiltà, che nulla ha da attendersi dai cafoni, se non che contribuiscano come possono al benessere di quelli che sanno cosa farsene dei trenta, quaranta o cinquant’anni che stanno tra il pianto della nascita e quello della morte. Ma Liberatore non provava nessuna soddisfazione. Avresti detto che bruciava di compassione per quella gente sporca e bastarda, e che si fosse imposto quel lavoro come una croce da portare sulle spalle per pagare chissà quale colpa compiuta in quel passato buio nel quale nessuno riusciva a scorgerlo.
Accadde una mattina, a metà mese. Una mattina di domenica. Una mattina fredda, epperò limpida, senza tormento di nuvole o battere di pioggia a frapporsi tra il qui e l’oltre, tra il dire e l’ascoltare. Coglionato da tre o quattro ragazzetti dei più cenciosi e stronzi sputati in strada dai bassi, Liberatore se ne venne allo slargo davanti alla chiesa del Purgatorio, lì dove scura una fontana emergeva dal pantano. Si fermò, mentre i figli di zoccola si disperdevano in un vicolo, e guardò le donne alla fontana. Erano quattro, una anziana, chiatta, il cui puzzo di lardo e sudiciume giungeva fino ai margini dello slargo, le altre tre ragazzette spinose e ostili come fichi d’india.


Questo racconto – incipit, a dire il vero: o scena – concluse, non saprei dire quanti anni fa, il progetto di Microcenturie. Estuario per romanzi fiume di breve corso.  Lo salvo qui, perché il sito non è più attivo da tempo.

La verità dell’annegato

La verità è reazionaria, l’interpretazione è rivoluzionaria. Questo, in sintesi estrema, è il messaggio che Gianni Vattimo affida a Essere e dintorni (La nave di Teseo, Milano 2018). Per chi, come chi scrive, si è formato filosoficamente tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del secolo scorso, Vattimo è stato un maestro; attraverso di lui abbiamo letto Nietzsche e Gadamer, grazie ai suoi scritti siamo riusciti perfino ad entusiasmarci per Heidegger, prima che Franco Cassano ci richiamasse alla civiltà del mare contro l’ossessione heideggeriana per il bosco (Il pensiero meridiano, 1996: un libro che merita di essere riletto e rimeditato con attenzione). Ma, per quanto faccia piacere che giunga a pensarsi perfino come anarchico (gli anarchici non sono mai abbastanza), si fatica davvero a seguirlo.

Abbiamo, dice, una società neoliberista che si presenta come l’unica possibile, come la forma stessa che la realtà assume oggi, una cornice alla quale non è possibile sottrarsi, e che è anzi talmente solida da scomparire anche come cornice. Quale filosofia corrisponde a questo sistema? Il realismo, la filosofia che afferma che le cose sono come sono, e che dunque giustifica il fatto che queste cose siano come sono. Lo dimostra, per Vattimo, il fatto che George W. Bush anni fa abbia dato qualche riconoscimento al nuovo realismo di John Searle: che non è un grande argomento, per un filosofo. Ed ecco, se questa verità – la realtà esiste, ed è quella in cui siamo – è funzionale al capitalismo, l’affermazione che la verità non esiste, che esistono solo interpretazioni (che è quello che sostiene l’ermeneutica), sarà rivoluzionaria. Vattimo si spinge perfino a parlare di una “vocazione terroristica dell’ermeneutica” (p. 74), ed il lettore non può fare a meno di sorridere, o si piegare il labbro amaramente. Perché questa presunta anarchia ermeneutica Vattimo pretende di fondarla non solo su Gadamer, che era un brav’uomo borghese e conservatore, ma anche su Heidegger, che invece era un nazista e un antisemita. In tutto il libro avvertiamo la fatica, il fiato grosso, lo stridore di unghie di un Vattimo che cerca di dimostrare che no, Heidegger non era davvero nazista, cioè era nazista ma dietro c’era qualcosa che va meditato, e sì, era antisemita, però in fondo Israele… Fino all’affermazione che il filosofo di Messkirch “alla luce di ciò che sappiamo oggi” avrebbe potuto e dovuto “puntare sulla rivoluzione comunista” (p. 383): e tu non puoi fare a meno di annotare a margine che se tuo nonno avesse avuto le ruote, sarebbe stato una carriola. Su Heidegger aveva ragione Cassano. Non era un teorico del nazismo (il suo rapporto con il nazismo non è paragonabile a quello di Gentile con il fascismo); era un filosofo in cui sono giunte a maturazione (meglio sarebbe dire: sono marcite) diverse linee ideali che hanno costituito la matrice del nazismo: il rifiuto del mondo moderno, l’evocazione della natura, dell’originario (si può misurare il tasso di nazismo di un testo tedesco considerando la ricorrenza del prefisso Ur-), la condanna della conoscenza scientifica e della tecnica. I motivi ideali che facevano tenerezza nei Wandervoegel e che creeranno l’orrore qualche decennio dopo. Heidegger non ha da dirci nulla più di un René Guenon o di un Julius Evola. Cioè: non ha nulla da dirci, tout court. Non, almeno, a sinistra. Non sorprende che, dopo aver ispirato Ahmad Fardid, tra i principali pensatori della rivoluzione iraniana, oggi faccia battere forte il cuore ad Alexandr Dugin, il filosofo del sovranismo, che riesce perfino a riprendere il Geviert, la più colossale stronzata heideggeriana.
Quanto alla faccenda della verità, mi pare che Vattimo si sbagli. Il capitalismo avanzato non ha alcun bisogno della verità, e meno che mai del realismo vecchio o nuovo. Nel sistema in cui siamo la verità è stata soppiantata da un sistema di rimandi, da una significazione universale priva di qualsiasi significato, da un caleidoscopio di immagini che non hanno più alcun peso simbolico, ma che con il loro potere di seduzione costituiscono la forma stessa della realtà. Detto altrimenti: siamo nella società dello spettacolo, come aveva capito Guy Debord. E nella società dello spettacolo nulla è vero. Tutto è immagine, e in quanto immagine, è spettacolo. Ciò che non può esistere come spettacolo semplicemente non esiste. E’ questa la tragedia che viviamo, anche politicamente.
Consideriamo chi muore in mare nel tentativo di raggiungere un approdo negato. Se c’è un reale sul quale possiamo e dobbiamo fondare la politica, oggi, esso è l’annegamento di questo uomo, di questa donna, di questo bambino. Ma è reale? Quale realtà ha quella morte? Sappiamo il numero dei morti. E’ un numero impressionante. Ma lo sappiamo davvero? Se lo sapessimo davvero, se quello per noi fosse un reale, non potremmo continuare con le nostre vite. Quella morte è una interpretazione. Può essere che sia vera, può essere che non sia vera. E quando ci giunge la foto di un bambino con la maglia rossa annegata sulla spiaggia, non abbiamo l’irruzione del reale: abbiamo lo spettacolo. Pubblicata dai giornali, condivisa sui social network, vista su milioni di schermi, quella tragedia finisce per essere digerita dal sistema delle immagini, che non sarebbe tale – non sarebbe un sistema – se non avesse il potere di assorbire anche ciò che è tragico e doloroso.
In Realismo capitalista Mark Fischer parte dallo stesso assunto di Vattimo – il capitalismo è oggi la forma stessa della realtà – ma giunge a conclusioni opposte. Per combattere il capitalismo abbiamo bisogno, diceva Fischer, di reali, di ciò che il capitalismo rimuove e reprime. Tale era, per lui, la catastrofe ambientale, tale era la depressione, tale era la burocrazia. Si potrebbe aggiungere che tale è, oggi, la morte in mare di chi cerca salvezza. La fine della natura, la nostra maledetta sofferenza ed alienazione (sulla quale il Carlo Michelstaedter de La persuasione e la rettorica ha da dirci molto di più del primo Heidegger di Essere e tempo), la morte in mare sono tre reali che urgono farsi verità. E come possano trovare, farsi verità in un sistema che riduce tutto a spettacolo è forse il principale problema filosofico del nostro tempo.

Gli Stati Generali, 23 luglio 2019.